OGGETTO: Europa allo sbando
DATA: 20 Febbraio 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Scenari
L’annunciato disimpegno degli Stati Uniti dall'Europa, accentuato dalla politica "America First" dell'amministrazione Trump, sta mettendo in discussione l'ordine transatlantico consolidato dal secondo dopoguerra. Questo cambiamento costringe l'Unione Europea a confrontarsi con la propria mancanza di autonomia strategica e potrebbe esacerbare tensioni interne, minacciando la coesione del progetto comunitario.
VIVI NASCOSTO. ENTRA NEL NUCLEO OPERATIVO
Per leggere via mail il Dispaccio in formato PDF
Per ricevere a casa i libri in formato cartaceo della collana editoriale Dissipatio
Per partecipare di persona (o in streaming) agli incontri 'i martedì di Dissipatio'

Il tempo delle comode illusioni sta per esaurirsi. Gli Stati Uniti, che dal secondo dopoguerra avevano propagato a macchia d’olio una visione rassicurante e illusoria per gli europei, si rivelano oggi gli stessi artefici di un risveglio che rischia di far piombare le coscienze europee nel caos. Dopo trent’anni, l’unipolarismo americano ha manifestato i propri limiti sostanziali: nemmeno il più grande impero della storia è in grado di dominare l’intero globo e reprimere sul nascere l’emergere di una potenza alternativa. Così, dopo cinquant’anni segnati dalla Guerra Fredda e trent’anni di unipolarismo, gli Stati Uniti si trovano ora costretti a restringere il campo d’azione, concentrando le proprie attenzioni sulla sfida cinese.

Ciò implica una ridefinizione degli impegni presi con gli europei, pilastri che hanno sorretto ottant’anni di alleanze. L’Impero Europeo dell’America, forgiato sulle ceneri del secondo conflitto mondiale, non ha riguardato soltanto quelle nazioni che ne risultarono sconfitte – come Italia e Germania – ma ha interessato anche quelle che, pur credendosi vincitrici (Francia e Regno Unito), sono state costrette a rinunciare a una piena indipendenza strategica. In questo scambio, la vittoria sul nemico è stata barattata con la cessione di una parte della sovranità nazionale, un compromesso che ha segnato in modo indelebile il destino geopolitico dell’Europa. L’architettura europea, prima economica e poi (parzialmente) politica, si eresse su tale rapporto. L’Unione Europea non fu la causa della pace tra gli Stati membri, ma piuttosto il risultato di una stabilità garantita da attori esterni. La quasi totale sovrapposizione dei membri europei della NATO e dell’Unione Europea non è di certo una clamorosa coincidenza della storia.

Per decenni, dunque, l’ordine transatlantico in Europa si è sostanziato su un duplice fondamento: sicurezza militare e sostegno economico. Aspetti tipici di ogni impero che, nell’offrirsi (o meglio imporsi) come garante della sicurezza altrui, sottrae a suoi clientes il monopolio della forza e quindi la difesa dei confini. Ma che al tempo stesso offre a costoro anche ricchezza e benessere, così che l’inaccettabile consapevolezza della propria sudditanza fattuale sia affogata dai vantaggi materiali e dai piaceri del vivere nell’agio.

Se il primo aspetto, ovvero la tutela militare, si è manifestato nella fondazione della NATO, nella presenza costante delle truppe americane sul suolo europeo e nella protezione offerta dall’ombrello nucleare, il secondo pilastro, inteso come sostegno economico, ha preso forma inizialmente con il celebre Piano Marshall. In seguito, tale dinamica si è ulteriormente consolidata attraverso un legame commerciale sempre più stretto, nel quale Washington si è affermata quale principale importatrice dei prodotti provenienti dal Vecchio Continente. In questo modo, in un sol colpo, gli Stati europei sono stati resi dipendenti da “mamma America”, inducendoli a saggiare costantemente la convenienza di rimanere sotto la sua ala protettiva. L’affinità ideologica tra le due sponde dell’Atlantico, permeata sui valori liberali e democratici, non fu che il riflesso di questi legami ben più sostanziali. Una sovrastruttura culturale che si ergeva su una concretissima struttura fondata su inaggirabili rapporti di forza.

Oggi, però, tale assetto inizia a scricchiolare e l’America sembra voltare pagina. L’accelerazione di questo processo, resa evidente con la nuova amministrazione Trump – sebbene la tendenza fosse già in atto – è la testimonianza di un cambiamento epocale. Senza più il principale antagonista affacciato alle porte di Berlino, e con l’Estremo Oriente che emerge come nuova arena di scontro strategico, Washington si trova costretta a restringere il campo d’azione e a concentrare le proprie energie sulle sfide ritenute primarie. Le recenti dichiarazioni del presidente Donald Trump e dei membri della sua amministrazione si inscrivonoperfettamente in questa nuova traiettoria, segnando la volontà di ridimensionare la presenza americana in Europa e richiamando gli Stati del Vecchio Continente a farsi carico della propria sicurezza, mentre l’introduzione di dazi commerciali lascia intravedere l’intento di riequilibrare una bilancia commerciale cheda troppo tempo pende a favore dell’Unione Europea.

Insomma, i due pilastri su cui si fondava la sfera di influenza americana in Europa iniziano a sgretolarsi. Gli Usa mirano a ridefinire i rapporti con i paesi europei. Tuttavia, il nodo critico risiede nel fatto che Washington persiste nel pretendere dagli europei una conformità incondizionata alle direttive d’Oltreoceano, come se il rapporto di dipendenza si fondasse esclusivamente su un’affinità ideologica tra le due sponde atlantiche, trascurando le garanzie offerte e le velate minacce di ritorsione. Infatti, finora la presenza di truppe, basi e funzionari americani sul suolo europeo aveva la duplice funzione di salvaguardare la sicurezza dei paesi ospitanti contro forze esterne e di fungere da deterrente per eventuali inversioni di tendenza interne.

Ora che tale presenza è messa in discussione – qualora si dia credito alle dichiarazioni della nuova amministrazione – è plausibile che alcuni possano ritenere che, al decadere della promessa di protezione, si verifichi altresì il crollo della minaccia implicita di ritorsione. A meno che non si voglia supporre che gli Stati Uniti abbiano perso il senno, accecati dalle proprie narrazioni che esaltavano un’inestricabile affinità socio-culturale con gli europei, restano due ipotesi: (a) o ritengono che l’Europa non sia più un alleato (cliente) strategicamente valido, (b) oppure credono che sia necessario ridefinire tale rapporto su nuovi pilastri.

Poiché la prima opzione appare ancor più paradossale dell’ideologia quale fondamento sostanziale della relazione, si è indotti a concludere che la seconda rappresenti la prospettiva più plausibile. Nell’attesa di discernere quali possano essere questi nuovi fondamenti, non possiamo esimerci dal porci numerosi interrogativi circa la riuscita del progetto. In linea generale, la tendenza americana sembra orientarsi verso un impegno pratico più contenuto nei confronti dell’Europa, come se si trattasse di un rapporto tra pari e dunque abbandonando la logica tradizionale di Patronus e Clientes. Al contempo, però, intendono mantenere salda la loro posizione di leader, continuando a delineare la linea strategica dell’alleanza.

Tale progetto, tuttavia, poggia su contraddizioni di difficile risoluzione, riguardando tematiche non di mera formalità ma di sostanziale rilievo strategico. Gli europei, dal canto loro, abituati a vivere nell’etere da decenni, digiuni di strategia e perciò abituati a confondere la sovrastruttura con la struttura, faticano ancora a comprendere lo schiaffo inflitto dagli americani. Non si spiegano perché, nonostante un’affinità ideologica che dura da decenni, gli Stati Uniti sembrino riservare loro continui sgarbi. A riprova di questa incomprensione, basti osservare le reazioni scomposte suscitate dalla questione groenlandese o, ancor più, dalle trattative di pace in Ucraina. Episodi che rivelano, con disarmante chiarezza, il disallineamento tra le aspettative europee e le mosse americane.

Le due sponde dell’Atlantico si muovono in una dimensione di illusioni e scommesse. Gli americani, persuasi che il sovvertimento dei pilastri della loro sfera d’influenza non incrinerà la fedeltà degli alleati europei. Quest’ultimi, invece, oscillano tra due stati d’animo contrapposti: da un lato, il timore di dover tornare a pensare in termini strategici, riabbracciando la durezza della storia; dall’altro, l’illusione che questa frattura con Washington rappresenti finalmente l’occasione per realizzare, una volta per tutte, il sogno di un’Europa sovrana. Entrambe le illusioni, intrinsecamente legate, poggiano su contraddizioni costitutive che non possono che farci ritenere impossibile la loro realizzazione. Rispetto all’illusione europea di un’emancipazione senza conseguenze, questa si scontra con un dato di fatto: senza l’ombrello protettivo e il sostegno economico degli USA, le tensioni latenti tra gli Stati membri emergeranno con maggiore intensità. Senza un attore esterno capace di fungere da elemento unificante, gli interessi nazionali – spesso tra loro divergenti – torneranno a imporsi con maggiore forza. Questioni cruciali come la politica di difesa comune, la gestione delle crisi sul confine orientale, il problema migratorio e le strategie economiche diventeranno sempre più terreno di scontro, con alcuni Stati che cercheranno alleanze alternative o adotteranno politiche unilaterali per tutelare i propri interessi.

Roma, Febbraio 2025. XXIV Martedì di Dissipatio

In questo scenario, il progetto europeo, originariamente concepito e sostenuto dagli Stati Uniti come baluardo contro l’espansione sovietica e come mezzo per garantire la stabilità regionale, rivelerà la sua fragilità intrinseca. Il fatto che l’Europa non si sia mai formata autonomamente nella sua storia, ma solo sotto l’egida di un attore esterno, implica che privarla del fattore aggregante che ne ha garantito la coesione equivarrebbe a minare l’intera impalcatura su cui essa si regge. In tal senso, non sorprende che alcuni teorici della costruzione europea abbiano da tempo riconosciuto l’irrinunciabile ruolo dei fattori esogeni nel giustificare e sostenere il progetto di integrazione del continente. Arturo Spinelli, ad esempio, osservava: «Per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione» (Diario europeo (1948-1969), p. 175). Una dichiarazione che, per quanto radicale, mette in luce un nodo cruciale: l’unità europea non può essere il frutto di dinamiche interne, ma il risultato di pressioni e condizionamenti esterni.

Eppure, molti tendono a sottovalutare questa realtà, illusi dall’idea che l’affinità ideologica e culturale tra gli Stati membri – peraltro discutibile – e la complessa architettura burocratica costruita nel tempo siano elementi sufficienti a sostenere un processo di integrazione più profondo. Si crede, erroneamente, che il mancato consolidamento dell’Unione come entità statale sia dovuto esclusivamente a ostacoli congiunturali, superabili con il tempo. Non si è ancora accettata l’idea che questa fosse l’unica configurazione possibile di Europa unita, poiché solo un soggetto fuori dalla storia e con la politica strategica demandata ad un attore esterno, poteva restare in piedi con le moltitudini di contraddizioni che la compongono – in primis il fatto di non avere una nazione alle spalle – e con un apparato burocratico e non politico.

Tolti gli Stati Uniti, dunque, l’Unione Europea faticherà a mantenere l’unità e la direzione, col rischio di a una progressiva disintegrazione del progetto comunitario e al ritorno degli Stati nazionali come principali attori sulla scena geopolitica europea. Ci saranno così Paesi, come la Francia, la Polonia e, auspicabilmente, l’Italia, che potrebbero cogliere questa opportunità per conquistare maggiori margini di manovra, pur rimanendo saldamente ancorati alla sfera d’influenza americana, anche se con modalità differenti. Ovviamente, e questo vale soprattutto per il nostro paese, ciò implicherebbe un’assunzione di responsabilità e il recupero di una visione strategica del contesto globale, elemento che ancora non si scorge all’orizzonte. Il rischio, per l’Italia, è che sia la stessa “mamma America” a recidere bruscamente il cordone ombelicale, proprio come farebbe un genitore con un figlio ormai cresciuto ma ancora troppo esitante.

Dall’altra parte, vi saranno probabilmente anche quei paesi che, per decenni, sono stati costretti a seguire l’agenda americana e che ora vedranno nel parziale disimpegno degli Stati Uniti e nella persistente inconsistenza dell’Unione Europea un’occasione per emanciparsi da un vincolo che li ha obbligati a guardare a ovest, impedendo loro al contempo di volgere lo sguardo a est. Tra questi, il principale indiziato è senza dubbio la Germania, Paese che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, fu occupato militarmente e diviso in due proprio per evitare che tornasse a rappresentare una minaccia, tanto per Mosca quanto per Washington e per le altre cancellerie europee. Una volta riunificata, non senza provocare nuove preoccupazioni tra i leader del continente – tra cui la Thatcher, Mitterrand e Andreotti – Berlino si è imposta come prima potenza economica europea, mantenendo da sempre un naturale orientamento verso est.

Questa inclinazione riprende per certi versi quanto già teorizzato un secolo fa con il termine Lebensraum (“spazio vitale”), il quale oggi, però, non implica necessariamente una configurazione militare, come avvenne con la Germania nazista. Negli ultimi trent’anni, infatti, il concetto si è tradotto in un’espansione dell’influenza economica e politica verso i paesi dell’Europa orientale, in rapporti energetici sempre più stretti con la Russia – risorsa essenziale per il funzionamento dell’industria tedesca – e in una crescente interdipendenza commerciale con la Cina. Un simile Paese, in preda ai tumulti interni, potrebbe quindi percepire le dinamiche in corso comeun “liberi tutti”. D’altronde basta studiare il fenomeno politico Alternative für Deutschland (AfD) per veder concretizzarsi tali rivendicazioni. Un movimento che si è fatto portavoce delle istanze delle popolazioni orientali e del malcontento di una parte del paese che si sente tradita dall’élite occidentale, AfD, oggi, rappresenta una rottura con il paradigma politico tradizionale, proponendo una linea che include il ripristino delle relazioni con Mosca, il mantenimento dei legami con Pechino e una significativa riduzione dell’influenza americana.

La Germania, osservata speciale d’Europa sin dal 1945, potrebbe decidere, in un futuro non troppo lontano, di sottrarsi al vincolo atlantico per perseguire i propri interessi. Scelta che comunque nasconde innumerevoli rischi. L’illusione europea, secondo cui un progressivo disimpegno degli Stati Uniti dal Vecchio Continente potrebbe portare ad acquisire maggiore sovranità e coesione dell’Unione, rischia inesorabilmente di dissolversi. E nel momento in cui tale illusione si sgretolerà, trascinerà probabilmente con sé anche quella americana. Gli Stati Uniti, infatti, nel tentativo di mantenere la coesione interna e, al contempo, preservare il loro primato geopolitico globale, si trovano costretti a riconsiderare l’ampiezza dei propri impegni internazionali. Tuttavia, la loro stessa essenza di potenza egemone è stata forgiata dal controllo, esercitato per decenni, sul continente più strategico del pianeta: l’Europa. L’illusione di Washington risiede nella convinzione che l’architettura da essa edificata nei decenni passati possa sopravvivere autonomamente, anche in assenza dell’attore che l’ha resa possibile.

Ma tale architettura non è da intendersi esclusivamente nella forma dell’Unione Europea come struttura burocratica sovranazionale. Gli Stati Uniti, infatti, hanno sempre concepito l’UE come un meccanismo utile per garantire la coesione del blocco occidentale, ma, nella prassi, hanno privilegiato il dialogo diretto con i singoli Stati, veri protagonisti dello scenario geopolitico. Pertanto, ciò che realmente conta per Washington non è la sopravvivenza dell’UE in quanto istituzione, bensì la continuità dell’allineamento politico e strategico degli Stati europei nei suoi confronti. Eppure, proprio qui si annida la contraddizione di fondo: ritenere che, venuto meno l’elemento aggregante esterno, l’eterogeneità di interessi e prospettive che percorre il continente europeo non riaffiori con forza centrifuga. Se l’Unione Europea dovesse sgretolarsi, gli Stati membri sarebbero inevitabilmente costretti a ridefinire il proprio orizzonte strategico in funzione del proprio interesse nazionale, il quale, contrariamente a quanto si tende a supporre oltreoceano, non è affatto coincidente con quello statunitense.

Di conseguenza, nel medio periodo, il rischio concreto per gli Stati Uniti è quello di vedere progressivamente sfaldarsi la propria influenza su una parte di quell’Europa che per decenni ha seguito, seppur talvolta a malincuore, le sue direttive. Se tale scenario dovesse concretizzarsi, Washington si troverebbe costretta a riscoprire, forse con ritrovata inquietudine, l’importanza cruciale che il Vecchio Continente riveste come moltiplicatore di potenza. Ma a quel punto, la consapevolezza giungerebbe non come un calcolo strategico, bensì come una dolorosa rivelazione. Vi è la sensazione che questo sia solo l’inizio di un processo ancora in gestazione. Il timore, per noi italiani, è che un brusco risveglio generi più disorientamento che lucidità nell’azione. L’amara consolazione, sta nel sapere di non essere tra i più in difficoltà, a differenza della Germania: un gigante vincolato dalle proprie ombre, costretto a danzare sul filo sottile delle proprie contraddizioni.

I più letti

Per approfondire

La società patriarcale in Occidente è solo un mito

L'universale dominazione maschile è un mito che serve a chi teme la realtà.

Stati Disuniti d’America

Il tragico carnevale di Capitol Hill ha ridato vita a “The Donald”, candidato a diventare l’Ayatollah di un nuovo partito politico. Oppure, semplicemente, sparirà, come un meme di cattivo gusto

Red, White and Black

Oltre a nascondere i problemi strutturali ed economici degli Stati Uniti, l’eccesso di antirazzismo è diventato una fonte di esaltazione razziale

Il ruggito della pecora

L’ultima terra colonizzata dall’essere umano: Aotearoa Nuova Zelanda.

Il nodo fra Oriente e Occidente

Una nuova edizione Adelphi de "Il Nodo di Gordio" - dialogo a distanza fra Ernst Jünger e Carl Schmitt - impone un ripensamento degli equilibri fra Terra e Mare, fra dispotismo e libertà, fra violenza e tecnica.

Gruppo MAGOG