Era il 7 dicembre del 1967 quando il New York Times riportò la notizia in prima pagina: il cavallino di bronzo, opera attica del 480 a.C. esposta al Metropolitan Museum, era un falso. L’annuncio aveva del clamoroso e infatti fece subito il giro del mondo gettando nel panico la prestigiosa istituzione newyorkese e quanti – l’Enciclopedia britannica, per esempio avevano sempre dato molto risalto al bronzetto in questione. Senonché il 24 dicembre 1972, sempre in prima pagina, sempre lo stesso New York Times, ingranava la più classica delle retromarce. Perché questa volta apriva con un’altra notizia che con la precedente confliggeva non poco: la scultura bollata come un falso è invece autentico a tutti gli effetti, lo certificano senza ombra di dubbio quattro esperti del settore.
Adottando un certo linguaggio in voga oggi, per questo clamoroso uno-due sferrato nel giro di appena un lustro, si potrebbe essere tentati di parlare di fake news o di fact checking. Sarebbe un errore, perché se c’è una cosa lontana dalla dimensione “esatta” della certezza assoluta e scientificamente provata, questa è proprio l’arte. Affidata com’è all’estro e all’istinto, e dell’intuito prima ancora che alla conoscenza, abituata a costeggiare il vuoto, a raccontare da che uomo è uomo la “disarmonia prestabilita” del mondo.
Marshall McLuhan, uno che con la comunicazione aveva una certa dimestichezza, non per nulla sosteneva che con l’arte puoi sempre farla franca. Così come stabilì a suo modo la Corte di cassazione, quando sentenziò che l’attribuzione se non è vera può essere “veridica”, quindi che il venditore di un’opera falsa può anche essere in buona fede. Di qui la sostanziale impunibilità di tanti raggiri (vedi il recente crocifisso “di Michelangelo” acquistato per 3 milioni all’epoca del ministro Bondi), di qui gli impossibili e quasi patetici tentativi di mettere ordine in un territorio che ordinato non potrà mai essere, come per esempio l’idea di costituire una commissione formata da magistrati, professori universitari, funzionari delle soprintendenze ed esperti designati dalle associazioni dei mercanti d’arte con obiettivo di creare un albo dei periti incaricati di stabilire “con certezza” l’attribuzione di un’opera d’arte.
Anche a prendere con le molle la denuncia fatta a suo tempo da studiosi come Alice Beckett che negli anni novanta parlava di falsi circolanti tra musei e gallerie in una percentuale del 40%, o libri di mercanti che negli anni Sessanta avevano stimato 100mila Cézanne presenti nei soli Stati Uniti, e anche dimenticando pittori come De Chirico capaci di dare paternità anche a quadri non suoi se gli piacevano, un fatto è certo: così come l’essere e il sembrare, l’arte e il falso sono inestricabilmente, intimamente legati l’una all’altro. Oggi più che mai, in un’epoca sempre più tiranneggiata dall’ignoranza e sempre più consegnata alla superficialità del mi piace-non mi piace, con gli stessi siti di news intenti a dedicare più tempo e risorse a diffondere informazioni discutibili e spesso false, di quanti ne impieghino a verificare e/o smontare contenuti virali e voci diffuse su internet, nel cieco tentativo di guadagnare traffico e social engagement.
Le oasi di chiarezza sono ben poche in questo mondo così accidentato, infingardo e proprio per questo così attraente, dove la seriosità è indispensabile e dove chi si azzarda a sfiorare la divinità dell’arte è di fatto un escluso. Non sono più nemmeno i tempi dell’abbate Morelli che nell’Ottocento analizzando particolari come orecchie e piedi mise in moto un bel valzer di ri-attribuzioni, scombussolando la vita di molti musei. Di queste oasi di chiarezza, la più lussureggiante, almeno nel Novecento, resta quella dei falsi Modigliani avvenuta quasi quarant’anni fa, quando il 24 luglio del 1984 nel fosso reale di Livorno furono rinvenute due teste troppo freneticamente e troppo frettolosamente attribuite all’artista più famoso e più costoso di quella città di cui si correva tra l’altro quell’anno il centenario della nascita (le teste in tutto saranno tre, la terza sarebbe stata ripescata poco tempo dopo, il 9 agosto).
Passata alla storia come la “beffa di Livorno”, è stato l’happening più dadaista e più dissacrante di tutto il Novecento. Marcel Duchamp, l’anartista più geniale del secolo, dell’istituzione museo aveva una disincantata, dissonante opinione. Lui lo vedeva come “ospizio o di asilo per ciechi, sordomuti, anziani o alienati. In fondo, si chiedeva, “cos’altro sono i musei per gli artisti, se non case per matti ibernati in cui alcuni conservatori-infermieri studiano retrospettivamente i casi più tipici? D’altronde se si è matti, morti o vivi poco importa, non è meglio stare rinchiusi? Fuori è troppo pericoloso”. Ecco, fosse stato vivo, lui a quei tre studenti in vena di scherzi avrebbe di certo applaudito, avrebbe di certo gongolato nel vedere l’establishment storico-critico al quasi completo così sbugiardato, così apertamente ridicolizzato come nel caso della “beffa” dei falsi Modigliani. E insieme ad esso, indirettamente, anche buona parte di una stampa che perfino dopo la confessione dei tre irriverenti ragazzi (fatta infine a “Panorama” nel tentativo di sedare entusiasmi che dire faciloni è dire poco) parlava di “giallo” delle teste.
Perché se si eccettuano studiosi come Federico Zeri, per un sistema artistico così poco autoironico e sempre ben attento a difendere il proprio “sacro recinto”, la propria lontananza da tutto e da tutti, quei fatti estivi furono come una violenta ubriacatura, durata una cinquantina di giorni, con i pasdaran a insistere che quelle erano davvero opere in cui si poteva riconoscere l’inconfondibile mano di Modì. Conclusasi solo con la prova del 9, quella in cui i tre studenti di fronte alle telecamere rifecero pari pari la testa tanto incensata quanto incriminata. Mettendo così davvero una pietra sopra a ogni speculazione.
E non parlo solo di funzionari direttamente interessati come i fratelli Durbé (lei direttrice dei musei civici livornesi, lui sovrintendente alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma) ma di vere autorità della materia come Argan, Brandi, Ragghianti, Carli, che all’operazione “Modigliani ritrovati” avevano dato la loro benedizione. Senza contare lo stesso restauratore capo della Galleria nazionale d’arte moderna, il quale da parte sua ne confermava l’autenticità…
Insomma, un’ubriacatura nazionale di tali proporzioni che ancora nel pieno del parapiglia delle sorprese, nel festival delle “prove” e delle incertezze, tutti si lasciarono attirare come polli nella trappola, insistendo fino alla fine, finché fu possibile, nel loro convincimento, interessato o no che fosse. “Lo scherzo questi ragazzi lo hanno tirato ai giornali, non a noi” arrivò a dire l’incrollabile Vera Durbé anche dopo l’intervista a “Panorama” uscita, nemmeno a farlo apposta, il giorno dopo la presentazione del catalogo fatto in quattro e quattr’otto (privo infatti della terza testa rinvenuta più tardi) in cui in pompa magna si ufficializzava e documentava la sensazionale scoperta. S’intitolava “Le pietre ritrovate di Amedeo Modigliani” ed è già passato alla storia come il catalogo “meno e più getta” mai pubblicato contenente frasi come questa: “L’ emozione grandissima che ho provato quando le opere di Modigliani sono arrivate al museo di Livorno è indescrivibile”.
Curato da Dario Durbé, sindaco, assessore e direttrice dei musei cittadini vi autocelebravano cantando la propria tenacia e determinazione per un ritrovamento definito “clamoroso”. E in effetti clamoroso si rivelò davvero, il ritrovamento. Perché per un momento mise a nudo tutta la fragilità di quel sistema monoteistico di mercato che George Dickie ha fotografato così: un’istituzione formata da un certo numero di persone (artisti, critici, galleristi, curatori di mostre, appassionati) regolata da un insieme di procedure storicamente sedimentate di presentazione di un dato oggetto (l’opera) a determinate persone (il pubblico) per conto di certi individui (i galleristi, i curatori e soprattutto gli artisti stessi).
Un sistema superesclusivo, costantemente indaffarato ad ammantarsi di quella superiore autorevolezza indispensabile per giustificare i suoi prezzi così spesso esorbitanti e per questo così sprovvisto di autoironia. E che infatti fu ben attento a riseppellire nelle melme, anzi a metterci una bella pietra sopra (ben poco serena, stavolta), ributtando nel buio del canale l’intera imbarazzante vicenda, riportata poi dopo in superficie solo qui e là, magari per qualche anniversario, su qualche pagina di cronaca più che di cultura…
Non tutti i falsari si chiamano Eric Hebborn, Elmyr de Hory o van Meegeren, non tutti possono essere così quintessenziali a quello stesso mercato che loro stessi hanno contribuito a confondere, a complicare. La storia ha dimostrato che si possono chiamare anche Michele Ghelarducci, Piero Luridiana e Francesco Ferruccio, autori della testa in pietra serena (le altre in granito erano opera di Angelo Froglia, personaggio rimasto nell’ombra in tutta la vicenda). Nel regno del falso ci si può far capolino anche senza motivi di lucro, si può essere principianti in materia e forse proprio per questo scatenare cortocircuiti illuminanti, inappellabili fact checking, con tanto di geniale ciliegina sulla torta, firmata stavolta Black & Decker. Infatti dopo la confessione dei tre “falsari”, la famosa casa di trapani si inventò una pubblicità ad hoc: “l’unico trapano con cui puoi realizzare opere d’arte”. Spettacolo nello spettacolo, l’happening più dissacrante – e quindi più artistico – di tutto il Novecento. Peccato solo che il mondo dell’arte dopo abbia fatto di tutto per dimenticarlo, espellendo di fatto dal sistema i due “colpevoli” fratelli Durbé, entrambi rimossi dai loro incarichi e poi reintegrati con altri incarichi da TAR e Consiglio di Stato.
Dal Bestiario degli Italiani n. 11, “Il fake”. Abbonati alla rivista.