Il 3 novembre è sempre più vicino e l’unica certezza è che nulla è certo. Quel giorno gli elettori americani saranno chiamati alle urne per stabilire chi sarà il prossimo presidente, se rinnovare la fiducia a Donald Trump o se eleggere Joe Biden; in sostanza, quel giorno si deciderà il futuro degli Stati Uniti – che non è mai stato così in bilico, a rischio e imprevedibile come oggi. Da fine maggio il paese è avvolto da una tormenta di scontri interrazziali e di violenze politiche fra gli opposti estremismi che non mostrano segni di cedimento. In alcune città, come Portland, Minneapolis e Seattle, la rivolta si è cristallizzata e le amministrazioni a guida democratica stanno tentando di cavalcare in chiave anti-Trump l’ondata di indignazione e di rabbia che ha risvegliato la Black America dal sonno profondo.
Come in un film distopico ambientato in uno scenario post-apocalittico dove gli uomini hanno dimenticato di essere umani e sono regrediti ad una dimensione primordiale e bestiale, la bontà, la comprensione, la propensione al dialogo, la tolleranza e il rispetto sono stati sostituiti dal male, dall’egoismo e dall’odio. Nell’America del 2020 si può morire, e si muore, perché colpevoli di essere andati contro la dittatura del pensiero unico imposta da una minoranza agguerrita che vuole cancellare il passato e tutto ciò che lo rappresenta: statue, monumenti, strade, libri, persone. È per questo che nella contea di Milwaukee è stato ucciso in un agguato Bernell Trammell, un attivista afroamericano repubblicano e protestante, che nell’Indiana è stata uccisa una giovane madre perché durante un diverbio con degli attivisti di Black Lives Matter (BLM) ha esclamato “All Lives Matter“, e che in tutto il paese stanno venendo assaltate chiese e decapitate statue all’indomani di un appello lanciato da Shaun King, uno dei capi di BLM, contro il cristianesimo e ciò che esso rappresenterebbe in realtà: suprematismo bianco.
In un mondo in cui i democratici non credono più nella democrazia perché si sono accorti che conferisce diritti e doveri eguali a chiunque, anche a chi non la pensa come loro, non può esserci spazio per lo scambio delle idee, per i dibattiti genuini, per la libertà e per il pluralismo del pensiero. In questo mondo, un’opinione può costare la vita così facilmente che la maggioranza silenziosa non è mai stata così assente, messa a tacere dai tremendi atti di violenza consumati dalla minoranza urlante ed armata che ha colonizzato i salotti televisivi e le aule di scuole superiori ed università, persuadendo il pubblico della bontà delle sue intenzioni, dell’universalità legittima del suo pensiero e plagiando la mente di intere generazioni. Quello che sta accadendo oggi, nel 2020, è l’inevitabile punto di arrivo di un lungo percorso le cui origini risalgono agli anni ’60, l’epoca dell’inizio della rivoluzione controculturale che ha rapidamente abbattuto vecchi e consolidati equilibri, sostituendo costumi e tradizioni e costruendo nuovi sistemi di valori.
I pacifisti anti-establishment di ieri sono gli Antifa addestrati alla guerra urbana di oggi, le femministe e gli omosessuali di ieri sono gli ultrà dell’ideologia di genere di oggi, mentre chi ieri adulava Martin Luther King, pastore protestante e fautore della nonviolenza, oggi pende dalle labbra di un altro King, Shaun, che predica la distruzione del cristianesimo ed è parte di un collettivo che sta esacerbando le già tese relazioni fra bianchi e neri e dal cui ventre stanno nascendo fenomeni come la Not Fucking Around Coalition, un’organizzazione paramilitare di suprematisti neri i cui membri attraversano le strade dell’America alla ricerca dello scontro con i nazionalisti bianchi.
Ma non è soltanto la situazione domestica ad essere fonte di preoccupazione, perché chiunque sarà il nuovo inquilino della Casa Bianca dovrà prendere atto che la transizione multipolare sta lentamente avvenendo, per quanto gli Stati Uniti siano ancora l’unica superpotenza del pianeta, la sola capace di pilotare cambi di regime in ogni continente e di destabilizzare intere economie per mezzo del dollaro e della speculazione finanziaria. Infatti, l’assassinio di Qasem Soleimani non ha convinto l’Iran a ritirarsi dal Medio Oriente, il braccio di ferro con la Cina non è servito a frenarne la corsa egemonica, il rinnovato assalto all’America Latina non ha portato alla caduta del triangolo Cuba-Nicaragua-Venezuela ma soltanto ad un cambio di regime in Bolivia, e la prosecuzione del contenimento contro la Russia si è rivelato controproducente in quanto ha spinto Vladimir Putin a rafforzare il controllo sul paese, ad accelerare la corsa agli armamenti e a consolidare il partenariato con la Cina, sullo sfondo dell‘ascesa di forze politiche sempre più estremiste e propense all’abbandono della linea dell’accomodamento in favore di uno scontro con l’Occidente.
Trump avrebbe voluto rendere l’America di nuovo grande, e mantenerla tale, ma si è ritrovato accerchiato all’interno, da delle vere e proprie quinte colonne appoggiate da una parte del complesso militare-industriale, dalla grande finanza e dal mondo dello spettacolo, e in difficoltà all’esterno, riuscendo a mantenere il controllo della situazione soltanto sulla debole e decadente Unione Europea a guida francotedesca. È in questo contesto di quasi-guerra civile e di grande incertezza nel panorama internazionale che si stanno combattendo le elezioni più infuocate della storia recente degli Stati Uniti, sicuramente le più importanti. Perché se è vero che i programmi per la politica estera di Trump e Biden non sono troppo dissimili, sarebbe erroneo trascurare il peso esercitato della forte divergenza di visioni per lo stato-civiltà Stati Uniti che guidano i due candidati.
La vittoria di Biden, che è espressione di un Partito Democratico sempre più estremista, non potrebbe che spianare la strada ad una nuova epoca di interventismo militare in salsa neo-wilsoniana, destinato ad autoalimentarsi per via del radicamento degli ideali radicali su settori sempre più ampi della popolazione. La vittoria di Trump non sarebbe l’equivalente di pace, perché la pace non c’è stata in questi quattro anni di guerre combattute a colpi di embarghi, sabotaggi e operazioni chirurgiche, ma potrebbe essere funzionale al rallentamento della radicalizzazione della società e della politica di una terra pensata per essere la Nuova Gerusalemme e che invece assomiglia sempre di più a Babilonia La Grande.
È per tutte queste ragioni che il 3 giugno sarà il giorno più lungo per l’America e per il resto del mondo, perciò abbiamo deciso di invitare il politologo Tiberio Graziani alla nuova puntata di Confini.