OGGETTO: Il cinquantunesimo Stato
DATA: 15 Luglio 2024
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Racconti
AREA: Italia
L'Italia americana è una creatura di recente sviluppo. È solo negli ultimi anni, infatti, che è stato assorbito tutto ciò che arrivava da oltreoceano con una inconsapevolezza impensabile. È così che i fatti di casa loro sono diventati fatti di casa nostra. Ed è così che si saluta con gioia la cessione di propri comparti strategici, quale dovrebbe essere la Tim, per motivazioni puramente economiche e finanziarie, e non come tributo all’impero di cui gli italiani si sentono orgogliosamente parte.
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Forte di una posizione di cerniera tra i due blocchi nonché della propria – dimenticata – collocazione geografica al centro del Mediterraneo, l’Italia ha giovato per decenni di una certa accondiscendenza da parte del patron americano nei confronti della propria politica estera. Il timore statunitense nei confronti di qualunque satellite o alleato, è sempre quello di vederlo slittare tra le braccia dei nemici. Situazione in parte simile all’attuale postura assunta dall’Ungheria. Laddove la narrativa attribuisce meriti o iniziative al solo Orban, la repubblica magiara sta invece sfruttando la propria posizione di confine – al pari della Polonia – per rafforzarsi e per giocare su più tavoli, ponendosi come interlocutore contemporaneamente di russi, americani, ucraini e cinesi.

Come sempre sono le mutate condizioni storiche a determinare la traiettoria di una collettività. Fino a quando è esistita la contrapposizione globale tra americani e russo-sovietici, l’Italia ha sfruttato simili circostanze per muoversi con relativa libertà entro il proprio spazio di strategica pertinenza. Rinunciando, complice la sconfitta del 1945, alla potenza marittima, ma legando a sé diversi Paesi arabi e mediterranei. Costruendo una cintura di sicurezza, in maniera talvolta spregiudicata. Legandosi a sistemi autoritari come la Tunisia e la Libia. Strizzando l’occhio all’Algeria, in contrapposizione agli interessi dei vicini francesi. Istituendo un canale privilegiato con i paesi del blocco sovietico, con la stessa Unione Sovietica e con l’Africa Sub-Sahariana, tramite l’Eni, la Fiat e il Partito comunista.

Allo stesso tempo, pur in una mutata consapevolezza nazionale, senza rinnegare la propria storia. Circoscrivendo – come un trauma vero e proprio – al solo fascismo la fase più ignominiosa del proprio passato. Ricordando, altresì, con rispetto le imprese risorgimentali e la guerra del 1915-1918. Sottolineando l’impatto positivo dell’Italia nelle colonie, con l’unica eccezione del ventennio fascista.

Al netto della discutibilissima veridicità di tali elementi, la storia italiana è nei primi decenni del dopoguerra ancora viva e vegeta. Pur nel crescente fascino consumistico esercitato dall’impero irresistibile (come da fortunata definizione di Victoria de Grazia) e denunciato, quando era ancora insignificante, da Pasolini, non si può ancora parlare di americanizzazione. Il cinema italiano può in tal senso ironizzare sui tentativi da parte della popolazione italiana di scimmiottare lo stile di vita americano, come nel celebre “Un americano a Roma” di Alberto Sordi.

La cifra culturale italiana rimane unica. Si manifesta in una produzione cinematografica raffinata, forse la fase artisticamente più produttiva nella storia della penisola dopo il Rinascimento. Magnificenza di millenaria eredità, venatura carsica che al ricordo del passato unisce il fascino per una miseria ancora imperante. Il pragmatismo di una civiltà del tutto peculiare. Combinazione unica tra le rovine di un impero lontano, di una cultura in grado di illuminare tutto il continente per secoli e un’ancestrale civiltà contadina plasmata nel bene e nel male dalla Chiesa di Roma e di crescente proletariato urbano, intrisa di tradizioni e di differenze campanilistiche. Omogeneità incompresa, pur nella straordinaria ricchezza delle varie espressioni. Unità linguistica al di là delle – ingiustamente – vituperate produzioni dialettali, nel solco di una lingua di straordinaria complessità, dalle inimitabili sfumature.

Essere civiltà di confine implica una continua revisione dei propri valori e della propria visione del mondo. La giovane età della popolazione e la sua naturale irruenza e intraprendenza, producono decenni violentissimi, ma anche una roboante e contraddittoria espansione economica e artistica.

Il giro di boa comincia sul finire degli anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta. Culmina negli anni Novanta con il collasso dell’impero sovietico e del suo blocco.

Improvvisamente, da provincia confinante dell’impero americano, l’Italia viene inglobata. Perde il proprio status e accetta ben volentieri tale declassamento. Per naturale invecchiamento della popolazione, con conseguente – e legittima – insofferenza verso il sangue che ne ha scandito la storia, nonchè per irresistibile fascinazione verso il centro dell’impero, l’Italia si fa più americana. Desidera quel benessere e aspira a quella visione del mondo.

Il cinema e specialmente la televisione con l’esplosione della Mediaset, non sono la causa ma il prodotto di un contesto demografico già definito. Esauritasi la violenza politica, si passa al consumismo sfrenato. La messa in scena e la presa in giro dei modi di fare “all’italiana”, rimasto sempre in sordina, accompagnato semmai da antropologica consapevolezza, diviene comicità fine a sè stessa e giocosa negazione del proprio essere italiani. Il cinepanettone accompagna la mutazione antropologica italiana. Ne manifesta l’inconscio collettivo, lo sgretolamento valoriale, la corsa smodata al successo e al guadagno. L’opulenza, unita al trionfo del comparto del lusso, radicato alla cultura della penisola ma ora trasformato in unico vanto significativo.

Roma, Aprile 2024. XVII Martedì di Dissipatio

Il successo del Made in Italy coincide con il secondo miracolo economico italiano degli anni Ottanta, che cavalca l’onda della – voluta – autodistruzione in piena Reaganomics della manifattura statunitense per sostenere il peso dell’impero con lo strumento monetario, legando a sé tutti gli altri satelliti. Diviene marchio di fabbrica, unico prodotto per cui gli italiani nutrano – assieme al ben più ancestrale trionfo sportivo – un certo orgoglio. Come incastonata nella circolarità della propria storia, l’Italia vive due fasi molto simili nel passaggio dal Quattrocento al Cinquecento e al Seicento. Il Rinascimento è epoca di violenza e di splendore. La potenza materiale e economica è al servizio della potenza geopolitica e della forza della popolazione. Alla libertà italiana segue il dominio spagnolo che, come quello americano, rinuncia all’economia per preservare l’impero, cedendo agli italiani tutta la propria produzione più raffinata.

Con gli anni Ottanta, l’economia italiana si fa manifattura sofisticata. Mantiene questo vanto, ponendo al centro il benessere per il benessere, pur con profonde differenze sociali. Trasforma il senso stesso della nazione in un semplice prodotto commercializzabile.

La programmazione della Mediaset è ad oggi la principale testimonianza di questo passaggio di consegne tra un’Italia ancora italiana e un’Italia economicamente italiana ed antropologicamente americana. Ciò si evince dall’elogio costante dell’elemento anglosassone. Dall’’attenzione privilegiata – oltre che per le vicende della famiglia reale inglese – per le vicende di qualsiasi stella di Hollywood. Per la prima volta il gusto americano viene salutato come superiore. Alla – parziale – repulsione per l’America profonda, si affianca la ricerca di uno stile di vita costiero e decadente che emana comunque dall’impero. L’inglese, da veicolare, si fa strumento indispensabile. La terminologia anglosassone viene preferita a quella italiana. Non è chiaro su quali ragioni si basi l’assunta superiorità dell’inglese – un inglese “globalizzato”, non certo la lingua di Shakespeare  – sulla lingua nazionale.

Simbolo di presunta superiorità intellettuale, di “progresso”, talvolta quasi di “antifascismo”. La traduzione stenta. La ricerca linguistica viene salutata come inutile orpello. Diviene persino normale utilizzare terminologia inglese al posto di identici lemmi italiani. Oppure istituire corsi universitari integralmente in inglese o materie scolastiche completamente in inglese. Si riconosce l’inglese come presunta lingua mondiale.

Provincia produttiva e culturalmente raffinatissima, nella perla dell’impero, ovvero il continente europeo, la penisola assorbe tutto ciò che arriva da oltreoceano con una inconsapevolezza impensabile. La popolazione pensa di muoversi autonomamente o in contrapposizione al sistema imperiale, servendosi di strumenti che sono diretta emanazione degli apparati americani, ovvero le piattaforme sociali. Fa proprie battaglie anche anti-occidentali, emanazione diretta delle università degli Stati Uniti. Ne assorbe le tendenze. Ne veicola gli umori e le ossessioni.

Cinema e serie tv si assimilano al canone americano. Scambiano Hollywood o la notte degli oscar per il centro del cinema globale, quando queste ultime restano americanissime. Ciò che nasce nei college americani si diffonde con impressionante rapidità nelle università europee ed italiane. Ne influenza l’evoluzione e il comportamento. Sentirsi colti è assecondare l’impero, anche i suoi difetti. Oppure derubricare ad una presunta società globale, al di là di qualsiasi nazione esistente, tutte le caratteristiche del proprio futuro ideale, dimenticando che la società globale è diretta emanazione dell’impero americano. L’Italia americana si culla così del proprio vuoto. Accetta imbelle il proprio destino.

Sul finire dell’impero romano, a colpire particolarmente è l’atteggiamento della pars orientalis. Tendenzialmente ellenistico, in grado di esprimere una cultura e uno stile di vita non assimilabile al nucleo latino di Roma, tale da vantare l’erronea convinzione di aver semmai convertito Roma all’ellenismo, l’Oriente del benessere e della raffinatezza, aggrappato all’Anatolia e ai Balcani, si scopre sul finire del III e IV secolo più romano dei romani. Mai lungo tutto il millennio di vita dell’Impero romano d’Oriente, i sudditi di Costantinopoli osano definirsi “greci”, pur parlando greco ed esprimendo la trasformazione della grecità classica in grecità cristiano ortodossa, balcanica, slavofila e orientaleggiante. Si definiscono sempre, orgogliosamente, romani fino al 1453.

Esemplificazione di un passaggio impensabile al momento dell’annessione romana. Così oggi gli italiani preferiscono definirsi europei o – a seconda delle circostanze – occidentali. L’America vituperata in alcune circostanze sarebbe comunque meglio “degli altri”. Volenti o nolenti, gli italiani saranno destinati a seguirne il corso e la trasformazione. Salutando con gioia la cessione di propri comparti strategici, quale dovrebbe essere la Tim, per motivazioni puramente economiche e finanziarie, e non come tributo all’impero di cui gli italiani si sentono orgogliosamente parte.

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