«Poche mani, non sorvegliate da controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa». Così Antonio Gramsci, tra l’auspicio e la previsione, fotografava la realtà sociopolitica dello Stato democratico in cui una sparuta minoranza, elitaria, possessore di informazioni e mezzi illimitati, detiene il potere governando la massa inconsapevole.
Quale sia, nelle moderne costruzioni democratiche, il ruolo della conoscenza di informazioni riservate e soprattutto in quale misura la libertà debba soggiacere alla “vigilanza invisibile” degli arcana imperii, necessari e legittimi, è irredimibile interrogativo senza risposta certa.
Proprio sulla controversa convivenza ed ambiguità ontologica tra libertà e detenzione di informazioni segrete, in Italia si è aperto un dibattito che ha come oggetto la discussione attorno alla riforma del sistema informativo per la sicurezza della Repubblica, ovvero il complesso organizzativo degli apparati che sovrintendono all’esercizio dell’attività di intelligence. Eppure, in pochi sembrano ricordare che la Corte Costituzionale – dopo l’emanazione della legge n. 801 del 1977 che ha permesso di far uscire l’intelligence dall’oscurità tracciando la strada per un giusto equilibrio tra l’esigenza della segretezza e l’esigenza della trasparenza – ebbe a pronunciare che la sicurezza nazionale costituisce «un interesse essenziale insopprimibile per la collettività».
Al di fuori del perimetro materiale in cui secernere valutazioni e ricostruzioni storiche, non può sottacersi che dalla caduta del Fascismo, il servizio segreto italiano, come altre strutture non smantellate del vecchio regime, subì una trasformazione i cui effetti furono ben visibili fra gli anni Cinquanta e Ottanta, quelli del terrorismo e della strategia della tensione o destabilizzazione. Proprio in quei gangli segreti, necessari per la vita e la sopravvivenza dello Stato, le forze alleate (anglo-americane) incuneavano il loro potere di controllo, rendendo evidente la sottoposizione italica al vincolo esterno. Difatti, dal 1949, dopo la firma del trattato Nato e dei cosiddetti Protocolli segreti aggiunti, i direttori dei servizi segreti italiani venivano affiliati dagli americani ben prima della loro nomina alle posizioni apicali degli apparati, escludendo quelli di influenza antiatlantica. Secondo il meccanismo della doppia lealtà o doppia dipendenza i vertici militari e dello spionaggio avrebbero dovuto rispondere prima agli alleati e poi al Governo italiano.
Che l’Italia sia stata terra di conquiste incrociate, infiltrata anche dai russi oltre che dagli americani, lo dimostrerebbero alcuni documenti, poi desecretati, basati su accurate indagini del ROS. Una terra di mezzo in cui sia americani che russi, già prima della guerra fredda avrebbero installato posizioni ed avamposti per attività di spionaggio e controspionaggio. Dall’una e dall’altra parte, per ragioni ideologicamente opposte ma teleologicamente affini (consolidamento del potere della propria fazione/partito politico), maestri della mistificazione, abili nell’alterare la verità dei loro biechi ed inconfessabili disegni di dominio del mondo, si contendevano le spoglie italiche.
Nel dossier della Commissione parlamentare Mitrokhin, libello ancora attuale per la gran-messe di informazioni ed annotazioni inerenti nomi di fonti (in maggior parte arruolati come funzionari del KGB e del Partito Comunista russo) e rispettive attività, usato come traccia della memoria storica della penetrazione russa nei nostri sistemi di intelligence, è interessante notare come il livello di coinvolgimento fosse elevato, fin quasi alla compromissione delle strutture di vertice politico e militare. L’elenco di circa 140 spie sovietiche che negli anni Sessanta e Settanta hanno circolato in Europa e specificamente in Italia reca il numero di protocollo n. 306. È stato depositato il 5 dicembre 2005 al Senato, a Palazzo San Macuto, nell’archivio di una delle commissioni bicamerali d’inchiesta (quella dedicata al dossier dell’archivista col. Vasilij Mitrokhin). L’incarto venne faxato dalla Questura di Torino al presidente della Commissione Mitrokhin, sen. Paolo Guzzanti. Ci sono nomi, cognomi, funzioni, passaggi da un paese all’altro dell’Europa occidentale degli uomini del KGB.
Condivisibile, appare, la tesi di chi sostiene che la globalizzazione sia il prolungamento della guerra fredda in cui i blocchi storici si sono disfatti producendo nuovi imperi regionali, ma la politica di deterrenza reciproca non è affatto stata accantonata. Del resto, soprattutto in superficie, o meglio etereo, Usa, Cina, e Russia si confrontano e scontrano per la sottrazione di dati e informazioni al nemico. L’Italia, a distanza di anni, è ancora patria della guerra tra spie doppie, controspionaggio, attualmente sferzata dalle correnti spiazzanti della info-war imperniata sulla gestione e l’uso dell’informazione in ogni sua forma e a qualunque livello con lo scopo di assicurarsi il decisivo vantaggio militare, specialmente in un contesto militare combinato e integrato.
È recente la notizia delle dimissioni del prof. Roberto Baldoni direttore dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale (Acn). La causa potrebbe essere l’eccessivo numero di attacchi hacker subiti dall’Italia in danno di infrastrutture strategiche che portano il marchio di informatici russi. Proprio loro che dagli anni Settanta hanno attivato cellule per la raccolta e l’analisi dei dati, con fonti interne dalle quali far affluire verso Mosca sussulti e battiti troppo spesso di chiaro stampo americano. L’unico che comprese fino in fondo il ruolo dell’Italia come terreno di compensazione fra CIA e KGB fu Francesco Cossiga, al quale si deve la modernizzazione del servizio segreto italiano.