L’interesse degli Stati Uniti per la Groenlandia è riemerso con forza nell’ultimo mese, quando Donald Trump ha dichiarato apertamente l’intenzione di acquisire l’Isola dalla Danimarca. La proposta, accolta inizialmente con scetticismo e sarcasmo da molteplici osservatori internazionali, ha in realtà rivelato un calcolo geopolitico estremamente serio. Trump ha presentato l’isola come un asset cruciale per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e una risorsa strategica in un contesto di crescenti rivalità internazionali.
Le sue dichiarazioni, benché respinte con fermezza dal governo danese, hanno avuto un impatto notevole, riaccendendo il dibattito internazionale sulla Groenlandia e portando alla luce la sua rilevanza strategica.
Molti hanno inizialmente liquidato la dichiarazione come l’ennesima provocazione di Trump, ma questa interpretazione risulta decisamente fuorviante. Sebbene l’ex presidente americano ci abbia abituati negli anni a dichiarazioni ad effetto, in questo caso la questione è di ben altra rilevanza. Si inserisce infatti in una strategia più ampia che evidenzia come gli Stati Uniti considerino l’Artico un’area di crescente competizione globale.
Le sue dichiarazioni hanno sottolineato l’urgenza di proteggere un territorio che, con il disgelo, è destinato a diventare sempre più accessibile e quindi ambìto. Trump ha inoltre utilizzato l’argomento per lanciare un messaggio ai propri alleati, dimostrando che gli Stati Uniti erano pronti a intraprendere azioni decise per mantenere il controllo su regioni strategiche, anche a costo di mettere in discussione accordi storici e sensibilità internazionali.
La Groenlandia, l’isola più grande del mondo, è formalmente parte del Regno di Danimarca, ma gode di un’autonomia crescente dal 1979, con ulteriori poteri conferiti nel 2009.
Sin dal XVIII secolo, l’isola è stata trattata come una colonia danese, con il dominio europeo riaffermato nel 1721 grazie alla missione di Hans Egede, che riportò la Groenlandia sotto il controllo della Danimarca dopo l’estinzione degli insediamenti vichinghi. Il Trattato di Kiel del 1814 confermò l’appartenenza esclusiva dell’isola alla Danimarca dopo la separazione dal Regno di Norvegia.
Fu la Seconda Guerra Mondiale a segnare un punto di svolta per l’Isola. Quando la Danimarca cadde sotto il controllo nazista nell’aprile del 1940, gli Stati Uniti si mossero rapidamente per impedire che la Groenlandia diventasse una base strategica per le forze tedesche. Washington intervenne, estendendo così la Dottrina Monroe per includere l’Isola e occupandola militarmente per prevenire un’eventuale invasione. Questa occupazione, inizialmente una misura difensiva, trasformò la Groenlandia in un elemento centrale delle operazioni artiche statunitensi, con l’installazione di infrastrutture strategiche come basi aeree e stazioni radar.
Alla fine del conflitto, l’amministrazione Truman riconobbe pienamente l’importanza dell’Isola e tentò di acquistarla dalla Danimarca, offrendo circa 100 milioni di dollari, una somma considerevole per l’epoca. Tuttavia, il governo danese rifiutò l’offerta.
Questo però non impedì agli Stati Uniti di negoziare un accordo con Copenaghen: nel 1951, con l’accordo denominato Defense of Greenland: Agreement Between the United States and the Kingdom of Denmark, venne sancito il diritto degli americani di costruire, utilizzare e mantenere basi militari sull’Isola nel quadro della cooperazione difensiva tra Stati Uniti e Danimarca all’interno della NATO e con il riconoscimento della sovranità danese sulla Groenlandia.
Durante la Guerra Fredda, l’Isola si affermò come un pilastro del sistema di difesa americano. La sua posizione geografica la rendeva ideale per il dispiegamento di radar e infrastrutture destinate al monitoraggio di eventuali attacchi aerei e missilistici sovietici. Installazioni come la base di Thule e altre stazioni di rilevamento divennero parte integrante del sistema di preallarme NORAD, rendendo l’Isola un elemento chiave nella strategia di contenimento americana. Ospitava anche alcune delle più avanzate infrastrutture militari dell’epoca, tra cui Camp Century, un ambizioso progetto americano che includeva la costruzione di tunnel sotto il ghiaccio per ospitare missili nucleari, anche se il progetto venne successivamente abbandonato.
Con il crollo dell’Unione Sovietica, l’importanza strategica della Groenlandia sembrava essere diminuita, passando in secondo piano nel contesto geopolitico globale. Tuttavia, nel 2019, l’Isola è tornata sotto i riflettori internazionali quando Trump ha espresso l’intenzione di acquistarla, evidenziando come la rinnovata competizione tra grandi potenze, in particolare con Russia e Cina, abbia riportato al centro delle priorità strategiche la necessità di consolidare il controllo su aree chiave del continente nordamericano, inclusi Canada e Groenlandia, appunto.
Oggi, la Groenlandia rappresenta un asset strategico irrinunciabile sia per motivi militari che economici. La crescente accessibilità della regione artica, favorita dal cambiamento climatico, ha trasformato l’Isola in un nodo cruciale per la competizione globale. Il disgelo ha incentivato la Russia e la Cina a investire massicciamente nell’Artico, costringendo gli Stati Uniti a rafforzare la propria presenza per preservare il predominio militare e commerciale nella regione.
La collocazione geografica della Groenlandia rappresenta quindi un punto di controllo privilegiato per monitorare le attività delle potenze rivali nell’Atlantico settentrionale e nel cosiddetto GIUK Gap, il passaggio tra Groenlandia, Islanda e Regno Unito, cruciale per prevenire incursioni navali e sottomarine, specialmente da parte della Flotta del Nord russa.
La Groenlandia offre anche un vantaggio unico per il monitoraggio dei lanci di missili balistici intercontinentali provenienti dall’Artico, un aspetto vitale per la sicurezza nazionale americana. Le infrastrutture esistenti, come i sistemi radar della base di Thule, giocano un ruolo chiave nel sistema di preallarme del NORAD, fornendo agli Stati Uniti una capacità di rilevamento precoce essenziale in caso di attacchi nucleari o convenzionali. Inoltre, la posizione dell’isola la rende ideale per lo sviluppo di nuove tecnologie di difesa, come i sistemi di tracciamento ipersonico e le piattaforme di sorveglianza satellitare, che stanno diventando centrali nella competizione tra le grandi potenze.
Parallelamente, la Groenlandia custodisce risorse naturali di immenso valore, tra cui terre rare, ferro, oro, petrolio e gas. Queste risorse sono diventate un elemento centrale nella strategia americana per ridurre la dipendenza dalla Cina nell’approvvigionamento di materiali essenziali per le industrie tecnologiche. Anche le riserve di acqua di disgelo, considerate tra le più pure al mondo, stanno attirando l’interesse di multinazionali e governi, rendendo l’isola un asset economico di crescente importanza.
Per gli Stati Uniti, rafforzare la propria presenza in Groenlandia equivale a proteggere la sicurezza del continente nordamericano e delle rotte transatlantiche, salvaguardare le infrastrutture strategiche per la difesa e capitalizzare sulle opportunità economiche offerte dalle risorse naturali dell’Isola.
Negli ultimi anni, Washington ha valutato l’ampliamento della propria presenza attraverso l’installazione di nuovi sistemi radar avanzati, basi per droni ad alta capacità e, potenzialmente, il dispiegamento di missili a medio raggio, volti a contrastare la crescente assertività della Russia nella regione.
Nel frattempo, la Cina ha cercato di guadagnare influenza nell’Artico, puntando soprattutto su investimenti infrastrutturali e minerari. Proposte per la costruzione di aeroporti, porti e altre opere strategiche avrebbero potuto garantirle un punto d’appoggio nella regione. Tuttavia, questi tentativi sono stati sistematicamente bloccati dalla Danimarca, spesso in seguito a pressioni dirette da parte degli Stati Uniti, che vedono nella presenza cinese una minaccia diretta alla loro sfera d’influenza.
Impedire l’ingresso di Pechino nell’Artico è diventata quindi una priorità strategica per Washington, non solo per preservare il predominio militare, ma anche per evitare che la Cina utilizzi la regione come leva economica e geopolitica nei confronti dell’Occidente.
Una delle principali priorità strategiche della Cina è garantire collegamenti stabili tra l’Estremo Oriente e l’Europa. La Via della Seta terrestre e quella marittima – la prima attraversando l’Asia centrale, la seconda passando per lo Stretto di Malacca, l’Oceano Indiano e il Mar Rosso prima di accedere al Mediterraneo – incarnano chiaramente queste ambizioni. Tuttavia, entrambe le rotte, a causa delle numerose crisi e conflitti degli ultimi anni, hanno evidenziato limiti significativi.
Di fronte a queste criticità, la Cina considera la Northern Sea Route una valida alternativa per raggiungere i porti del Nord Europa nei prossimi anni. Questa, infatti, presenta diversi vantaggi, tra cui la maggiore brevità del percorso e la necessità di costeggiare un unico Paese, la Russia, che è al contempo un partner e un rivale dell’Occidente. Inoltre, consente di evitare i pericolosi colli di bottiglia, spesso sotto il controllo diretto o indiretto degli Stati Uniti.
Alla luce di ciò, l’intenzione degli Stati Uniti di rafforzare la propria presenza nell’Artico, e in particolare nel GIUK Gap, può essere interpretata come una nuova mossa volta a contrastare quella che è stata definita la Via della Seta Polare.
Ma la rinnovata attenzione americana alla Groenlandia non è priva di implicazioni per gli alleati europei. Da tempo, gli Stati Uniti, in particolare sotto la presidenza di Trump, hanno sollecitato gli alleati europei a incrementare il loro impegno nella tutela della propria sicurezza e degli interessi strategici della NATO. Non tutti i teatri di crisi sono però uguali. Se in Ucraina Washington può minacciare di ridurre il proprio sostegno per spingere i Paesi europei ad assumersi maggiori responsabilità nel proprio estero vicino, nel caso della Groenlandia una simile delega è impraticabile. La sua posizione strategica rende essenziale una difesa efficace e non può essere lasciata in mani incerte. Non sorprende, dunque, che Copenaghen, in risposta alle dichiarazioni di Trump, abbia annunciato un aumento degli investimenti nella difesa e nello sviluppo infrastrutturale della Groenlandia, nel tentativo di rassicurare Washington dimostrando un maggiore impegno nella regione. Tuttavia, l’Artico è ormai troppo cruciale per gli interessi strategici statunitensi, troppo vicino al continente nordamericano, rendendo improbabile che gli USA deleghino ad altri la responsabilità della sua protezione.
Ma più che la Danimarca, a risultare pesantemente colpito dalla mossa americana è soprattutto il Regno Unito. Tradizionalmente, Londra aveva assunto il ruolo di garante della sicurezza del GIUK Gap. Durante la Guerra Fredda, la Royal Navy disponeva delle risorse necessarie per monitorare questa regione e per garantire la difesa delle comunicazioni transatlantiche. Tuttavia, a partire dagli anni Novanta, i tagli alla spesa per la difesa e il progressivo ridimensionamento delle forze navali britanniche hanno ridotto significativamente la capacità del Regno Unito di mantenere un controllo efficace sull’area. Tutto ciò ha creato un vuoto che gli Stati Uniti hanno dovuto colmare, assumendo un ruolo sempre più diretto nella gestione della sicurezza artica. Questo passaggio, quindi, sottolinea non solo la progressiva perdita di centralità del Regno Unito nelle questioni artiche, ma anche il crescente interventismo americano in settori tradizionalmente delegati agli alleati europei.
In questo contesto, la strategia americana di rafforzare la propria presenza in Groenlandia non è rivolta esclusivamente contro i rivali globali come Russia e Cina, ma ha anche ripercussioni significative sugli alleati. Washington riafferma la propria supremazia nella regione, lanciando un messaggio chiaro ai partner transatlantici: gli Stati Uniti sono pronti a intervenire direttamente ogni volta che percepiscono un vuoto strategico o una minaccia in quel che considerano il proprio cortile di casa, anche a costo di ridimensionare il ruolo degli alleati tradizionali. La Dottrina Monroe non è morta, ma si estende anche all’Artico.
Ma come potrebbero gli Stati Uniti realmente consolidare la loro posizione in Groenlandia?
L’acquisto diretto dell’isola, pur essendo stato apertamente proposto da Trump, appare improbabile. La ferma opposizione della Danimarca, che considera la Groenlandia una parte essenziale del proprio regno, e le crescenti aspirazioni indipendentiste di Nuuk rendono questa opzione politicamente e diplomaticamente difficile da realizzarsi. Inoltre, la proposta di acquisto potrebbe non solo scontrarsi con l’opposizione di Copenaghen, ma anche danneggiare la relazione con la popolazione locale. Infatti, molti groenlandesi sono favorevoli a ottenere l’indipendenza dalla Danimarca, ma ciò non significa che vogliano vedere la loro terra “venduta” a Washington.
Un’iniziativa di acquisto rischierebbe quindi di alienare il consenso della popolazione groenlandese, che potrebbe preferire un accordo di cooperazione con gli Stati Uniti senza passare attraverso una cessione di sovranità. A conferma di ciò, il primo ministro della Groenlandia ha recentemente dichiarato che il territorio autonomo danese è aperto a legami più stretti con gli Stati Uniti, in particolare nei settori strategici come l’estrazione mineraria. Tale dichiarazione evidenzia la possibilità di sviluppare un partenariato bilaterale che rispetti l’autonomia dell’isola, offrendo al contempo nuove opportunità economiche e infrastrutturali.
Pertanto, perseguire la strada dell’acquisto potrebbe rivelarsi una mossa controproducente per gli Stati Uniti, poiché rischierebbe di compromettere la possibilità di stabilire una relazione più pragmatica e vantaggiosa con la Groenlandia, basata su autonomia e alleanza strategica piuttosto che su un’imposizione.
È probabile, invece, che la strada che si percorrerà sarà quella di instaurare una sorta di protettorato, o sul modello delle Isole Marshall – formalmente Stato indipendente, la cui difesa però è totalmente delegata agli Usa tramite accordi speciali (COFA) – oppure su quello dei Territori organizzati ma non incorporati degli Stati Uniti, come Porto Rico.
Entrambe le ipotesi permetterebbero agli Stati Uniti di esercitare un controllo militare e strategico, garantendo al contempo una certa autonomia politica e amministrativa alla Groenlandia. In cambio, Washington potrebbe fornire ingenti aiuti economici, assistenza nello sviluppo delle infrastrutture e accesso privilegiato ai mercati americani, offrendo un incentivo significativo alla popolazione groenlandese e alle sue istituzioni politiche.
Questa strategia risulterebbe particolarmente efficace nel contrastare i tentativi di penetrazione economica cinese, già bloccati in passato grazie alla pressione diplomatica americana su Copenaghen.
In ogni caso, un passaggio cruciale sarà l’indipendenza della Groenlandia dalla corona danese. Il primo ministro Múte Egede da tempo sta spingendo per l’indipendenza, e un possibile referendum potrebbe essere indetto entro la fine dell’anno, forse in coincidenza con le elezioni parlamentari fissate per il 6 aprile 2025.
È evidente, quindi, che la Groenlandia rappresenta oggi molto più di un semplice territorio artico: è il fulcro di una competizione geopolitica sempre più intensa, che coinvolge Stati Uniti, Russia e Cina, ma che ha ricadute significative anche per gli alleati europei e per la stessa popolazione groenlandese. La sua importanza non si limita alla sua posizione strategica nell’Artico o alle immense risorse naturali che custodisce, ma risiede anche nella sua capacità di influenzare i delicati equilibri geopolitici globali. La crescente accessibilità della regione artica, ha trasformato la Groenlandia in un nodo cruciale per la sicurezza internazionale, l’economia globale e le ambizioni strategiche delle grandi potenze. Ad aumentare ulteriormente il peso di tale regione vi è senza dubbio la crisi del Mar Rosso che ha costretto a valutare nuove vie marittime di collegamento nel globo.
Qualsiasi mossa americana nell’Artico non potrà prescindere da un’attenta gestione degli interessi locali e delle relazioni internazionali.
La Groenlandia, pur essendo parte del Regno di Danimarca, sta vivendo un processo di progressiva emancipazione che alimenta le aspirazioni indipendentiste di Nuuk. Ignorare questi desideri rischierebbe di compromettere la stabilità dell’Isola e alienare il sostegno della popolazione locale, un elemento imprescindibile per qualsiasi progetto americano nella regione.
Allo stesso tempo, Washington dovrà bilanciare le proprie ambizioni strategiche con la necessità di mantenere saldi i rapporti con gli alleati europei.
Sebbene sia indubbio che il diritto internazionale e i suoi princìpi fondamentali siano stati messi a dura prova dalle crisi internazionali degli ultimi anni, è altrettanto vero che noi europei fatichiamo a distaccarci da questa visione ideale. Questa riluttanza è in parte dovuta al ruolo degli Stati Uniti, che per decenni ci hanno incoraggiati a credere nella centralità di tali valori. Così è avvenuto anche con la Guerra in Ucraina, dove l’accusa verso la Russia è stata mossa da Usa e UE proprio in virtù della violazione del principio di sovranità territoriale di Kiev.
Per tale motivo, le dichiarazioni di Donald Trump, in cui ha affermato di non escludere l’uso della forza militare per prendere la Groenlandia, hanno generato un vero e proprio cortocircuito nelle cancellerie europee. Seguendo la stessa logica usata contro Putin, le parole di Trump sono state inevitabilmente equiparate alle azioni della Russia, sottolineando una contraddizione difficilmente ignorabile.
Gli Stati Uniti, da un lato, cercano di mantenere gli europei ancorati a queste illusioni, consapevoli che solo credendo nei principi da loro promossi gli alleati europei potranno continuare a seguire le direttrici tracciate da Washington. Dall’altro lato, però, non esitano a mettere al primo posto i propri interessi nazionali, spesso violando essi stessi quelle regole del diritto internazionale che, in realtà, vengono calpestate da molti attori globali.
Questa ambiguità rischia di avere conseguenze rilevanti. Rendendo evidenti tali contraddizioni, si potrebbe erodere ulteriormente la coesione ideologica tra Europa e Stati Uniti. Inoltre, tali azioni potrebbero creare precedenti pericolosi, che avversari degli USA – come la Cina nel caso di Taiwan – potrebbero sfruttare per giustificare comportamenti analoghi.
Con l’intensificarsi delle crisi internazionali, diventerà sempre più arduo sostenere una narrazione manichea di contrapposizione tra “buoni” e “cattivi” in ambito di politica estera.
L’illusione di un ordine internazionale fondato su valori universali si sgretolerà sotto il peso degli interessi nazionali.
Ogni Stato, spinto dalle proprie necessità strategiche, sarà inevitabilmente costretto a piegare le regole del gioco globale per adattarle ai propri interessi.
In questo scenario, l’Artico, e in particolare la Groenlandia, rappresenta non solo una cartina di tornasole delle tensioni geopolitiche, ma anche il simbolo di una nuova era di rivalità in cui la forza delle strategie nazionali prevarrà sulle vecchie narrative ideologiche.