OGGETTO: Andreotti western
DATA: 03 Novembre 2020
SEZIONE: inEvidenza
Come il cinema statunitense ha arricchito e soffocato i film italiani. Il nuovo numero del Bestiario parla anche del soft power in pellicola.
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Quando Frank Capra mostrò il petto nudo di Clark Gable in Accadde una notte (1934), i produttori di canottiere si fecero il segno della croce: nessuno, in tutti gli Stati Uniti, avrebbe mai più voluto indossarne una sotto alla camicia. In quegli anni Gable non era però il solo a poter decretare il successo o il fallimento di intere industrie, tanto che qualsiasi protagonista di un film di successo sembrò essere capace di indirizzare gli spettatori verso un prodotto piuttosto che un altro. Il divo fumava un certo tipo di sigarette? Peggio per la concorrenza. Portava un certo modello di occhiali da sole? Tempi grami per tutte le altre firme, e così via con mille altri accessori. Dalle nostre parti, una simile influenza sui comportamenti e sui consumi arrivò qualche anno dopo rispetto al film di Capra, ma poté ugualmente vantare esiti tanto affascinanti quanto grotteschi, forse anche figli della voglia di esotico americano successiva al blocco sulle loro pellicole imposto dal fascismo. Fu ad esempio il periodo dei concorsi per i sosia dei divi a stelle e strisce – in cui il vincitore avrebbe avuto diritto a una parte in un film o in un fotoromanzo – e ancora della nascita di una stella come Alida Valli, perfettamente aderente ai canoni hollywoodiani sia in termini estetici che attoriali. La regola era semplice: tutto era buono purché rimandasse a ciò che era altro, meglio se statunitense. Fu però soprattutto dopo la liberazione che i rapporti cinematografici tra noi e loro si intensificarono, nel bene e nel male, ed ecco che a quelle domande di prima ne andrebbe aggiunta un’altra, non tanto riferita ai divi quanto piuttosto alle pellicole nel loro complesso, magari intonandola con la vocetta caratteristica di uno che nel ’49 faceva il sottosegretario allo spettacolo:

Il film è veicolo di un certo disimpegno politico? Buone notizie per il partito. 

Andreotti non aveva infatti bisogno di essere il sosia di un divo americano per ricoprire un ruolo cruciale nel fenomeno di americanizzazione del nostro cinema, ruolo assai più grande di qualsiasi Clark Gable di provincia: loro erano delle copie, lui era il Divo originale. La sua legge restò infatti in vigore dal ’49 al ’54 e fu causa di un rapporto di amore-odio tra Italia e Usa mai più eguagliato. Il fine ultimo era quello di invogliare i produttori americani a girare i propri film in casa nostra, cosicché da un lato portassero lavoro alle nostre maestranze e dall’altro esportassero un certo know how a livello tecnico. Ma ciò che più interessava allo Zio Giulio era che l’invasione di pellicole statunitensi soffocasse il cinema di impegno politico e il Neorealismo, che non facevano altro che diffondere nel mondo l’immagine di un’Italia con le pezze al sedere («i panni sporchi si lavano in casa», diceva). Ma se la luna di miele tra la Democrazia Cristiana e gli americani non stupisce più di tanto, i motivi di risentimento assumono forse forme più curiose. La MGM, per dirne una, ebbe la pessima idea di sfruttare le condizioni faveroveli offerte da Andreotti per occupare Cinecittà per circa diciotto mesi. L’obiettivo era quello di girare il remake di Quo vadis (film italiano del 1913, capostipite del filone storico-monumentale che a loro piaceva tanto) senza nemmeno spendere un dollaro e adoperando al loro posto le lire congelate dallo stato americano nel ’41. Non l’avessero mai fatto.

L’accusa meno grave fu quella di «imperialismo culturale», gli attori si riunirono per protestare contro l’invasione dei teatri di posa, i produttori si accodarono alle grida di dissenso e il film si rivelò un disastro. Ma mentre il Divo si sfregava le mani, felice di aver appaltato al cinema americano il lavoro sporco di egemonia culturale, anche i cattolici si misero in fila a infamare gli yankees, colpevoli di spingere l’asticella della morale e del mostrabile sempre più alto del dovuto. Anche i cinefili cominciarono a storcere il naso rispetto a questo intenso rapporto con gli States, in particolar modo dopo che si venne a sapere che nelle loro sale usavano proiettare una versione censurata di Ladri di biciclette al posto di quella completa. D’altra parte anche a Los Angeles avevano buoni e radicati motivi per avercela con gli italiani, considerando che la nostra passione per il loro topo più famoso aveva per esempio portato il signor Nerbini, editore di Firenze, a pubblicare fumetti di Mickey Mouse a strafottere, ovviamente senza l’autorizzazione della Disney. «Non credevo che i personaggi fossero protetti dal copyright», ebbe a dire; e col cinema non andava meglio per niente, date le molte testimonianze che ricordano di come alcuni nostri produttori fossero campioni di truffa: prima incassavano i soldi per gli accordi di coproduzione, poi sparivano vai a sapere dove.

C’era in effetti un certo piacere a truffare i padroni del grande schermo, quelli che stavano facendo la storia del cinema, che influenzavano gli immaginari di intere generazioni italiane e che a noi lasciavano solo gli avanzi. E infatti al canto delle loro sirene non si poteva che porgere l’orecchio e partire, come fecero le nostre dive e i nostri produttori più lungimiranti. Chi tra i giovani italiani aspirava al canone estetico e comportamentale delle stelle di Hollywood, cominciò allora a essere affascinato anche da quei compaesani che in California ci vivevano per davvero, e che a giudicare da tutto il materiale iconografico che ci giungeva non se la passavano nemmeno male: tappeti rossi, vestiti firmati, ville, automobili sportive, premi Oscar, vite avventurose, belle mogli e bei mariti, ma soprattutto bel cinema. Tra i produttori, Ponti e De Laurentiis furono i primi a vivere il sogno americano. Il primo si era trasferito là e aveva cominciato a lavorare per la Paramount dopo anni di esperienza alla Lux, per poi sposare la Loren e produrre roba che resterà nella storia, come Blow-up e Il dottor Živago; il secondo sarebbe invece arrivato nella capitale del cinema qualche anno dopo, recuperando il tempo perso producendo film di Lumet, Pollack e Cimino.

Con la moglie Silvana Mangano, proprio come Ponti con la Loren, formò il prototipo della coppia italiana che era riuscita a conquistare gli Stati Uniti, dato il successo di lei in Riso amaro e il conseguente raggiungimento dello status di sex symbol internazionale. Da noi, di quelle vite apparentemente di un altro mondo, arrivavano solo le immagini in movimento dei film, quelle fisse dei rotocalchi e le interviste, che col tempo contribuivano ad alimentare un doppio amore per l’America superiore anche a quello precedente. Non solo il sogno americano era vero, ma a viverlo erano in quei casi addirittura dei nostri connazionali, oltretutto sempre capaci di mantenere una certa radice rurale e verace tipica delle loro origini. Non tutti vivevano però l’amore per l’America alla stessa maniera, diciamo piuttosto che ognuno lo interpretava in base alle proprie possibilità.

È bene infatti ricordare come la gente urbana, già dagli anni Trenta, amasse frequentare il cinema anche nei giorni feriali, quelli cioè normalmente destinati alle proiezioni statunitensi, e di come al contrario il pubblico di provincia fosse abituato e costretto alle sole visioni dei giorni festivi, ossia quelli in cui si mostravano i film italiani. Nel loro caso, il fascino dell’esotico era veicolato dai settimanali per il pubblico femminile, ché per le analisi cinefile dei film di John Ford non c’erano né il tempo né le competenze, spesso invece alla portata del pubblico dei professionisti. Ecco allora tornare il Divo con la D maiuscola assieme alla sua legge che più filoamericana non si poteva: pur avendo ottenuto una generica promessa dai produttori made in Usa – che si sarebbero impegnati a non invadere il mercato italiano – Andreotti si guardò bene dal definirne una soglia precisa in termini di quantità, così da lasciare campo libero allo Zio Sam per il suo soft power cinematografico. Da lì in avanti, chi più chi meno a seconda delle zone, tutti avrebbero toccato con mano la magia dei capolavori di Wilder e di Hawks, il mito degli western di Ford e la maestria delle ultime fatiche del Frank Capra di cui sopra. Ecco, sta forse proprio nella sua parabola la perfetta sintesi del rapporto cinematografico tra Italia e Usa: nato a Bisacquino, vicino Palermo, ultimo di sette figli, diventò uno dei mostri sacri della Hollywood classica grazie al suo “tuttofarismo” italianissimo e artigianale. Ricordandone le gesta, James Stewart precisò che una vita del genere «poteva succedere solo in America». Verissimo, così come a mettere in ginocchio un’intera industria americana per una canottiera non poteva che essere un italiano.

Dal Bestiario degli Italiani n.14. Abbonati qui.

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