Vladimir Putin, il miglior nemico di Joe Biden. Se non fosse esistito Putin, Biden avrebbe dovuto inventarlo. Perché scegliendo scelleratamente di invadere l’Ucraina, causa il naufragio delle trattative bilaterali sulla riforma dell’architettura securitaria euroatlantica, il capo del Cremlino ha servito all’omologo statunitense una serie di vittorie sul piatto d’argento.
Soltanto un cataclisma geopolitico, come una guerra, avrebbe permesso agli Stati Uniti di (provare a) assestare il colpo di grazia all’autonomia strategica europea, di espellere la Russia dall’euromercato minerario ed energetico e di trasformare il Nord Stream 2, icona sacra della GeRussia, “in un tubo in fondo al mare”. Soltanto un cataclisma geopolitico, come una guerra, avrebbe apportato nuova linfa vitale nelle vene di quell’entità “cerebralmente morta” rispondente al nome di Alleanza Atlantica.
Se l’obiettivo di rivitalizzare la catatonica NATO è stato raggiunto, quello di inglobare il perimetro scandinavo al suo interno si è rivelato più arduo del previsto. Causa la sottovalutazione della variabile Erdoğan, che ha intravisto nel processo di allargamento l’occasione per strappare nuove concessioni ai suoi storici “rivalleati”.
La richiesta erdoganiana a Stoccolma concernente la fine del supporto all’internazionale del terrorismo curdo non è mai stata una scusa, uno specchietto per le allodole. La Turchia ha piena cognizione del fatto che se gli amici nemici occidentali volessero un giorno attuare delle operazioni ibride al suo interno, come i sovietici fecero ai loro tempi, si rivolgerebbero all’agente destabilizzatore par excellence: la folta e impermeabile comunità curda.
La Svezia, terza casa dell’Internazionale curda – la seconda è la Grecia –, non ha potuto soddisfare le richieste turche in materia di curdi perché la scelta non è mai realmente dipesa da lei, ma dagli Stati Uniti. Stati Uniti che rivaleggiano con la Russia per l’egemonizzazione del panorama terroristico curdo, in quanto utile per una grande varietà di fini – Iraq, Iran, Siria –, e che non hanno mai fatto segreto di ospitare degli acerrimi nemici di Erdoğan, incluso il predicatore Fethullah Gülen – presunta mente del fallito putsch del 2016 –, di finanziarne gli oppositori, come Osman Kavala, e di lavorare per la sua caduta, vedasi il Turkish Democracy Project di John Bolton.
La Turchia sta bloccando il processo di adesione della Svezia all’Alleanza Atlantica per inviare un messaggio agli Stati Uniti, che Erdoğan ritiene siano il reale sponsor della diaspora curdo-scandinava e dai quali vuole anche ottenere delle concessioni di peso – il fascicolo potenziamento dell’aviazione militare, che, però, vede gli americani doversi destreggiare tra le legittime richieste turche e le potenti pressioni israeliane.
Come il folcloristico gelataio giocoliere dal baffo ottomano che intrattiene i turisti occidentali per le strade più affollate di Istanbul, vendendo coni che non sarà facile assaporare, così Erdoğan si sta prendendo beffe di quel gigante dai piedi d’argilla che è l’Occidente.
Non saranno i provocatori roghi del Corano per le strade di Stoccolma e Copenaghen a far cambiare idea al Presidente turco, che da simili eventi non può che trarre giovamento e dei quali è felice. Perché alimentano l’effetto bandiera, consolidandone la posizione nei sondaggi. Perché danno ragione alla sua propaganda sull’Occidente quale semenzaio di islamofobia, di cui le profanazioni anticoraniche sono violenta ed iconica espressione. E perché gli permettono di proseguire il percorso del gioco su più tavoli, avviato all’indomani dell’inizio della guerra in Ucraina, con Unione Europea, Stati Uniti, NATO e Russia.
Lungo la Washington-Stoccolma-Ankara non si sta giocando una partita per il futuro dell’Alleanza Atlantica, ma per il futuro del sogno erdoganiano di fare del Duemila il secolo dei popoli turchi. Anelito che passa inevitabilmente da un ricalibramento dei rapporti di forza tra l’Occidente e la Sublime Porta a favore di quest’ultima, nonché dal raggiungimento di modi videndi a colpi di cannone e pragmatismo con Russia e Cina. È una partita che ha già mietuto una vittima, cioè le aspirazioni di grandeur di Stoccolma – schiaffeggiata in mondovisione –, nella quale non vuole entrare Helsinki – che, non a caso, sulla questione curda ha un’altra posizione e ha vietato roghi di Corani sul proprio suolo –, e dal cui esito dipenderà molto della traiettoria in divenire della competizione tra grandi potenze.
Erdoğan non cederà di un millimetro sull’intransigenza nei confronti della Svezia. Perché ne va della credibilità presso l’opinione pubblica turca – e le attesissime presidenziali sono dietro l’angolo. Perché è possibile che gli sia stato chiesto dall’amico nemico Putin, col quale ha intavolato un torneo di ombre di alto livello e al quale è debitore per molte cose – come il proposito di voler fare di Ankara il futuro crocevia energetico tra Russia ed Europa (ma vedrà mai luce?). E perché in ballo c’è il grand retour della Sublime Porta nell’alveo delle grandi potenze.