Prima la presidente del parlamento Metsola che denuncia al mondo una “Democrazia europea sotto attacco” insieme a un must d’occasione come la commissione d’inchiesta e annuncia “un pacchetto di riforme su tutti i rapporti di amicizia non ufficiali” (riferendosi probabilmente alle nuove leggi contro la corruzione già anticipate dalla commissaria agli affari interni Ylva Johansson); poi un documento che approva la destituzione immediata dalla carica di vicepresidente dell’eurodeputata greca Eva Kaili, dove la notizia è che qualcuno, per la cronaca il croato Mislav Kolakusic, ha avuto il coraggio di votare contro e altri due, sempre per la cronaca l’olandese Dorien Rookmaker e il tedesco Joachom Kuhs, magari meno eroici ma chissà se in preda a chissà quali conflitti interiori, hanno scelto di astenersi; quindi un altro documento che sospende seduta stante tutte le pratiche in corso riguardanti il Qatar al quale altri parlamentari hanno pensato bene di opporre o voto contrario (ancora per la cronaca, i comunisti greci Leuterīs Nikolaou-Alavanos e Kōnstantinos Papadakīs) o astensione (l’altoatesino Herbert Dorfmann della Svp insieme a altri due comunisti, stavolta portoghesi, Sandra Pereira e Joao Pimenta Lopes), più o meno questo a Bruxelles.
Quanto a casa nostra, la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha parlato di “contorni devastanti” (che non si capisce esattamente cosa voglia dire, in una vicenda al momento nebulosa soprattutto nel suo nucleo centrale); il segretario del Pd Enrico Letta di “danno gravissimo all’Ue e alla democrazia” (dove per democrazia è probabilmente da intendere soprattutto il suo partito, il più coinvolto insieme al confinante Articolo Uno); il leghista Matteo Salvini (quello che dopo aver nel 2017 accusato il Qatar di finanziare e fomentare il terrorismo, un anno e mezzo più tardi, da ministro dell’Interno, esaltò la “tanta voglia di investire dei fondi qatarini anche in imprese italiane della moda), da parte sua non ha saputo far meglio, una volta chiesta la convocazione del COPASIR, che prendersela incautamente con chi non ha dimenticato i famosi 49 milioni, dimenticando che per quanto tanti, gli euro scoperti finora tra trolley e cassette di sicurezza ammontano a una cifra pur sempre di quasi cinquanta volte inferiore a quella scomparsa nelle spire del partito di cui è segretario. E poi naturalmente il coro dei soliti “garantisti” a intermittenza, il cui scatenamento attuale contro “l’ipocrisia della sinistra” non fa che confermare quanto sia delicato da quelle parti il tasto “corruzione”, in una fase in cui il ministro della giustizia ha già avuto modo di dichiararsi comprensivo nei confronti dei condannati in primo grado.
Tutto questo per dire che ognuno reagisce come può a questo scandalo subito definito “Qatargate”, il cui dato principale, finora è la sproporzione: tra un habeas corpus che dire ingombrante è dire poco (il milione e passa di euri rinvenuti nelle abitazioni dell’ex eurodeputato Antonio Panzeri, dell’ex vicepresidente dell’Europarlamento Eva Kaili, più gli “spiccioli” custoditi dal suo compagno Francesco Giorgi nella sua casa di Abbiategrasso) e un’indagine di cui molto poco ancora si sa, venuta a galla non dall’interno dello stesso parlamento europeo ma dalla Intelligence belga, portata avanti da mesi in collaborazione con altri quattro o cinque Paesi e resa nota dal quotidiano belga Le Soir; tra le poche notizie diffuse (poche e anche contraddittorie, visto che al direttore de Le Soir non risultava nemmeno quella della cinquantina di altri coinvolti diffusa dalla stampa greca) e le potenzialità altamente esplosive di una vicenda i cui confini sono al momento solo ipotizzabili, sulla base prima ancora che del sempre utile buon senso, del decreto della procura di Milano (su delega del giudice istruttore di Bruxelles) in cui si parla dell’esistenza di un “gruppo indeterminato e molto ampio di persone dedite alla corruzione operanti all’interno delle strutture europee”.
E poi ancora, sproporzione tra l’irreprensibile tensione morale cui rimandano i nomi delle due ONG coinvolte (“Fight impunity” e “No peace without justice”) e la miseria umana denaro-dipendente, tale da far pensare all’Alberto Sordi-Agostino che nel film “Il moralista” sotto la facciata eticamente orientata della sua “Organizzazione Internazionale della Moralità Pubblica” nascondeva un giro di tratta delle bianche; tra la “violenza” mediatica delle fotografie delle banconote sbandierate dalle autorità investigative e la sorprendente scarsità di intercettazioni, strumento comunque rivelatosi da quel che si capisce fondamentale per i sei arresti compiuti; tra il fascino misterioso che un’indagine da alte sfere come questa, degna di un filmone hollywoodiano in grande stile (con tanto di qualche perquisizione “clandestina” preventiva), porta comprensibilmente con sé e l’apparente modestia dei suoi protagonisti: un Panzeri dall’aria sempliciotta che come nelle vecchie commedie italiane anni Sessanta delega alla moglie la gestione dell’economia domestica (e di quella vacanziera, particolarmente costosa), il più giovane Giorgi suo ex collaboratore già precipitato nel ruolo di pentito parafulmine familiare collaborante con la giustizia che ammette – e non è esattamente una rivelazione – di aver “fatto tutto per soldi di cui non avevo bisogno” cercando di tirare fuori la compagna nonché madre della sua figlioletta dal fuoco di attenzioni che il combinato disposto soldi+bellezza è per definizione in grado di garantire; tra la classicità della citazione a effetto versione tragedia greca da lei usata (“Non diventerò Ifigenia”, dove il riferimento è alla figlia di Agamennone e di Clitennestra, sacrificata nel noto mito greco) e la comicità involontaria – questa invece molto contemporanea – esibita alla tv nazionale dal suo avvocato: “Kaili non ha alcun coinvolgimento con i soldi che sono stati trovati, tranne che lei stessa era nella casa in cui è stato trovato il denaro“, consigliando ai magistrati di “chiedere a lui”, a Giorgi, informazioni riguardo ai 750mila euro trovati appunto nella sua abitazione, senza contare la fuga del padre di lei col trolley pieno di banconote; tra la serietà e la circospezione dimostrata fin qui dagli inquirenti, dimostratisi per una volta recalcitranti alle lusinghe mediatiche, e lo schiamazzo da pollaio di tutti quelli impegnati nel repertorio da copione, fatto di “io non sapevo”, “io non c’entro”, “io ero contro”, “io non ero l’amante di nessuno”, fino all’incredibile “non ricordo se sono stato in Marocco” del parlamentare Pd Cozzolino, sospeso dal suo partito, il PD.
Tante sproporzioni e poche certezze, dunque, ma con quel milione e passa di euro in contanti di provenienza ancora ufficialmente ignota a certificare agli occhi del mondo la gravità di uno scandalo che ha colpito al cuore questo enorme transatlantico burocratico disteso tra Strasburgo e Bruxelles, questa “macchina normativa plagiata dagli interessi che avendo ridotto le istituzioni UE a mere istanze normative, ne ha svuotato il senso democratico” (così Pier Giorgio Ardeni su il manifesto, pochi giorni fa), così lontana da quell’organismo che a parole avrebbe dovuto assicurare “uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità”, “alti livelli di occupazione e di protezione sociale”, “il miglioramento del tenore e della qualità della vita” delle persone, un “elevato grado di convergenza dei risultati economici”, perfino la “solidarietà tra gli stati membri”.
Uno scandalo multilingue, questo “Qatargate” che nella sua insegna principale reca scritta ancora una volta la parola “corruzione” e nel suo risvolto rimanda tanto per cambiare a una “trasparenza” rara ormai quasi quanto la foca monaca, in una scena politica mai apparsa così culturalmente deficitaria, abituata – diciamoci la verità – ad affrontare le elezioni europee più che altro come trampolino di riserva per chi non era riuscito a trovare un posto al sole entro i confini nazionali. Si sbaglierebbe infatti – e non solo per colpevole provincialismo – nel considerare quella installatasi nella capitale belga un’asettica e superiore élite dedita all’elevazione morale e intellettuale, tanto ricca quanto incapace fin qui di darsi la benché minima autoregolata in fatto di un sistema fisiologico di lobbying guarda caso nemmeno sfiorato dal giro di vite promesso con tanta enfasi dalla presidente Metsola in questi giorni; un giro che si calcola interessi poco meno di 50mila persone, nessuna delle quali però in azione per favorire i più svantaggiati, visto che, come si diceva in un film di Godard, “quando perfino la merda avrà un valore, i poveri non cacheranno più”. Certo, l’accordo sul trasporto aereo, quello firmato lo scorso anno e transitoriamente in vigore che garantiva alla Qatar Airway accesso illimitato al mercato dell’Unione ora è saltato, così come è andata in cavalleria la (poco comprensibile) proposta della commissione di eliminare i visti d’ingresso in Europa dei cittadini qatarioti, ma siamo al minimo sindacale per un’istituzione finora parsa sempre molto più attenta a dar corso alle sue meccaniche preoccupazioni da inflazione che nel voler ragionare sulle vitali differenze che caratterizzano i tanti (troppi) Paesi che la definiscono e su cui dovrebbe essere costruita invece una ricchezza continentale senza uguali.
Un giorno forse si saprà qualcosa di più sul come e sul perché di questo “Qatargate” (dall’Arabia Saudita e/o dagli stessi Stati Uniti per colpire il Qatar grande fornitore di gas liquefatto o un’Europa in affannosa ricerca di una qualche unità? O partorito dal seno stesso del parlamento europeo, per improvvide vendette trasversali? Come sempre, anzi più che mai, retroscena e dietrologie sono alla portata di tutte le tasche) che però già fin d’ora impone fragorosamente al centro della scena internazionale il busillis cruciale che affligge le nostre sempre più fragili democrazie, quello tra la difesa dei diritti civili in nome della correttezza politica, il sempreverde potere dei soldi, ovvero tra le parole e le cose, tra il benpensante predicare e il famigerato razzolare, in un sistema in cui a mancare ancora una volta sono concetti come controllo, autoregolamentazione, correttezza.
È lo stesso busillis sfoderato nella sua versione più fosforescente, nel senso di più emblematica dalla famiglia del neodeputato nero Aboubakar Soumahoro, eletto grazie al duo Bonelli-Fratoianni e balzato alla ribalta nazionale in una vicenda che con quella belga ha in comune solo valigiate di contanti e legami familiari, qui con variante di suocera amministratrice allegra e una moglie presa molto di mira per lo sfoggio di sé, riuscita miracolosamente a calamitare anche parole di conforto (da parte di una se non altro coraggiosa Concita De Gregorio). Una vicenda quest’ultima, che certa stampa tende ora ad avvicinare strumentalmente a quella ben più inquietante d’oltreconfine (se contro la sinistra, chissà contro quale sinistra, viene da chiedersi) ma che a quella è difficilmente paragonabile. Non fosse altro che qui, i raggirati ci sono eccome, sono i poveri lavoratori cui la cooperativa a gestione familiare aveva deciso di non pagare più gli stipendi, quegli stessi lavoratori bellamente dimenticati da stampa e televisione. A conferma che i poveri non sembrano interessare davvero più nessuno…