In maniera schizofrenica e compulsiva le epoche si avvicendano passando da un estremo all’altro, reimmaginando presupposti e mutando le conclusioni. Oggi tutto è politica. L’intrattenimento con cui passiamo le serate può ad esempio rientrare in quel politicamente scorretto molto di moda – ricordando che “tanto non si può più dir niente” ma noi ce ne freghiamo e lo diciamo comunque – oppure nella costruzione di un nuovo mondo che si scordi, anche solo per un’ora, dei vetusti stilemi di quello vecchio. Tutto è politica perché è facile boicottare, è facile scegliere con cognizione di causa, e soprattutto non c’è più modo d’illudersi che la realtà non sia a nostra immagine e somiglianza. Ma questa frenetica attività non si traduce in nessun cambiamento tangibile, solo in una interminabile sequenza di coiti interrotti. Tanta fatica per nulla.
Non è sempre stato così. Anton Jäger – enfant prodige (classe 1994) belga delle scienze sociali – ha definito questo fenomeno Iperpolitica. Lo stesso nome del suo ultimo saggio uscito nel 2023 e tradotto nel 2024 da Mattia Salvia per Nero Edizioni. Jäger ricorda di un tempo in cui fare politica era in controtendenza rispetto al naturale fluire della storia, ormai prossima alla sua fine. Dagli anni Ottanta in poi le complessità erano state affrontate attraverso la logica senza volto del capitale e della sua accumulazione. I politici erano zavorre la cui presenza doveva sempre più essere giustificata agli occhi di un mondo che si avviava verso una pace perpetua sotto il segno della democrazia come sistema politico e del neoliberismo nella sfera economica. Con l’implosione dell’Unione Sovietica nel 1991 il Washington consensus era diventato l’unica ricetta per i politici che si sarebbero, da quel momento in poi, apprestati ad amministrare i loro Paesi, non a governarli. Sono questi gli anni della post-politica. Una grande festa orgiastica durata per tutti gli anni Novanta.
Al solito, sono necessari alcuni episodi per risvegliare la coscienza globale. L’Occidente solitario sulla collina vive così, in rapida sequenza, un attentato spettacolare a New York, lo scoppio di una guerra dagli esiti devastanti a Baghdad, e l’inizio della crisi del credito. Sciagure per le quali nessuno ha mai pagato: appariva dunque evidente come il sistema non poteva regolarsi da solo. Ne è seguita un’ondata d’indignazione populista che nel saggio viene definito come periodo dell’Antipolitica. L’autore cita gli Indignados spagnoli e Occupy Wall Street negli USA, mettendo in secondo piano il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, sebbene questo esempio sia per noi decisamente più esemplificativo. Un ritorno di una politica rabbiosa e avvelenata che con metodi diversi cercava di prendere in controtempo la storia proponendo una ricetta che nel secolo passato aveva portato la mobilitazione di milioni. In un’epoca in cui spesso ci si ricordava di andare a votare solamente il giorno stesso delle elezioni, l’Antipolitica puntava a una ripoliticizzazione della società come unico vero atto rivoluzionario degno d’essere compiuto. A distanza di anni sappiamo che il risultato è stato un fallimento generalizzato, da New York a Roma, passando per Madrid. Come mai?
La parentesi post-politica, terminata nel 2008, ha svuotato le società occidentali di partecipazione alla vita pubblica. I partiti hanno perso iscritti, le vite di ex comunisti e di ex democristiani hanno cominciato a uniformarsi, laddove un tempo sarebbero state scandite da ben distinti modus vivendi. Niente più dopolavori proletari, niente più partecipazione alla attività cattoliche organizzate dal parroco di quartiere: solo una distesa desertica riempita da estemporanei desideri consumistici e da una irrefrenabile necessità di esprimere la propria individualità. È chiaro che di fronte a uno scenario mutato così rapidamente le ricette politiche delle vecchie macchine, così come di organizzazioni più snelle e al passo coi tempi, non potevano funzionare. Il pubblico non esisteva più, vi era solo il privato, in cui tutto il politico si era rifugiato. Se pure i militanti degli anni Sessanta e Settanta avrebbero riconosciuto che una buona dose di politico rientrava anche nella sfera personale – sottolinea Jäger – costoro avrebbero incontrato senza dubbio più di qualche problema nel tentativo di riconoscere una totale sovrapposizione fra le due sfere.
Il fallimento dell’Antipolitica ha così portato ad una nuova fase, definita di Iperpolitica, in cui rimane forte la volontà di tornare a soluzioni politiche per risolvere i problemi, ma dove manca la continuità per portare risultati duraturi. Le proteste seguite alla morte di George Floyd hanno visto venticinque milioni di americani in piazza, stando a quanto riportato da Jäger, ma nessun cambiamento ne è conseguito. Stessa dinamica per gli scontri del 6 gennaio a Capitol Hill. Tanto rumore per nulla, salvo qualche immagine simbolica ad uso e consumo di analisti e storici. In Italia il Movimento Cinque Stelle, all’apice del proprio successo elettorale (un voto su tre alle elezioni politiche del 2018), stava già trasformandosi in qualcosa di diverso. L’idea di portare nel Palazzo la rabbia dei cittadini, personificata dai primi interventi parlamentari di Alessandro Di Battista, si andava tramutando in un classico progressivismo socialdemocratico di stampo contiano. La piattaforma Rousseau, che avrebbe dovuto portare il cittadino a votare su ogni singola azione adottata dal Movimento, si era dimostrata un buco nell’acqua. Non tanto – o non solo – a causa dei passi falsi dei suoi ideatori, ma per una mancanza generalizzata d’interesse.
L’auto non va perché manca benzina. Non basta, da sola, la volontà di accelerare. Come sciami, le grandi masse si riuniscono in maniera del tutto improvvisa, agendo senza la reale possibilità di cambiare le cose, al massimo lasciando qualche puntura o graffietto sul grande corpo del leviatano. Gli uomini e le donne che partecipano alle proteste sul clima – ad esempio – per la stragrande maggioranza non militano, non hanno tessere, non fanno parte di una struttura solida. Il mondo iperpolitico post-pandemico somiglia così ad un “gemello problematico” di quello post-politico che è esistito fino al 2008. Atomizzazione, individualismo e incapacità di elaborare una prospettiva coerente. C’è una volontà di ripoliticizzare che ne distingue alcuni tratti, ma essa trova una forma schizofrenica, tutt’altro che efficace. Prospera invece il politico nel privato, ormai unico modo per esprimere un’idea, la quale, tuttavia, nascerà e morirà nel giro di pochi giorni. Così come nasce e muore nel giro di pochi giorni la rilevanza di un post su X, di un reel su TikTok o di una foto su Instagram. Non è un caso che la forma odierna della nostra politica assomigli sempre più all’uso che facciamo del nostro smartphone (o che lo smartphone fa di noi). Una sempre minore soglia d’attenzione porta ad una maggiore facilità di entrata e di uscita dalle situazioni sociali.
Prosperano, così, anche gli iperleader, uniche figure in grado di coagulare consenso attorno a una visione – morbida e tutt’altro che lungimirante – la quale ha come unico merito quello di sfidare la moribonda soglia d’attenzione. Il prezzo da pagare, tuttavia, è un costante uso di contenuti polarizzanti, generalmente di basso livello. I gatti mangiati a Springfield, in Ohio, e menzionati da Trump hanno questo scopo. La seconda venuta del tycoon è iperpolitica, non antipolitica. Non c’è più l’élite da additare, ce n’è una che in fase di sostituzione, rimangono solo alcune resistenze nello Stato profondo, dure a morire. Non siamo ancora all’apogeo della fase iperpolitica, ma ci stiamo avvicinando a passi svelti. Il futuro non può dunque che passare per la riscoperta della sfera sociale, la quale a sua volta necessita di strutture e associazionismo. Difficile da immaginare adesso che siamo travolti dalla marea di internet. Che è molto più di un mezzo di comunicazione: è una forma sociale che non produce nulla che non sottostia alle sue logiche atomizzanti. Non sembra sia possibile opporvisi, ma tempo al tempo. Le cose ultimamente cambiano molto velocemente.