Su Giorgio Bocca (1920-2011) se ne sono dette molte. Oggi, che nessuno più ne parla, né si ha la voglia di farlo, il problema di come definirlo non si pone neanche, ed è un peccato. Perché il Bocca, come lo chiamava Silvia Giacomoni, la compagna di una vita, nonché sua editor di fiducia, è stato tante cose diverse nel panorama del giornalismo italiano del Novecento. D’altronde, quando un uomo attraversa gli snodi cruciali di un Paese, senza quasi mai perdere di lucidità, magari accentuando quel poco di scetticismo che già ne punteggiava il carattere, non ha altra scelta se non quella di essere, per l’appunto, “tante cose diverse”. Sicuramente fu un cronista, forse il più grande – insieme al revisionista Giampaolo Pansa, colpevole di quel Sangue dei vinti che smontava tutto il mito resistenziale per il quale a Reggio Emilia nemmeno lo fecero parlare alla presentazione del libro – anche se lui stesso ammise di non aver mai scritto una sola cronaca in vita sua ma solo interpretazioni, pur parziali, della realtà.
Fu certamente uno storico, e dei più controversi, specie quando biografò Palmiro Togliatti pennellandone più vizi che virtù, tanto che di quel libro i comunisti provarono a osteggiarne non poco la diffusione, fino a quando non si rassegnarono e decisero di pubblicarlo in allegato con l’Unità. Fu anche un sociologo, di quelli che lavorano sul campo e macinano chilometri pancia a terra, se è vero che il suo era innanzitutto un racconto di fatti sociali. Infine, contro chi intorbidiva le acque della memoria collettiva, fu un cantore ruvido, anche scontroso, della montagna negli anni della neve e del fuoco – quando da partigiano, nelle valli del cuneese, imparò tutto ciò che la vita poteva insegnargli. Allora proprio da questo spicchio di terra, e dalla sua Cuneo, bisognerebbe sempre partire per descrivere Giorgio Bocca. Così come ha fatto nel libro forse più bello che abbia mai scritto, l’autobiografia Il Provinciale (Mondadori, 1991). Settant’anni di vita italiana raccontati in prima persona senza infingimenti, calando le braghe del proprio ego e quello della retorica nazionale, per dimostrare che sotto sotto l’Italia è sempre stata un un’occasione persa.
Cuneo, dunque. La città dei suoi sogni piccolo borghesi. Città quadrata e orgogliosamente provinciale, fascista fino all’ultimo cristiano salvo qualche gruppuscolo di eretici sparsi in paese, come quel tale, Duccio Galimberti, successivamente anch’egli partigiano, a cui intitoleranno la piazza principale. Città tranquilla che gli aveva concesso di starsene al riparo dagli spiriti animali del capitalismo, di cui lui stesso si occuperà mirabilmente anni dopo al Giorno, il quotidiano fondato da Enrico Mattei nel 1956, in occasione del boom economico e del miracolo di un paese pronto a sfidare la modernità – «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste».
La famiglia Bocca, di questa provincia così austera, ne era per certi versi lo specchio. Mamma maestra, papà insegnante di matematica, incline più ai silenzi che al dialogo, con il quale non a caso il piccolo Giorgio non ebbe granché feeling. Ma l’affetto e il calore che pure non gli mancavano, innervati da una pedagogia della libertà, quella in cui un bambino deve imparare a correre da solo molto presto, lo avevano comunque persuaso che niente e nessuno potesse portargli via la sicurezza dell’amore familiare. Nemmeno quando tutti quanti, genitori e nonni inclusi, riunitisi all’indomani di una gita al monte Sabenk, da Valdieri dovettero partire di buon mattino e andare alla ricerca del portafogli del padre con dentro lo stipendio fresco di ritiro. Un momento di angoscia che pur preoccupando il capo famiglia, molto più povero di quanto il blindatissimo posto statale volesse far credere, convincerà Bocca dell’utilità di avere una famiglia ben salda anche nelle difficoltà del vivere. Le stesse che, da lì a poco, metteranno fortemente in discussione quella granitica certezza.
Prima, con la caduta del fascismo, e lo smarrimento di tutti coloro che mai avrebbero pensato ad un rivolgimento così drammatico. Poi, con l’insorgere tetro della guerra mondiale, e la scelleratezza di Mussolini di infilarcisi sperando che rimanesse uno strapuntino di gloria anche per l’Italia pezzente e militarmente modesta di allora. Pertanto, l’ormai più che ventenne Bocca, dopo essere stato a sua volta conformisticamente fascista perché tutti lo erano a quel tempo, anche quando pensavano di non esserlo, era pronto a fare la sua parte nella Resistenza, questa volta seguendo il vento di un socialismo liberale, laico, repubblicano, qual era quello di Giustizia e Libertà, cui frattanto avevo deciso di aderire. E una sera del ’43, uscendo di fretta dalla casa dei genitori, situata in via XX Settembre guarda caso proprio davanti al Palazzo Littorio, dice alla madre che forse non tornerà per cena. Sarà effettivamente così. In quei venti lunghissimi mesi passati in montagna, in mezzo alle preoccupazioni, alle responsabilità del comando di brigata, agli obblighi di un’esistenza per la prima volta realmente minacciata, egli diventerà un uomo, né più né meno.
La “guerra di casa”, come la definirà nel capitolo emotivamente più importante del già citato Il provinciale. In cui, come estrema ratio, gli capiterà pure di uccidere. Una sola volta, una di troppo, bastevole eccome a dirsi quanto terribile sia rispondere ai doveri di un comandante, tra cui ammazzare un altro uomo se necessario. Hans Dieter, maresciallo delle SS, il nome della vittima, uno che era stato catturato in Val Varaita, a Sampeyre, di cui nessuno voleva sbarazzarsi. Per paura, perché non ce la si sentiva di compiere un gesto del genere. Ma saperlo ancora vivo, dati i rastrellamenti dei nazifascisti in zona, era forse più pericoloso. «E allora tocca a me» – pensa tra sé e sé dopo l’ennesimo rifiuto da parte dei suoi – «vado dietro a Hans e alla prima curva del sentiero quando non copre i partigiani sparo. Si sente il clic del Thompson che fa cilecca. Lui si volta sbiancato. Ha sentito, ha capito. Fa ancora due passi e questa volta la raffica parte. Si arruota con il suo urlo, come se volesse sfuggire alla morte avvitandosi nell’aria. Ho i visceri attorcigliati ma un comandante è quello che si aspettano i suoi uomini. Seppellitelo – dico con voce fredda. Si è chiusa lì la mia vicenda di comandante duro e magari ho sbagliato, magari ho fatto uccidere dai fascisti e dai tedeschi dei partigiani, ma non ho avuto più l’animo di far fucilare qualcuno […]».
A dispetto della drammaticità degli eventi, per il partigiano di Cuneo quella sarà un’avventura di enormi slanci, speranze, tentativi di andare anche oltre i propri limiti, umani ancorché ideologici. L’appoggio della società civile, delle persone comuni – negato inspiegabilmente da alcuni giornalisti con il vizio di far gli storici – certo che ce l’avevano i partigiani: «Eravamo in pochi e con la nostra presenza li aiutavamo a non consegnare i raccolti agli ammassi e perché comunque stavano dalla nostra parte. Quando arrivavano i tedeschi e i fascisti le case bruciavano, i giovani venivano deportati in Germania, e siccome noi né bruciavamo le loro case, né li mettevamo al muro, né li deportavamo, né parlavamo una lingua incomprensibile, lo stare con noi era automatico, naturale». Per lui, sopra ogni cosa, la Resistenza fu un’occasione di mettere assieme i diversi caratteri, le tendenze più disparate, tutte le anime politiche fin ad allora nascoste in una sorta di agorà clandestina.
La Resistenza come sogno, si potrebbe dire, «in cui democrazia liberale e dittatura del proletariato, economia di mercato e socializzazioni, governo di maggioranza e solidarietà combattentistica convivevano anche perché ognuno poteva parlare, promettere, sostenere, tanto non c’erano verifiche possibili». Il ritorno all’ordine del dopoguerra, seppur necessario, sarà il risveglio improvviso da quel sogno tipico dei vent’anni che non poteva non interrompersi bruscamente. Ecco perché Bocca, nelle tante volte in cui si ritroverà a parlarne, della Resistenza dirà essere stata l’unica parentesi nobile e degna della nostra storia recente. In quanto dopo appena qualche mese – con le elezioni del ’48 e l’inizio della stagione degasperiana, l’atlantismo fedele di cui il Piano Marshall costituiva la famosa spada di Damocle, la stabilizzazione del ribollente Fronte popolare, con i socialisti e i comunisti pronti a prendersi tutto quello che ai democristiani non interessava – la stessa Italia che aveva cercato da sé di liberarsi dall’occupazione dei tedeschi, procederà, come altre volte gli è capitato di fare, su binari più consoni al suo carattere gattopardesco. Eppure, iniziando timidamente a rialzare la testa dopo vent’anni di regime fascista e costruire pezzo a pezzo un sistema politico, economico, sociale che fosse alla pari dei paesi civili.
In parallelo allo svolgersi delle travagliate vicende nazionali, la carriera del giornalista Giorgio Bocca inizia dalle macerie di un paese da rifare, dunque. E, soprattutto, da raccontare. Sono gli anni alla Gazzetta del Popolo di Torino, dove si trasferirà per qualche tempo, frequentando la via Po dei Vittorio Foa, Dante Livio Bianco e Leo Valiani; ma anche gli anni formidabili di Milano, passati nella redazione del Giorno ad imparare finalmente il mestiere di scrivere grazie all’amica e grande firma Camilla Cederna, la prima donna di successo in quel maschio mondo della stampa italiana.
Per approdare, infine, a Repubblica, il giornale fondato nel 1976 da Eugenio Scalfari, che influenzerà da lì in avanti gli umori e i comportamenti della sinistra italiana; e a L’Espresso, con la caustica rubrica L’antitaliano che apriva il settimanale, formato non più lenzuolo ma tabloid, a quel tempo bussola preziosa di tutto il mondo progressista. Qui verranno ancora inchieste, pezzi straordinari sull’Italia che cambia, sugli anni della contestazione e il terrorismo, sulla mafia – con l’ultima intervista rilasciata dal generale Dalla Chiesa poco prima di morire – e sul crollo della Prima Repubblica, picconata dalla Lega Nord ritenuta dallo stesso giornalista benemerita proprio perché capace di porre fine ad un sistema eroso dalle tangenti. Simpatie, quelle verso il partito di Umberto Bossi, che addirittura gli valsero le accuse di antimeridionalismo, in particolare di essere contro Napoli e i suoi cittadini (il libro del ’92, L’inferno. Profondo sud, male oscuro rimane un grido potentissimo non tanto contro il meridione, ma verso l’incompiutezza dei governanti). Rivelativa di un’innegabile disillusione che aveva preso Bocca negli ultimi tempi è l’intervista a Che tempo che fa del 2006 per l’uscita del libro Le mie montagne, dove un Fazio ai limiti del buonismo incalza il giornalista proprio su Napoli e lui senza freni gli dice che quella «è una città decomposta»; che, per quanto ci si impegni, «le cose non cambieranno mai»; che nascere nella città partenopea, insomma, è una sfortuna irredimibile. Il riso amaro del conduttore e il gelo in studio del pubblico rimangono, ancora oggi, una delle cose più inaudite della storia della televisione.
Negli ultimi anni di vita, ormai sempre più vecchio, stanco e rassegnato alle innumerevoli occasioni mancate del paese – «le vicende storiche dell’Italia sono un vai e vieni come l’acqua sulla battigia», diceva – Giorgio Bocca si occuperà, tra le altre cose, dell’ascesa di Berlusconi, il piccolo Cesare, per citare il titolo di un libro che dedicò al fondatore di Forza Italia. Smargiasso, volgare, arricchito – in grado persino di deviare la rotta aerea da Malpensa verso il quartier generale di Milano 2 – per il Cavaliere egli mostrerà fino alla fine una vera e propria repulsione antropologica, ancor prima che politica. Quando il 25 dicembre del 2011 il Bocca deciderà di lasciare questa vita e compiere l’ultimo viaggio, lui che da quando aveva iniziato a fare il giornalista non si era fermato mai, il terzo governo Berlusconi era appena caduto e la traiettoria politica del suo leader giunta al termine.
Solo un anno prima, con il pamphlet Annus Horribilis, allarmato di come si era ridotto il paese, aveva però fatto in tempo a descrivere tutte le nubi della politica prossima ventura. Il quarto di copertina di quel libro edito da Feltrinelli (come quasi tutti i suoi lavori) sembra la scaletta di un quotidiano di oggi: «La crisi economica e l’autoritarismo strisciante. Il circo berlusconiano e il discredito internazionale. Il suicidio della sinistra e il ritorno dei fascisti. L’Italia delle ronde e l’Italia dei respingimenti. Il 2009 sarà ricordato come un anno nero della nostra storia. Un anno in cui molti nodi sono venuti al pettine, tutti insieme, e ci hanno riconsegnato un paese stanco, involgarito, ripiegato su sé stesso e sui suoi atavici difetti». Intervistato da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, alla domanda se per il nuovo anno ci fosse qualche speranza rispetto al precedente così horribilis, Bocca, recuperando un pizzico di fiducia, risponderà: «Non esageriamo. Qualche barlume». Ogni tanto, lo confessiamo, ci attraversa l’inutile sforzo di pensare cosa direbbe oggi.