Nella ricerca storica, a imporsi sull’avvicendarsi, spesso caotico e forsennato, di situazioni evenemenziali è la riflessione sulle “forze profonde”. Forze che operano con inesorabile costanza in profondità, al riparo da occhi impazienti e indiscreti. L’École des Annales l’ha ben insegnato: trattati internazionali, accordi e schemi di cooperazione tra Stati non sono altro che riflessi dell’intenso lavorio degli ingranaggi della Storia che ruotano dietro le quinte, determinando tendenze di “lunga durata” in campo culturale, politico, economico, persino psicologico. Così accade che, tra le due sponde del Mediterraneo orientale, quella turca e quella egiziana, esiste una tensione di matrice storico-culturale che si è consolidata nel tempo e non cessa di incidere, a fasi alterne, sugli equilibri regionali.
Autentico odi et amo tra due delle maggiori potenze mediorientali, è un legame viscerale quello che unisce le vicende storiche di Turchia ed Egitto. Due storie che da almeno un millennio convergono e si intrecciano, per poi prendere traiettorie divergenti. Al tempo della dominazione ottomana, fu il wali Muhammad ‘Ali (1769-1849) a marcare una cesura senza precedenti, rivendicando la singolarità della nascente nazione egiziana. Da provincia della Sublime Porta che era, l’Egitto divenne spina nel fianco per il Sultano di Costantinopoli a seguito del rafforzamento economico, dell’ammodernamento amministrativo e della riorganizzazione militare volute dal condottiero di Kavala. Cominciava ad affermarsi uno Stato nazionale in nuce, desideroso di proiettarsi sull’estero vicino in maniera autonoma, scrollandosi di dosso il rapporto di sudditanza nei confronti del potere ottomano.
Fin da allora, era chiaro che alcune “forze profonde” operavano per separare l’intreccio di destini turco-egiziani: un processo che assumeva contorni ancor più definiti nel corso della seconda metà del secolo scorso, quando, alla postura “non allineata” di un Egitto galvanizzato dal nasserismo, si contrapponeva l’importanza conferita dal fronte atlantico all’avanguardia dell’alleato turco in funzione antisovietica. Ciò non significa che non ci fossero motivazioni valide perché i vertici militari turchi rivalutassero la propria disposizione verso la linea della Nato e degli americani: accadde nel 1975, quando gli Stati Uniti risposero con sufficienza alla richiesta di sostegno nella contesa greco-turco-cipriota; accadde nuovamente nei primi anni ’90, quando il grande alleato d’oltreoceano iniziò a sostenere a livello politico ed economico i curdi iracheni.
Ma, con il venir meno dell’ordine bipolare, il canovaccio veniva rivoluzionato. Dopo il 1989, si aprirono nuovi spazi per le due potenze regionali in ascesa, non più compresse tra i due blocchi della Guerra Fredda, e, a cavallo tra i primi due decenni del XXI secolo, Ankara e Il Cairo iniziarono a ragionare su come amplificare la rappresentazione della propria potenza su una molteplicità di scenari regionali (Libia, Mediterraneo orientale, Siria e Africa orientale). Mentre l’egemonia del dominus americano veniva minacciata dai risvolti del 9/11 e del global war on terror, Turchia ed Egitto mettevano a valore la posizione privilegiata da loro tradizionalmente occupata nei codici geopolitici statunitensi: nel periodo segnato dalle due Guerre del Golfo, Ankara poteva riscuotere, in cambio dei notevoli oneri sostenuti in quanto nerbo orientale della Nato, compensi, prestigio e aiuti economici da parte degli alleati occidentali; Il Cairo beneficiava di consistenti risorse messe in campo dagli Stati Uniti, per un ammontare di 62 miliardi di dollari erogati in ambito civile e militare tra il 1977 e il 2007.
Non solo. Grazie al risalto restituito al peso geopolitico dei due Paesi dagli strateghi americani, Turchia ed Egitto prendevano consapevolezza di poter tornare a contare nello scacchiere mediorientale. Con un’avvertenza: lo spazio geografico su cui allungavano le rispettive direttrici di politica estera stava (e avrebbe continuato a stare) stretto a entrambi. Per Zbigniew Brzezinski, sono “Stati pivotali”
«[quegli] Stati la cui importanza non risiede tanto nella loro reale potenza e motivazione, quanto nella loro delicata posizione geografica e nella loro potenziale vulnerabilità […]. Il più delle volte, la loro posizione conferisce loro un ruolo chiave nell’accesso a determinate regioni o permette loro di escludere un attore importante dalle risorse di cui ha bisogno.»
Z. Brzezinski, Le Grand échiquier, l’Amérique et le reste du monde, Bayard éditions, 1997
Una definizione che si adatta bene all’autorappresentazione che offrono di sé stesse Turchia ed Egitto e alla rilevanza che ricoprono gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli da un lato e il canale di Suez dall’altro.
Nei primi anni Duemila, a dare per prima nuovo slancio alla propria proiezione pure oltre l’estero vicino fu la potenza turca. Ahmet Davutoglu, oggi a capo del Partito del Futuro, uno dei partiti schierati all’opposizione dell’attuale maggioranza governativa in vista delle elezioni turche di giugno 2023, spiegò che Ankara avrebbe presto compiuto il salto di qualità dallo status di media potenza regionale a potenza di spicco nel panorama internazionale. Il raggio di azione della profondità strategica immaginata da Davutoglu non si limitava al solo Vicino Oriente, ma si estendeva sui Balcani, sul Caucaso, in Asia centrale e nel Mediterraneo, con particolare riferimento alle ex province dell’Impero ottomano: Egitto, Libia, Tunisia e Algeria. Era un’idea di Turchia identitaria e autocentrica, che non sarebbe rimasta lettera morta, persino dopo l’allontanamento di Davutoglu dall’entourage di Recep Tayyip Erdogan.
Sebbene avrebbe presto guadagnato terreno la dottrina del Mavi Vatan, soprattutto a seguito dello scoppio e dell’aggravamento delle crisi siriana e libica, fine dello zero problems with neighbors, la dottrina Davutoglu ha lasciato un’impronta indelebile. Nella versione della “profondità strategica”, la sfera di influenza doveva costituirsi all’intersezione tra panturchismo, eurasiatismo, Islam e ambizioni neo-ottomane: direttrici persistenti nella politica estera turca, al netto della proiezione marittima rilanciata sulle tracce del mito della “Patria blu”. Da tutto ciò si trae l’immagine di una Turchia costretta a fare i conti con la propria strategic exposure, ma anche a ricavarne il massimo dei benefici: una potenza sempre più globale e sempre meno regionale, coinvolta su una molteplicità di scenari, che può agire, volta per volta, per stabilizzare e contenere o per destabilizzare e alimentare tensioni.
Dopo la stagione delle “Primavere arabe”, in cui Erdogan tentava con scarso successo di presentarsi come “benevolo protettore” della dignità dei popoli insorti e promotore di un’idea di democrazia islamica di successo, il fallimento dell’esperienza governativa dei Fratelli musulmani in Egitto, sotto la guida di Mohamed Morsi, segnava una battuta d’arresto per le ambizioni regionali di Ankara. La vittoria della controrivoluzione condotta dai militari egiziani e sostenuta dall’Arabia Saudita era indicativa della volontà delle altre potenze regionali di arginare il moto di allargamento della sfera geostrategica turca. Il periodo 2011-2013 non segnalava soltanto una frattura tra Turchia ed Egitto e tra Turchia e monarchie del Golfo, ma anche il risveglio dell’Egitto in quanto soggetto attivo e capace di influenzare le relazioni internazionali del Vicino Oriente (e non solo).
Con il generale Abd al-Fattah al-Sisi al potere, il governo dell’ex colonia britannica ha recentemente represso ogni forma residua di opposizione interna, estromesso le formazioni islamiste dalle arene della democrazia deliberativa, rimesso in moto un’economia agonizzante e ripreso le redini della propria politica estera. Il Cairo non è mai stato disposto a rinunciare alle relazioni storiche con la Siria, con tutto che, nello scontro tra Ankara e Riyadh, accetta mal volentieri di schierarsi dalla parte delle monarchie del Golfo; nel frattempo, guarda con apprensione alla situazione libica, dalla cui instabilità la sicurezza egiziana non può che risultare minacciata. Siria e Libia che sono da tempo nel mirino dei piani strategici turchi. Resta il fatto che, soprattutto dopo il 2017, anno della storica rottura tra il fronte emiratino-saudita e il Qatar, le sponde turca ed egiziana del Mediterraneo orientale sono apparse ancor più lontane e si è profilata un’ampia frattura tra l’asse turco-qatariota e il quartetto di regimi sunniti comprendente l’Egitto, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. La stabilità della regione sembrava sempre più fragile.
Da allora, tuttavia, gli assetti geopolitici della regione hanno vissuto un notevole cambiamento. Nel lessico del quadro attuale delle relazioni tra Stati mediorientali è ricomparso il termine “normalizzazione”. «Sheikh Tamim apprezza gli sforzi compiuti dal Presidente Sisi per portare avanti l’azione congiunta araba e preservare la pace e la sicurezza regionale in questa fase critica», ha dichiarato di recente il ministro degli Esteri qatariota Mohammed bin Abdulrahman Al Thani in occasione della visita svolta al Cairo il 29 marzo 2022. Il lavoro febbrile delle diplomazie nei vari summit che si sono succeduti dopo quello storico di al-Ula del 5 gennaio 2021, la ripresa dei voli aerei tra Egitto e Qatar e l’aumento progressivo di accordi economici e investimenti tra i due Paesi: tutti segnali che preludono a una normalizzazione dei rapporti giunta a un punto di svolta.
Sia che l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani voglia smarcarsi completamente da un partenariato troppo stretto con Ankara, sia che voglia fare da apripista per favorire la distensione tra potenze regionali del Vicino Oriente, la politica estera turca non può permettersi di ignorare i segnali lanciati da Doha. Non è un caso che, tra il 2021 e il 2022, la diplomazia di Ankara abbia premuto l’acceleratore della normalizzazione dei rapporti con Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita e abbia accolto prontamente l’opportunità di riavvicinamento con l’Egitto offerta dall’emiro Al Thani ai Mondiali di calcio dello scorso novembre-dicembre con la stretta di mano tra Erdogan e al-Sisi. Troppo presto per affermare che le cesure del 2012-2013 e del 2017 siano alle spalle: permangono alcuni motivi di divergenza tra l’asse Ankara-Doha e l’asse Riyadh-Abu Dhabi che allontanano l’ipotesi di un agevole riavvicinamento tra potenze, fino a tre anni fa, antagoniste.
Per altro, tiepidi sono sembrati i passi in avanti tra Turchia ed Egitto. Rimangono irrisolte, oltre a una sistemazione condivisa degli scenari siriano e libico, le questioni del rispetto reciproco delle Zone Economiche Esclusive (ZEE) e dell’asilo concesso da Ankara ad alcuni membri della Fratellanza musulmana, per quanto lo scorso 21 novembre Al Jazeera abbia titolato “Egypt hails el-Sisi, Erdogan handshake as new beginning in ties”. La storica tensione tra Turchia ed Egitto ha cambiato sembianze, ma come bene riesce a spiegare l’evoluzione dei codici interpretativi formulati dagli strateghi statunitensi, il campo di gioco è cresciuto in estensione. Si definisce “allargato” un Mar Mediterraneo in cui le “forze profonde” faticano a restare entro i confini dei territori rivieraschi, proprio come accade nella competizione politica e geopolitica, economica e militare tra Turchia ed Egitto.
Ora, si può immaginare che la situazione di crescente instabilità socioeconomica e politica sul fronte interno, che accomuna oggi i due Paesi, conduca turchi ed egiziani a spingere per il riavvicinamento tra fronte a guida turco-qatariota e fronte saudita-emiratino. Attraverso un fascio di nuove alleanze e partenariati, si potrebbe favorire una graduale stabilizzazione delle situazioni siriana e libica, nonché il superamento delle dispute regionali sulle acque del Mediterraneo orientale e del Corno d’Africa. Se la politica estera turca non si mostrasse pronta ad assecondare le iniziative qatariote e a ridimensionare le proprie aspirazioni nell’estero vicino, rischierebbe, d’altronde, di restare isolata. Le tendenze di “lunga durata” nelle relazioni tra le due sponde del Mediterraneo orientale suggeriscono che qualsiasi tentativo di normalizzazione non possa resistere alla prova del tempo. Ma tale è la posta in gioco, che, se necessario, Erdogan e al-Sisi non esiteranno neppure a remare contro il corso della Storia.