OGGETTO: Il tentativo di portare la MMT alla Casa Bianca
DATA: 22 Agosto 2020
SEZIONE: Economia
La campagna per le presidenziali USA si accende ulteriormente: Joe Biden mette in campo Stephanie Kelton, principale consigliere economico di Bernie Sanders.
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Appena vinta la corsa alla candidatura democratica per la presidenza degli Stati Uniti, Joe Biden si è affrettato a promettere che l’elettorato del suo principale rivale, il progressista Bernie Sanders, sarebbe stato rappresentato durante la campagna presidenziale. Quella che sembrava una frase di circostanza volta ad allargare i consensi, si è in realtà tramutata in qualcosa di più con l’istituzione di varie task forces che avranno il compito di sviluppare la piattaforma politica di Biden su temi specifici. In questa direzione va la nomina dell’astro nascente della sinistra democratica, Alexandria Ocasio-Cortez, a capo del gruppo che si occuperà di clima, così come la collaborazione con l’ex segretario di stato John Kerry, noto per le sue idee progressiste. Ma la mossa più significativa, passata forse in secondo piano, è stata la nomina di Stephanie Kelton chiamata a presiedere la task force sull’economia, dopo essere stata il principale consigliere economico di Bernie Sanders.

Stephanie Kelton è infatti una delle autorità principali, e probabilmente il volto più conosciuto, in materia di Modern Monetary Theory, una discussa scuola di pensiero economico eterodossa incentrata sulla possibilità, per un paese dotato di sovranità monetaria, di poter spendere liberamente i propri denari senza preoccuparsi del deficit di bilancio, in quanto sarà sempre possibile creare moneta per estinguere i debiti. Una teoria rivoluzionaria e decisamente poco convenzionale che mai prima d’ora era stata presa seriamente in considerazione, tanto meno da uno sfidante ufficiale per la corsa alla Casa Bianca. Cerchiamo di conoscere meglio le idee di questa coraggiosa economista.

Stephanie Kelton

Dall’attività accademica alla politica

Nata nel 1969, Stephanie Kelton ottiene la laurea in Economia nel 1995 presso la California State University di Sacramento. Negli anni successivi conseguirà un Master in Economia a Cambridge e una specializzazione presso la New School for Social Resarch di New York con una tesi su politica economica e finanza pubblica. Da sempre attenta alle tematiche sociali, pubblica numerosi articoli accademici riguardanti la piena occupazione, la previdenza sociale, il welfare su prestigiose riviste economiche come il Cambridge Journal of Economics ed il Journal of Post Keynesian Economics. Si dedica anche allo studio della teoria monetaria e delle politiche economiche internazionali, ed i suoi scritti appaiono sul NY Times e sul Financial Times, tanto da essere nominata come una dei 50 intellettuali più influenti negli Stati Uniti in materia economica.

Inizia la sua carriera di insegnamento all’University of Missouri a Kansas City ed è tuttora professore di Economia e di Politica Economica alla Stony Brook University di New York. Parallelamente alla carriera accademica inizia il suo coinvolgimento politico. Nel 2011 fa parte della commissione riunita da Bernie Sanders per la riforma della Federal Reserve, la Banca Centrale americana, insieme ad altri accademici di fama, tra cui il premio Nobel Joseph Stiglitz. Nel 2015 è nominata capo economista dello staff democratico per il comitato del Senato americano sul budget. Nel 2016 e nel 2020 è il principale consigliere economico di Bernie Sanders nella sua corsa alla nomination democratica per le presidenziali. Ma al fine del nostro scritto, quello che più conta è che Stephanie Kelton viene unanimemente considerata la voce più autorevole della MMT, che sta velocemente acquistando popolarità all’interno dei circoli progressisti americani.

Il Mito del deficit

In un momento così delicato a livello globale a causa della pandemia, le singole nazioni hanno incrementato in maniera decisa la spesa pubblica, nel tentativo di alleviare i problemi economici di privati ed imprese strette nella morsa del Covid-19. Il Fondo Monetario Internazionale ha stimato che nelle economie più avanzate il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo, supererà in media il 120%. Politici ed economisti hanno così iniziato a parlare del “dilemma del debito pubblico”, ovvero come queste spese straordinarie andranno necessariamente ripianate in un prossimo futuro, con una loro riduzione ed un incremento delle tasse, che porterà ad un rallentamento della crescita se non ad una nuova recessione. Stephanie Kelton nel suo libro “The Deficit Myth” uscito quest’anno e diventato subito un successo internazionale, sostiene al contrario che le preoccupazioni sul debito pubblico siano eccessive. Se infatti la spesa viene indirizzata correttamente, il deficit pubblico diventa salutare per l’economia, stimolando la domanda aggregata e favorendo una crescita più rapida. Per capire la sua posizione occorre fare una premessa, che è poi una delle idee fondanti della MMT, ovvero che ogni nazione dotata di sovranità monetaria è un emittente di valuta e non un utilizzatore di valuta.

Mentre gli utilizzatori di moneta, come i normali cittadini, hanno bisogno di guadagnare il denaro prima di spenderlo, le banche centrali dei paesi sovrani possono semplicemente “creare” moneta, addebitando elettronicamente i conti delle banche commerciali, per poi recuperare la stessa moneta con la tassazione o scambiandola con l’emissione di Titoli di Stato.  In questo modo la spesa pubblica avviene in un tempo precedente, non viene in alcun modo finanziata dalle tasse o dall’emissione di titoli di debito. Ed è questo il motivo per cui non è possibile equiparare uno Stato dotato di sovranità monetaria ad una famiglia, paragone che viene spesso fatto dai fanatici del rigore di bilancio. In base a questo ragionamento anche le preoccupazioni sul fatto che uno Stato non sia in grado di ripagare il suo debito perdono di significato, è sempre possibile “creare” moneta. Ma a questo punto una domanda sorge spontanea, ma non ci è sempre stato detto che la creazione di moneta causa inflazione?

Il problema della crescita inflattiva

Contrariamente a quanto si possa pensare la Kelton non sostiene che l’inflazione non sia un problema, ma raccomanda un approccio diverso, più attento. Il processo decisionale per l’approvazione di ogni nuova spesa pubblica deve tenere conto della protezione dal rischio inflattivo, non si vuole creare inflazione e poi combatterla, bensì mitigarne preventivamente i rischi. In un momento di crisi come quello che stiamo vivendo l’inflazione non è certo una minaccia, la mancanza di consumi da parte dei privati, e di investimenti da parte delle aziende rendono la deflazione un pericolo maggiore dell’inflazione. Ma una volta che vi sarà un recupero sarà sicuramente un problema da tenere sotto controllo. Ma per la Kelton non è la creazione di moneta in sé a generare inflazione, bensì la scarsità di beni, di lavoro o una capacità produttiva non sufficiente. Ecco perché nelle economie occidentali negli ultimi dieci anni non vi è stata inflazione, nonostante l’immissione straordinaria di moneta sul mercato attraverso i programmi di Quantitative Easing in Europa e negli Stati Uniti, vi è sempre stata troppa gente senza lavoro e la capacità produttiva non ha mai raggiunto il suo massimo potenziale. La Kelton propone quindi dei programmi di garanzia del lavoro (Job Guarantee) come termometro per tenere sotto controllo l’inflazione, lo Stato diventa datore di lavoro di ultima istanza, la piena occupazione diventa il limite oltre il quale la spesa può causare fenomeni inflattivi.

Non mancano le critiche a questa teoria, gli economisti tradizionali pensano che creare moneta per “acquistare” tutto il lavoro disponibile sul mercato sia una pratica altamente inflattiva oltre che un danno per l’efficienza del mercato. Il settore privato avrebbe difficoltà a reperire forza lavoro e sarebbe costretto ad alzare le offerte, dando vita ad un aumento dei salari, senza contare che il lavoro si sposterebbe da impieghi altamente produttivi in compagnie orientate al mercato a comodi e inefficienti posti pubblici. Ma la Kelton ha una risposta anche per questo, prima di tutto lo Stato può creare lavoro in settori in cui i privati hanno mostrato poco interesse, negli Usa il settore della costruzione di strade, ponti e ferrovie è tipicamente piuttosto snobbato e considerato poco remunerativo dalle aziende private, e quindi non vi sarebbe una competizione diretta. Inoltre lo Stato dovrebbe offrire questa tipologia di lavoro al minimo salariale, incentivando così una eventuale transizione verso lavori migliori e più pagati, ma allo stesso tempo garantendo un livello minimo di occupazione. Solo una volta raggiunta la piena occupazione ed il livello massimo di capacità produttiva, ogni dollaro (ma vale per qualsiasi valuta) speso in più genererà inflazione.

La MMT alla Casa Bianca?

Diciamo subito che nemmeno Bernie Sanders, il candidato democratico più progressista, ha mai apertamente sostenuto la Modern Monetary Theory, nonostante il suo principale consigliere economico fosse proprio Stephanie Kelton. Come detto all’inizio la mossa di Biden sembra quindi più strategica, volta a conquistare i voti della sinistra democratica statunitense, che di sostanza. Biden ha fatto della moderazione la sua arma vincente, capace di intercettare i voti della middle class americana, spesso considerata a maggioranza repubblicana, difficile pensare a politiche economiche così rivoluzionarie ed aggressive come quelle proposte dalla Kelton. Stiamo sempre parlando degli Stati Uniti, il baluardo del capitalismo internazionale, la terra del libero mercato e del sogno americano. Ma la crescente insofferenza verso lo strapotere della finanza e la pressione verso la riduzione delle diseguaglianze sociali potrebbero portare Biden ad accettare qualche proposta della Kelton, finendo per includere qualche aspetto di MMT nella sua piattaforma elettorale. Nonostante i potentissimi ambienti legati a Wall Street vedano la MMT come dinamite, potenzialmente in grado di far esplodere il deficit in maniera incontrollata, la retorica usata da Biden nelle ultime uscite pubbliche suggerisce che almeno in tema di politica fiscale espansiva, la Kelton sia riuscita a farsi ascoltare.

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"Se guardiamo a industrie più 'semplici' come, per esempio, il tessile vediamo che i flussi internazionali e i livelli di interdipendenza non sono diminuiti poi di molto. Situazioni come la crisi di Suez hanno un impatto soprattutto sui costi dello shopping (ne ho scritto anche di recente in un editoriale su Domani) e quindi, potenzialmente, sull'inflazione ma al momento non stanno riducendo più che tanto il livello complessivo degli scambi tra Occidente e Asia."

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