Risale a venerdì 3 gennaio la decisione di Joe Biden di impedire l’acquisizione della storica azienda metallurgica americana da parte del gigante dell’acciaio di Tokyo, accendendo così una polveriera, fra polemiche e accuse di sovranismo. Come riferisce il giornalista Todd. N. Tucker su The Nation, la scelta dell’ex Presidente USA è stata interpretata come mossa azzardata per i commentatori di think tank libertari, quali il Cato Institute, e analisti economici dell’establishment obamiano come Jason Furman, che ne lamentano l’impatto negativo sull’economia e il protezionismo nazionalista.
A Biden (che aveva già promesso mesi prima durante un incontro con i sindacati di difendere quei posti di lavoro) si imputa, in breve, il ritorno a politiche industriali ammuffite che stridono con il ridimensionamento dello Stato in tempi di egemonia neoliberale. In America, infatti, da Nixon in poi con Carter e Reagan si sono deregolamentati e privatizzati settori come i trasporti, l’agricoltura, l’energia e la finanza, per arrivare alla Clintonomics che ha incrementato le bolle e il debito privato, smantellato quel che rimaneva delle regolamentazioni introdotte ai tempi del New Deal e inaugurato il NAFTA con il conseguente impoverimento dei lavoratori. Se Obama negli anni della sua presidenza aveva timidamente provato a muoversi in direzione contraria per riparare ai danni della crisi dei mutui subprime, la sua breve stagione di riforme lasciò il passo ad un drastico ritorno all’era della dismissione dello Stato a vantaggio del privato con la presidenza Trump e la demolizione delle miti regolamentazioni in materia di ambiente e finanza.
Per quanto nel partito repubblicano trovi espressione una nostalgia per un ritorno alla politica espansiva dello Stato (si pensi alle provocazioni trumpiane rivolte all’industria tech per farle tornare ad investire in patria) il suo orizzonte di pensiero, analogamente ai dem, rimane la Reaganomics e la sua equazione in accordo con i Chicago boys che vuole più mercato e meno Stato. Malgrado il filone di pensiero repubblicano paleoconservatore che vede in positivo l’autarchia economica e l’isolazionismo sul piano internazionale che trova una felice incarnazione nella figura di J. D. Vance e nella sua elegia americana impregnata di nostalgia, a conti fatti a meno di scossoni repentini l’impianto politico statunitense rimane immobile sui binari del liberismo spinto. Solo il tempo ci potrà dire se la speranza dell’elettorato repubblicano per politiche maggiormente protezionistiche sarà destinata ad essere tradita con provvedimenti meramente simbolici come nel primo mandato Trump del 2016.
Spostando l’asse del discorso dalla politica economica americana al nostro paese, risulta chiaro come l’azione in extremis di Biden rappresenti il sintomo più lampante di un necessario ripensamento del rapporto tra economia reale e finanza. In discontinuità con gli umori dell’élite e del gotha economico che premeva per l’ennesima privatizzazione, l’ex presidente si proponeva di difendere un settore che definiva “la spina dorsale” del sistema paese, mettendolo al riparo dal rischio di un taglio di posti di lavoro qualora convenisse in un prossimo futuro al colosso nipponico che già aveva fatto dumping ai prodotti americani in passato. La ventata neoliberal difatti ha investito tutte le economie avanzate occidentali proponendo ricette socialmente insostenibili a base di detassazione radicale, decurtamento massiccio del welfare e degli enti statali, liberalizzazione di settori di assoluta importanza geopolitica a detrimento degli stati-nazione. Anche l’Italia, su questa scia, inseguendo la meta folle di una maggiore efficienza amministrativa e di una crescita più sostenuta grazie alla riduzione della forza inflattiva dello Stato sull’economia, ha attinto dal modello economico della Thatcher e di Reagan inaugurando un processo di demansionamento degli istituti pubblici che ha portato secondo la Corte dei conti a una privatizzazione per 156 miliardi da metà anni Ottanta fino al 2007 e continuando con i governi Renzi fino a Meloni. Se inizialmente vendemmo alla Fiat l’Alfa Romeo e Lanerossi a Marzotto negli anni Novanta procedemmo a tutto vapore svendendo Nuovo Pignone, lo Sme e poi l’Imi, l’Ina, Telecom, Autostrade, l’Enel, Mediocredito Centrale, San Paolo, Banco di Napoli ecc. Dimenticando che la sovranità di un paese è il cuore di qualsiasi sistema politico e si gioca sul terreno minato del controllo dei suoi beni che una classe politica miope ha finito per cedere progressivamente a forze terze diminuendo la propria credibilità, indebolendo l’autonomia e la forza statale.
Come sottolineato dal politologo Carlo Galli nel 2019, la sovranità oggi è sotto il duplice attacco tanto dalla visione della politica internazionale ispirata dai diritti umani quanto dal neoliberismo che intende rimpiazzare il pubblico con il privato e che rappresenterebbe la quarta rivoluzione dopo il comunismo, il fascismo e la socialdemocrazia. E la sovranità, ci ricorda sempre Galli, è inscindibile dall’idea che il criterio della politica efficace non si decida idealisticamente fuori da essa, e coincide con un ordine sociopolitico che si impone a partire da una forza sociale egemone (che varia per effetto di una dialettica storica che vede al potere prima un sovrano e poi dei rappresentanti della volontà generale) sempre esposto al rischio di rompersi, passando dal nomos al caos, al conflitto. La richiesta di sovranità intesa come bisogno popolare di maggiore autodeterminazione non implica affatto un rigurgito tribale e campanilista quanto la necessità di contrastare la spoliticizzazione neoliberista, seppur possa essere piegata a logiche autoritarie. Galli, in altri termini, evidenzia come la sovranità rappresenti un tema ineludibile per l’epoca post-politica che stiamo attraversando, in cui fondi speculativi come BlackRock, State Street e Vanguard arrivano a fare pressione sugli stessi stati debilitando fatalmente le democrazie. Vengono in mente le lucide analisi dedicate alla “postdemocrazia” del politologo C. Crouch, che mettevano in evidenza la crisi politica dovuta allo svuotamento delle istituzioni democratiche a causa della crescita inarrestabile di influenza dei consulenti, dei lobbysti che aziendalizzano la cosa pubblica mentre in parallelo le classi sociali si sfaldano e monta la disaffezione per i partiti col trionfo del populismo.
Sulla stessa scia, il filologo e storico Luciano Canfora va da tempo denunciando l’eclissi della sovranità degli stati e l’apparire sul palcoscenico della storia di una democrazia signorile, che vede le cordate politiche arroccate nel palazzo, scollate dai propri elettori e prone rispetto al grande Capitale, cioè “a sovranità limitata”. Secondo la lente di Canfora la crisi attuale sarebbe il risultato del tradimento della sinistra dovuto al suo avvilupparsi negli ingranaggi di potere capitalistico che avrebbe dovuto combattere, un’idea già sostenuta dal filosofo francese J.C. Michéa per cui la sinistra avrebbe rinnegato i suoi ideali piegandosi al “vicolo cieco dell’economia”. Per entrambi gli studiosi accettando il modello capitalistico, la religione del progresso, l’antropologia monadica e individualistica liberal, rinnegando l’utopismo rivoluzionario per la rivolta fine a se stessa la sinistra avrebbe fatto autodafé diventando poi corresponsabile nella svendita di sovranità impostasi col neoliberalismo. Una trasformazione dello spirito del comunismo originario in un radicalismo di massa anarcoide volto alla mera affermazione dell’individuo, avrebbe commentato da destra Del Noce ritenendola una parabola iscritta nella sua stessa storia.
Per ripristinare autodeterminazione e sovranità, forse si tratta proprio di prendere di petto il tema del rapporto tra economia e potere partendo dall’esempio tardivo offertoci dalla brusca frenata della svendita di un settore importante dell’industria statunitense. Forse l’alternativa allo sfacelo delle istituzioni democratiche e al trionfo di tycoon affamati di profitto e fondi speculativi che erodono gli stati-nazione richiede di puntare su uno “stato innovatore” sul modello di Mariana Mazzucato, cioè un potere statale che sappia farsi imprenditore canalizzando il capitale privato verso progetti volti al benessere di tutti (si pensi ai prestiti di stato concessi alla Silicon Valley). Mirando così, come suggeriva Karl Polanyi in un saggio celebre comparso a cavallo degli anni Quaranta, ad una incastonatura dell’economico nella comunità per scongiurarne il suo sganciarsi dal tessuto sociale nel mercato autoregolato, facendo divorziare l’economia reale volta alla soddisfazione di bisogni non illimitati dall’accumulazione di profitti sempre maggiori che ha condotto al disastro in cui siamo finiti. Già Keynes nel 1933 notava che l’autarchia potesse valere come una precondizione per la pace e assicurare un pacifico sviluppo di tutti, su questa linea e seguendo il ragionamento di Polanyi sarebbe possibile reinnestare il modello economico su una solida base comunitaria, regolamentandolo strettamente allo scopo di impedire accumulazioni di capitale potenzialmente distruttive.