OGGETTO: I dem americani sono morti
DATA: 20 Gennaio 2025
SEZIONE: Politica
FORMATO: Scenari
Dopo il disastro elettorale di novembre, tra i progressisti d’oltreoceano c’è chi suggerisce di dare battaglia alla destra trumpiana sul suo stesso terreno: l’economia. Ma nell’America dell’iper-identitarismo non c’è spazio per la lotta di classe.
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Mano sinistra sulla Bibbia, la destra alzata mentre tra le sale affrescate del Campidoglio di Washington D.C. risuona la formula del giuramento presidenziale: «I do solemnly swear…». Incuneato tra soggetto e verbo c’è di nuovo il nome — inatteso, insperato, temuto — di Donald Trump: da oggi e per i prossimi quattro anni l’inquilino della Casa Bianca sarà lui. Hail to the Chief, dunque, in barba a tutto e tutti; quella che ancora poco tempo fa appariva come un’impresa politica disperata culmina in un trionfo tanto sorprendente quanto assoluto. Oltre allo Studio Ovale, Trump e i suoi controllano le assemblee legislative e la Corte Suprema, dove prosegue il lento assedio al trio liberal Sotomayor-Kagan-Jackson. Il tycoon si conferma per acclamazione il leader indiscusso di una massa d’urto di oltre settanta milioni di elettori, solido argine alle persistenti pulsioni neocon dei vertici repubblicani ed appoggio garantito per il papabile delfino JD Vance, intanto che la nascente contro-élite destrorsa si adopera per spezzare, o quantomeno allentare, la presa degli avversari sulle istituzioni a stelle e strisce.

Una vittoria totale, appunto, alla quale non può che corrispondere speculare l’altrettanto totale débâcle dei democratici. Non è bastato rimpiazzare Joe Biden con Kamala Harris per puntellare la traballante piattaforma proposta agli americani dal partito dell’asino, more of the same in un Paese alla disperata ricerca di uno strappo netto con il presente grigio ed immobile del quale l’amministrazione appena terminata ha finito suo malgrado per divenire simbolo; al contrario, il golpe bianco orchestrato da Nancy Pelosi e soci ai danni del vecchio Joe ha semmai ulteriormente acuito la crisi interna dei blu, scopertisi democratici soltanto di nome. A fare il resto ci hanno pensato i tempi ristrettissimi della campagna elettorale, quattro mesi contro gli usuali diciotto; una linea comunicativa a dir poco confusa, facilmente neutralizzata dall’aggressività costante degli avversari; ed infine l’inadeguatezza di Harris, incapace di difendere l’operato del suo stesso esecutivo anche dalle blande critiche della stampa amica, e del suo vice Tim Walz, ridotto a macchietta da avanspettacolo pur di non adombrare la candidata Presidentessa.

Certificati in via formale i risultati delle consultazioni e sfumata anche l’estrema speranza che dal processo Stormy Daniels potesse scaturire un impeachment, agli sconfitti non resta che rimboccarsi le maniche in vista dei prossimi midterms. Le parlamentari offrono la ghiotta opportunità di ridimensionare la maggioranza conservatrice alla Camera ed insidiare quella, risicatissima, al Senato; soprattutto, l’appuntamento di metà mandato rappresenta un’occasione per delineare un abbozzo della strategia con cui la DNC intende tentare la rimonta definitiva nel 2028. La strada si preannuncia in salita: i progressisti escono dalla tornata di novembre più poveri di ben venti milioni di elettori rispetto alla precedente. Persi tutti gli Stati chiave, dal Michigan — la cui folta comunità musulmana ha punito l’acquiescenza supina mostrata da Biden sulla brutale campagna militare israeliana a Gaza — alla Georgia, ed il voto popolare, ventennale monopolio sul quale taluni speravano di far leva per scardinare il sistema di selezione indiretta del Capo dello Stato attualmente in vigore.

Preoccupa inoltre che l’emorragia di consensi interessi i latinos, per la prima volta passati al GOP in numeri sostanziali,e perfino i neri, di norma sostenitori irriducibili dei dem, che hanno fatto registrare livelli record di astensionismo; conclamata pure l’enorme difficoltà nell’attrarre i maschi bianchi, alienati dall’ubiqua retorica loro ostileche zavorra le sinistre aldilà (e aldiquà) dell’Atlantico. Bizzarrie woke a parte, è il segno che l’approccio identitario inaugurato dal partito in epoca Obama ha esaurito ogni residua capacità di plasmare ed indirizzare le domande sociali, mai come oggi incentrate su un’economia palesemente disfunzionale. Gli stipendi faticano a tenere il passo dell’inflazione, esplosa in concomitanza della pandemia, mentre il mercato del lavoro è saturo di manodopera straniera a basso costo, anche nel terziario; e dove non arrivano l’erosione del potere d’acquisto e la concorrenza estera, a spaventare c’è comunque lo spettro dell’automazione. Tanti, in primis tra i giovani e giovanissimi, paiono semplicemente rassegnati a rinunciare all’American Dream.

Roma, Dicembre 2024. XXII Martedì di Dissipatio

Si capisce allora per quale motivo la promessa di The Don di restituire agli USA la prosperità di sempre, a discapito di quanti l’avrebbero colpevolmente scialacquata, susciti un tale entusiasmo. A prescindere da qualsiasi giudizio sui suoi referenti, il riscontro alle urne del MAGA-pensiero risulta innegabile, non solo presso i colletti blu: perché quindi non mutuarne gli elementi cardine, opportunamente adeguati ad una cornice di sinistra, e tornare così a competere sul piano trasversale dell’economia? Lo stesso Biden si è fatto d’altronde promotore di un’agenda commerciale protezionista affatto dissimile da quella dell’acerrimo rivale, ed ha anzi intensificato gli sforzi per il reshoring manifatturiero avviati da quest’ultimo; l’ala più radicale dei democratici suggerisce ora di alzare la posta, superando la logica della competizione inter-statuale con la Cina — e con l’Unione Europea, sempre più terza incomoda nel braccio di ferro tra l’aquila e il dragone — per realizzare una versione prog compiuta del populismo economico che ha segnato la fortuna dell’altrimenti disordinato progetto politico trumpiano.

Largo perciò ad aumenti salariali, sindacalizzazioni sistematiche e sì, qualche limite — tenue, per carità — all’immigrazione, tutto condito da una sana dose di redistribuzione della ricchezza; largo  insomma a Bernie Sanders, verrebbe quasi da pensare. Se infatti l’età ormai avanzata impedisce all’inossidabile senatore del Vermont di sfidare la sorte con una terza corsa presidenziale, nulla gli vieta di continuare ad esercitare un’influenza affatto scontata sulla scena politica statunitense: valga da esempio il suo intervento a gamba tesa nel feroce dibattito — tenutosi interamente, ça va sans dire, su X — in merito al programma di visti lavorativi per stranieri H1B. Da un lato Elon Musk, fautore convinto di uno strumento a suo parere indispensabile per mantenere e consolidare il vantaggio in materia di capitale umano di cui gli States godono rispetto ai loro principali avversari; dall’altro la variegata galassia della dissident right virtuale, che nei detentori di visto individua un proletariato di riserva al servizio del capitalismo sradicato contro il quale si è espressa con decisione in cabina elettorale.

In mezzo Sanders, che con un’accorata difesa delle ragioni di John Doe — «la funzione primaria del programma di visti H1B […] è rimpiazzare lavoratori americani ben pagati con schiavi stranieri», ha replicato al patron del fu Twitter — supera Trump a destra e si tiene ben stretta la nomea di campione del populismo di sinistra di cui dicevamo poc’anzi. Magra consolazione: il fatto che l’ottuagenario socialista sia pressoché solo nel portare avanti certe posizioni conferma in ultima analisi che l’opera di contenimento attuata nei confronti suoi e delle sue idee dall’establishment democratico ha avuto successo. Le alte sfere dem non sono disposte a tollerare fughe in avanti che ne minaccino gli interessi a lungo termine, ivi inclusa la creazione di un corpo elettorale alternativo a quello autoctono cui le politiche di porte aperte adottate da almeno un decennio a questa parte sono funzionali; altrettanto vale ovviamente per i potentati corporativi che tirano le fila del sistema politico e finanziario americano, poco propensi a sponsorizzare la modifica di uno status quo ad essi favorevole.

Certo, che le élites avversino il populismo è scontato; ma chi nel partito immagina di poter aggirare l’ostacolo allargando la base con un’ottica di classe — viene in mente Alexandria Ocasio-Cortez, che alcuni osservatori danno già intenta a preparare una candidatura a nominee per le presidenziali — farebbe bene a ricredersi. Un tentativo di cooptare la working class è con ogni probabilità destinato ad incontrare resistenze anche nello zoccolo duro del progressismo a stelle e strisce, costituito da donne, in particolare di colore ed ebree, e membri della categoria LGBTQ; colpo d’occhio una coalizione eterogenea, accomunata però dal buono status socioeconomico e dalla forte concentrazione urbana e che per questo esiste in naturale contrapposizione col ceto operaio rurale al quale i populisti dovranno rivolgersi giocoforza. Avversari oggi, nemici domani: complica le cose anche il divario ideologico tra gli uni, wokisti della prima ora, e gli altri, che con i loro valori decisamente più tradizionali trovano miglior accoglienza tra le fila dell’elefante.

Il quale, almeno per il momento, continua a muoversi indisturbato attraverso la vasta savana che cresce nello spazio tra i due partiti, il famigerato centro che si allarga e si contrae in sintonia con le dinamiche della polarizzazione. Con un po’ d’intelligenza i repubblicani possono immaginare di occuparlo in modo semi-permanente, aiutati dal radicalismo via via maggiore di avversari costretti alla passività dal bisogno, paradossale, di conservare il territorio acquisito, dove classe dirigente  ed elettorato sembrano fusi in un’entità funzionalmente unica, informe, immutabile. Era il partito del cambiamento, ed è morto.

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«Questa crescente consapevolezza politica necessita ora di concretezza: se i fatti non seguiranno le parole, l’Europa rischia di subire direttamente le fragilità e i conflitti di una superpotenza che deve capire il rapporto futuro tra sé e il resto del mondo. Una domanda che va oltre Trump e parla all’essenza strategica dell’America.»

Gruppo MAGOG