Alla fine, non è successo nulla. O meglio, nulla che assomigli a un colpo di stato o a un assalto al Campidoglio in salsa simil-statunitense, come avevano paventato inquiete la stampa brasiliana e internazionale e parte della società civile nei mesi scorsi. Alle 23:56 italiane (19:56 a Brasilia) di domenica 30 ottobre si è conclusa la corsa elettorale che per mesi ha infiammato il Brasile e che quattro settimane dopo il primo turno ha portato Luiz Inácio da Silva, detto Lula, a essere incaricato per la terza volta del mandato presidenziale.
Dalla chiusura delle urne all’ufficialità della vittoria sono trascorse circa 2 ore e 56 minuti in cui la quarta democrazia più grande al mondo, un paese con un’estensione doppia rispetto a quella dell’intera Unione Europea, è rimasta con il fiato sospeso. Fino al risultato di una tornata elettorale con un’altissima partecipazione (l’80% degli aventi diritto, prima volta in cui affluiscono alle urne più persone al secondo che al primo turno) e con lo scarto minore mai registrato fra i due candidati principali.
50,90% a 49,10% è il risultato finale della corsa presidenziale che – in uno dei paesi più cristiani al mondo – non risulta fuori luogo paragonare a un Armageddon in cui entrambi i candidati si sono professati l’incarnazione del bene in lotta contro il male. A seconda dei punti vista, Lula era il corrotto e pericoloso comunista, Bolsonaro il violento militare antidemocratico. Poco dopo l’ufficialità del risultato, il settantasettenne ex operaio metalmeccanico e sindacalista che fino a 4 anni fa si trovava in carcere nell’impossibilità di competere alle elezioni del 2018, si è gettato fra le braccia dei suoi sostenitori che lo attendevano nella folla oceanica che ha invaso l’Avenida Paulista di San Paolo. Forse semplicemente stremato o in parte insoddisfatto di una vittoria che avrebbe voluto più schiacciante, con uno sguardo catatonico e in un misto di stupore e gioia ha stretto la mano ai suoi sostenitori in lacrime.
«Hanno provato a seppellirmi vivo ma sono qui» dice Lula in uno dei passaggi del discorso pronunciato pochi minuti dopo nel quartier generale del Partito dei Lavoratori di cui è leader e fondatore. Il discorso è lungo, dura venticinque minuti interrotti solo dall’acqua che è obbligato a bere per alleviare la raucedine che lo tormenta. Sono tanti i temi che tocca. Ci sono i cavalli di battaglia del suo partito (riduzione della povertà e delle disuguaglianze), la promessa di un ritorno al multilateralismo nella scena internazionale (“il mondo ha saudade – nostalgia – del Brasile”) e la fine della deforestazione dell’Amazzonia, “di cui il mondo ha bisogno”. È un discorso in cui i richiami all’unione e alla coesione sono continui e non casuali: quello che emerge dalle elezioni è un paese letteralmente spaccato.
Per varietà etnica il Brasile è secondo solo agli Stati Uniti. Oltre a una fortissima comunità di discendenti di italiani, sono presenti nipoti e pronipoti di tedeschi, polacchi e spagnoli, cui si aggiungono la più grande comunità di giapponesi al di fuori del paese del Sol Levante, una presenza considerevole di libanesi, siriani ed egiziani, una comunità di discendenti di un’immigrazione statunitense risalente ai tempi della guerra civile americana – unico paese al mondo insieme ad Israele ad aver avuto una immigrazione a stelle e strisce – e, infine, gli indios e i discendenti di africani. Questi ultimi – discendenti di schiavi che secondo le più recenti rilevazioni statistiche ammontano al 50,9% della popolazione – sono i più disagiati economicamente. Non a caso il paese presenta uno fra gli indici di Gini più elevati al mondo, mitigato nel primo decennio degli anni duemila, tornato a crescere nel secondo.
Il risultato elettorale è inoltre un risultato estremamente polarizzato, non solo per lo scarto minimo, ma anche nella geografia del voto, una macchia rossa colora il Nord-est del paese e una blu il Sud e il Sud-est; più conteso il Nord, dove risiede però meno gente, stessa cosa per il Centro-ovest, terra di grandi coltivatori dove spopola Bolsonaro. Il Brasile che Lula si appresta a governare è diverso da quello dei suoi primi due mandati svolti fra il 2003 e il 2010. Anni in cui gli aumenti dei prezzi delle materie prime, di cui il Brasile è ricco, gli davano una grande mano e Obama lo definiva il «politico più popolare sulla terra».
Nel 2001 il Brasile veniva inserito fra i BRIC (il gruppo di paesi emergenti composto da Brasile, Russia, India e Cina, poi divenuto BRICS con l’aggiunta del Sud Africa). Acronimo odiato, a ragione, dagli geopolitici, non a caso fu coniato da un’analista finanziario. Fra il 2003 e il 2012 in Brasile si registrò una crescita media annua del 4%: milioni di persone abbandonavano la povertà pronte a entrare nella classe media e a prendere il loro primo volo aereo, aumentavano il numero delle scuole e gli investimenti internazionali, e i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi del 2016 erano alle porte. Parallelamente cresceva il ruolo internazionale del paese.
Oggi la situazione è ben diversa. Il paese si porta dietro i pesi della recessione del biennio ’14-’16, una drammatica crisi istituzionale che ha portato all’impeachment della presidente Dilma Rousseff nel 2016 e la crisi pandemica che si è abbattuta sul Brasile con più forza che altrove. Tutto ciò con effetti devastanti su crescita e povertà, cui si aggiunge che dal 1º gennaio, giorno della transizione al palazzo presidenziale del Planalto, il leader del Partito dei Lavoratori si troverà ad affrontare un Congresso mai così a destra.
Dunque nessun golpe. Bolsonaro, poco dopo l’ufficialità del risultato, ha spento le luci della sua stanza nel Palazzo dell’Alvorada rifiutando di incontrare sostenitori e alleati. Seguiranno quarantacinque ore di silenzio, durante le quali in tutto il paese impazzeranno le proteste dei camionisti, suoi sostenitori accaniti. Un problema non da poco, poi lentamente rientrato per l’azione decisa del Supremo Tribunal Federal, la corte suprema brasiliana. In primis, le linee ferroviarie del Brasile sono pressoché nulle – ad esempio non esiste un treno fra Rio de Janeiro e San Paolo – e le merci si spostano quasi tutte su gomma, inoltre, per dimensioni, i camion sono in grado di bloccare intere autostrade. Blocchi che hanno paralizzato quasi tutti e ventisette gli stati del paese, compreso l’annullamento di decine di voli all’aeroporto di San Paolo.
L’altro timore generale era che la protesta potesse fare da volano all’insoddisfazione della sconfitta e coagulare chi, come i camionisti, chiedeva una revisione del risultato. La motivazione delle proteste, spontanee e poco coordinate, era la presunta irregolarità del processo di voto, su cui però non esiste alcuna evidenza. La richiesta sottesa al presidente uscente era di rifiutare l’esito delle urne e rimanere al potere con la forza: un golpe. Un’indiscrezione della CNN Brasil ha fatto trapelare che Bolsonaro, poco prima di parlare alle telecamere per la prima volta dopo la sconfitta, aveva provato a convincere i vertici dell’esercito e della marina aeronautica a intervenire in suo favore adducendo vari pretesti sull’irregolarità delle elezioni, la risposta sarebbe stata negativa. Che siano notizie pilotate o meno, non è dato sapere. Resta che in quelle 45 ore Bolsonaro potrà anche aver sondato le possibilità per mettere i bastoni tra le ruote alla trentasettenne democrazia brasiliana, ma le chance di riuscirci sono sembrate a tutti esigue, probabilmente anche a lui, che senza riconoscere esplicitamente la sconfitta o nominare Lula, ha detto che avrebbe rispettato la costituzione.
Se nei mesi precedenti aveva ripetuto che avrebbe potuto perdere le elezioni solo se fossero state truccate, due giorni prima del voto, nel faccia a faccia con Lula trasmesso da Rede Globo, aveva dichiarato che chi avesse preso più voti avrebbe vinto: «Questa è la democrazia», aveva aggiunto. A far propendere verso la possibilità che non sarebbe successo nulla, è stato anche la situazione internazionale. Il mondo non sembra aver alcun interesse a sostenere o appoggiare una nuova crisi. Durante le fatidiche 45 ore di silenzio del presidente di origini italiane, capi di stato di tutto il mondo si sono congratulati con Lula, senza aspettare un posizionamento di Bolsonaro. Cina e Russia incluse, perfino l’Arabia Saudita del principe Moḥammad bin Salmān, con cui Bolsonaro ha una “certa affinità” come ha detto in passato. Un colpo di mano dei militari in Brasile avrebbe sconvolto il Sud America – al momento abbondantemente a sinistra, altro fattore che può aver contribuito a gettare acqua sul fuoco – e gli Stati Uniti (di Biden, diverso se vi fosse stato Trump) sarebbero stati costretti a intervenire nel loro “giardino di casa”. Di questo scivolamento verso un’ulteriore crisi internazionale, avrebbero probabilmente beneficiato i detrattori di Washington: uno spargimento di forze militari e mentali in un’ulteriore area del globo, avrebbe probabilmente abbassato l’intensità dello scontro con la Russia in Ucraina e l’attenzione nello scontro per la leadership globale con la Cina. Ma nulla di tutto ciò è avvenuto.
Anzi, in un colpo solo: Washington prova a riavvicinarsi a Brasilia di cui si teme uno scivolamento verso vicini pericolosamente antistatunitensi (su tutti Venezuela, Nicaragua, Cuba e Argentina), con tanto di telefonata di Biden a Lula il giorno dopo le elezioni; la Cina rimane saldamente nel suo ruolo silenzioso di primo partner commerciale del Brasile (il 40% delle esportazioni sono assorbite da Pechino) e spera in una maggiore avvicinamento con Brasilia propiziato dalla vittoria di Lula; e la Russia, che esporta un quarto della sua produzione di fertilizzanti in Brasile e di cui il Brasile è dipendente per l’enorme produzione in ambito agribusiness, non rischia nulla. Tutti amici come prima, o quasi.