OGGETTO: Il fiato del nemico - atto secondo
DATA: 09 Novembre 2020
SEZIONE: inEvidenza
Il Nagorno-Karabakh, enclave armena in territorio azero, è ritornato ad essere il centro della disputa fra Armenia e Azerbaijan.
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Attraversando il corridoio Lachin nel quarantesimo giorno del conflitto il cielo man mano si annuvola, le ombre alte delle montagne coprono gradualmente la strada e poi, lungo uno dei tanti ponti che collegano il corridoio al Nagorno, appare il primo segno evidente del conflitto: l’asfalto forato dalla caduta di un missile delimitato da un semicerchio di coni stradali. Uno dei passeggeri chiede all’autista di fermarsi, nauseato dalle curve e dai tornanti che prima salgono e poi scendono verso la tacita valle di Stepanakert. Tira un respiro profondo cercando di alleviare la sensazione di stordimento. Poi rientra nel veicolo che riparte e attraversa il confine della capitale fantasma.

Stepanakert è sommersa dalle macerie a destra e a sinistra, e nonostante sia già una città morta, installazioni Smerch continuano a bombardare la città frantumando perfino i ruderi rimasti e riducendoli in briciole.

Le carcasse delle auto bruciate vengono decorate dalle foglie morte che si accumulano fra il parabrezza e il tergicristallo (il segno di un autunno che nessuno avrebbe desiderato, che insieme agli alberi spoglia anche le case). L’ospedale della maternità, colpito più volte, ha un fianco debole e danneggiato e sembra accasciarsi su un lato mentre le operazioni di evacuazione vanno avanti già da molti giorni. Le strade sono vuote e sorde. A completare questo quadro tragico alle porte dell’inverno si unisce la piaga del COVID che inizia a insinuarsi nei rifugi, indomabile e indifferente ai traumi della guerra; In un bunker come tanti, sotto una torcia impolverata al fianco della quale pende la bandiera dell’Artsakh, un medico esegue il tampone agli sfollati nel silenzio assoluto. Il paziente strizza gli occhi, si ritrae, poi si arrende al fastidio provocato dal batuffolo. Dietro di lui, dall’ombra, si fa avanti il prossimo. I più gravi vengono trasferiti nelle cliniche di Yerevan. A preoccupare è soprattutto la possibilità che tale pandemia possa iniziare a diffondersi nelle trincee e aggiungere cadaveri alle quasi 1200 vittime militari.

Libri vengono portati al macero e i soldi ricavati finanziano la guerra nel Nagorno-Karabakh

Nelle case abbandonate le foto di famiglia disposte ordinatamente su una mensola, sono coperte dalla polvere. Le tende strappate e cadenti danno il senso di una privacy rotta con la forza. Eppure questi segni di morte non sono ancora sufficienti a debilitare la forza vitale dell’eros. Una coppia è diventata il simbolo della caparbietà armena celebrando le proprie nozze nella cattedrale bombardata di Ghazanchetsots, illuminata dal fascio di luce celestiale proveniente dalla cupola sfondata. Si chiamano Mariam e Hovik. Si baciano e si scambiano la fede, lei in abito da sposa, lui in divisa militare, pronto a tirare fuori il Kalashnikov.

Dall’inizio del conflitto nessuna mediazione internazionale è ancora riuscita a placare gli interventi offensivi, e intanto gli azeri sono riusciti ad aprirsi un varco nelle interiora dell’enclave lasciandosi alle spalle qualche esecuzione sommaria (su cui è scattata l’indagine del Consiglio d’Europa per crimini di guerra) che ha sollecitato la bile della comunità armena e sparso molto sangue. E questo avanzamento, nonostante la lodevole difesa di casa, ha portato alcuni gruppi di sabotaggio azeri a soli 5km da Shushi, città chiave del dominio della regione. Se Shushi sarà conquistata, arrivare a Stepanakert sarà come un banalissimo gioco. A quel punto, per gli armeni, diventerà molto difficile poter riprendere il controllo dell’area, ma sicuramente non impossibile; “E’ la strategia che vince, non il numero”, dicono a ragione nei social.

Scorcio di Stepanakert

I tentativi di isolare il territorio interessato sono stati ormai molteplici e i rischi di un isolamento effettivo e totale sono divenuti talmente alti che, ai media stranieri, viene perfino sconsigliato di introdursi nella zona (è stata perfino introdotta la necessità di procurarsi un permesso speciale dalla Repubblica D’Armenia). Anche se non si vedono, il numero di volontari militari qui aumenta di settimana in settimana. E Leonid Azgaldyan (fisico, stratega e militare armeno), avendo affermato che “la nostra più grande ricchezza è il soldato volontario[…]” ne sarebbe sicuramente molto felice, se solo fosse qui.

In questi giorni il Nagorno è diventato il campo gravitazionale attorno a cui si accumulano gli armeni di tutto il mondo, una diaspora al contrario che prima ha sputato fuori e adesso si richiude in se stessa riprendendosi ciò che ha disperso. I volontari armeni arrivano da ogni parte del mondo e specialmente dalla Francia. Alcuni di loro sono veterani della prima guerra e hanno deciso di lasciare casa e lavoro per correre in soccorso della patria. Alcuni sono anche ricchi businessmen: “io lavoro a Yerevan, sono un uomo d’affari, e sono anche molto ricco. Però ho deciso di venire qui, e combattere, come tutti gli altri, per difendere questo pezzo di terra che è sempre stato storicamente il nostro” spiega Armen, sedendo con le spalle dritte su un materasso di fortuna.

Marcia di commemorazione delle vittime di guerra, Yerevan

A Yerevan, però, in questi giorni, la storia va comunque al macero. Migliaia di libri  invenduti vengono riciclati per trarre profitto dalla carta e finanziare la guerra. Documentazione storica che, in un modo o nell’altro, comunque non è più utile al dialogo e le cui versioni vengono contestate da entrambe le parti coinvolte nel conflitto. Il 30 Ottobre, una colata di un  liquido fluorescente cade da un punto imprecisato del cielo notturno. Non è polvere di stelle. Si tratta di fosforo bianco, utilizzato dagli azeri per incendiare i boschi e facilitare la percorribilità di alcune aree strategicamente interessanti. Dal momento che alcuni gruppi di sabotaggio azeri si sono già infiltrati fra le file armene, avere fra i piedi qualche albero in meno potrebbe probabilmente comportare qualche beneficio tattico. Adesso il Nagorno brulica di individui che si muovono furtivamente.

Queste notti in cui la guerra è diventata prevalentemente una guerra di fanteria, i pochi civili rimasti vivono una vita ancora più ancorata ai bunker. I viveri vengono distribuiti esclusivamente da volontari militari che conoscono bene i passaggi sicuri e quelli insicuri, i momenti migliori e quelli peggiori. E fra un lavash e l’altro ai civili vengono distribuite anche le armi, perché difendersi potrebbe essere l’unica via per salvarsi la vita e fare la differenza. Nel frattempo si accendono in movimenti di protesta in tutto il mondo. In Francia i rispettivi rappresentati della comunità armena e turca si sono scontrati violentemente durante una manifestazione della diaspora armena a sostegno del Nagorno-Karabakh provocando diversi feriti. Il 2 Novembre il gruppo ultra-nazionalista turco dei “lupi grigi” è stato dichiarato illegale. Complice di queste conseguenze è anche il rovente rapporto che Macron  (storicamente in ottimi rapporti con la Repubblica D’Armenia) intrattiene in questi giorni con il presidente turco Erdogan. Quest’ultimo, in una recentissima conversazione con il presidente russo Putin, sottolinea che “il suo fratello Aliyev si dice vicino alla vittoria”. Non si è ancora in grado di fornire una previsione sulle sorti ma quel che è ormai certo è che ci troviamo davanti a una dinamica che potrebbe diventare decisiva.

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