L’estetica rappresenta una categoria filosofica privilegiata, emblema di energie, simboli e stratificazioni culturali, artistiche e religiose di intere civiltà. Sommersi dalle brutture di una sempre più banale omogeneità, costretti ad adeguarci ad un prodotto estetico ed artistico sempre più commerciale o, al contrario, sempre più tendente al sofisticato, al lezioso, al fine a sé stesso, necessitiamo più che mai di riconnetterci ad energie più profonde.
Seppure l’Oriente, da millenni più stabilmente legato a quest’ultime energie, si avvicini ormai a passo sempre più spedito verso l’assimilazione alla cultura occidentale globalizzante, permane nel suo subconscio un patrimonio inesauribile di risorse. Parlando della metafisica orientale, René Guénon ci ricorda che essa attinge ad un patrimonio di tradizioni invero globali, che non afferiscono pertanto all’Oriente in contrapposizione ad una “tradizione occidentale”, semmai al loro essere più radicate e conosciute:
«Il fatto è che, nelle condizioni intellettuali in cui versa attualmente il mondo occidentale, la metafisica è qualcosa di dimenticato, di generalmente ignorato, di quasi interamente perduto, mentre in Oriente essa è tuttora oggetto di una conoscenza effettiva.»
L’arte e il senso del bello sono pertanto (ancora) connessi in Oriente ad una più complessa idea dell’uomo e del mondo. Ne La Tradizione estetica giapponese, Laura Ricca sottolinea in effetti come il punto di partenza per poter parlare del senso dell’estetica giapponese sia nel concetto – originariamente cinese – di armonia: il senso di unitarietà tra cielo, terra e uomo, connette simbolicamente l’ordine sociale con la natura, il singolo individuo con il cosmo.
Tale ordine assoluto si esemplifica nella ricerca costante e profonda di un’intesa con il mondo circostante; un ordine assoluto che è in verità movimento infinito, assenza di fissità. Il dipinto, lungi dalla costruzione pittorica occidentale post-rinascimentale, si fa rappresentazione del vuoto e, assieme ad esso, del cosmo nella sua totalità e nella sua perfetta incertezza:
«Se si vogliono realizzare delle nubi […], bisogna realizzare un movimento di fluidità e di non-ostruzione tale che […] esse siano un’immagine fenomenica (xiang) la cui tensione-intenzionalità (yi) sia quella di “voler volare”»
Ad animare la vita è la Via dell’indistinto e dell’oscurità. La Tradizione e la Metafisica, proprio perché evidenti sono inesprimibili. Proprio perché inesprimibili rappresentano la più somma delle Verità. Una Via incostante e mutevole, nascosta agli occhi dei più. Sembra riecheggiare – ricordando, con Guénon, l’unità indissolubile di tutta la grande tradizione metafisica umana – l’opera di Plotino. La summa imprescindibile del sapere filosofico antico, già destinato ad inabissarsi e a rimodellarsi nel messaggio cristiano. Il sublime artistico è per il filosofo di Licopoli un senza forma. Senza forma significa guardare all’unità originaria e non dipendere da nulla:
«Gli esseri originari, nella loro quiete, non hanno alcuna attrattiva per il futuro, perché già sono l’intero, e hanno già tutta la vita che, potremmo dire, spetta a loro di diritto. Di conseguenza, non vanno in cerca di nulla, dato che il futuro con gli eventi che lo costituiscono per essi non riveste alcun significato.»
Altre saranno le traiettorie del pensiero occidentale, destinato a sovvertire tale unità originaria in favore di un approccio razionale, nel trionfo della rappresentazione (in luogo dell’identificazione) della natura. L’Uomo e la Natura sono in Occidente separati, artisticamente, filosoficamente e culturalmente. Conseguentemente l’intero approccio occidentale si configura come impegnato a governare e dominare razionalmente qualcosa di esterno a sé.
L’opera d’arte imita, umanizzando: non è un tramite con la realtà originaria. L’horror vacui sarebbe stato inconcepibile ad un pittore del Giappone classico. Allo stesso modo l’asistematicità di molti illustri intellettuali nipponici dell’epoca, sembra viaggiare in senso radicalmente opposto all’organizzazione tecnica, alla tendenza occidentale al controllo e all’ordine. Scrive Kenkō nel suo capolavoro, Ore d’ozio:
«In ogni cosa, qualunque essa sia, l’uniformità è sconsigliabile. L’incompletezza in un oggetto lo rende interessante, e dà l’impressione che ci sia la possibilità di perfezionarlo. Qualcuno una volta mi disse: “Anche quando si costruisce il palazzo imperiale si lascia sempre un posto non finito”. Anche negli scritti dei filosofi antichi, sia buddhisti sia confuciani, mancano molti capitoli.»
Se l’incertezza è il cuore e l’emblema della riflessione estetico-filosofica nipponica, la relazione uomo-natura assume dunque una veste complessa ed oggi dimenticata. Non dalla contemplazione commossa, né dall’artificiosità dei ritorni alla natura, densi di riflessione e di artificiosità, ma dalla processualità e dalla diretta discendenza dell’arte e della vita umana dal cosmo è caratterizzato il superamento di ogni distanza tra individuo e natura.
La ricerca della bellezza è ricerca interiore, Via per l’assoluto. Una ricerca che è al tempo stesso consapevole manchevolezza di ogni cosa e disinteressata ricerca di un senso. Se la vita è un sogno, non si traduce nella schopenhaueriana rassegnazione alla rappresentazione, nell’annullamento per resistere alla volontà di vivere, quanto nell’accettazione della stessa. L’annullamento di sé diviene in Giappone un estremo potenziamento interiore. Una connessione più ampia con il mondo:
«Nello splendore rosato delle fioriture primaverili, nel frinire delle cicale, nel cremisi morente del fogliame autunnale, nella bellezza spettrale della neve, nel moto illusorio dell’onda o della nuvola, videro antiche parabole di significato imperituro. Perfino le loro sciagure, gli incendi, le alluvioni, i terremoti, le pestilenze interpretavano continuamente per loro la dottrina dell’eterno Svanire.»
Il vuoto, vera intelaiatura sulla quale si muove agilmente Laura Ricca, tessendo abilmente i fili di seta della raffinata ed effimera tradizione estetica dell’impero del Sol Levante, è l’origine e la fine di ogni riflessione filosofica orientale. Il vuoto è un rifugio dai tempi; che di questo rifugio non sussistano che pochi residui, laddove il mondo intero sembra incanalato verso una inarrestabile corsa in avanti, pure si apre costantemente la possibilità di raccogliersi in sé. Una tradizione estetico-filosofica di modestia, di celebrazione del vuoto, del silenzio, di serena e distaccata contemplazione del Divenire, fu d’altra parte caratteristica del pensiero stoico romano incarnato da Marco Aurelio. Una fuga dal mondo e un ritorno al vuoto è sempre possibile, in ogni tempo:
«Ma ecco la cosa splendida: la possibilità, che hai ancora, di riunirti al tutto. A nessun’altra parte, una volta separata e tagliata via, Dio ha permesso di ricongiungersi ancora.»