Premessa: Ryan Murphy è un dannato genio e Hollywood è la miglior (mini)serie del 2020. Dialoghi brillanti, personaggi a tuttotóndo, ritmo forsennato unito a un’impeccabile ricostruzione storica; impossibile trovarci anche una virgola fuori posto. Murphy però riesce, allo stesso tempo, anche a mettere in scena come si crei una sceneggiatura perfetta e quanto possa mutare durante le diverse fasi di produzione, fino a renderla radicalmente diversa dal soggetto di partenza. La serie, infatti, non si limita a raccontare le vicende di un gruppo di esordienti alla ricerca del successo nella Los Angeles degli anni ’40, ma è anche un grande affresco del cosiddetto “Studio system” quando le 5 grandi major producevano, distribuivano e avevano sotto blindatissimi contratti scrittori, registi e attori. Situazione paradossalmente non molto dissimile dall’attuale poiché, per accaparrarsi in esclusiva i servigi dello scrittore – autore di serie indimenticabili come Nip/Tuck, Glee e American Horror Story – per i prossimi 5 anni, Netflix ha sborsato la bellezza di 300 milioni.
Come nei suoi precedenti lavori, Hollywood è una serie corale, assimilabile a un romanzo di formazione dove, però, volutamente manchi un unico protagonista. Seguiamo così le vicende di Jack Castello e Rock Hudson, aspiranti attori, il primo con ingombrante moglie al seguito, mentre il secondo deve celare la propria omosessualità; quelle di Archie Coleman, sceneggiatore nero e gay che incrocerà sulla propria strada Ernie West, affascinante “imprenditore del sesso”, che con la sua scuderia di giovani soddisfa le voglie di ricche e vecchie mogli annoiate e di uomini repressi; ma anche di Henry Wilson, spregiudicato agente – interpretato alla perfezione da Jim Parsons di Big Bang Theory – quella di Avis Amberg, moglie del boss degli Ace Studios, e di Camille Washington, attrice di colore alla ricerca della prima parte da protagonista.
L’efficace sigla con una sola immagine – nella quale i personaggi stanno scalando la mastodontica insegna di Hollywood – palesa immediatamente il tema della serie: la metaforica ascesa verso l’Olimpo della fama. Eppure, nonostante la frenetica gara per il successo, s’instaura una proficua cooperazione tra i diversi free-climbers impegnati nell’impresa, consapevoli di non potercela fare senza la provvidenziale mano di un amico che ti afferra quando metti il piede in fallo. Un bel messaggio all’interno di un mondo arrivista e spietato, dimostrato anche con logica schiacciante durante i singoli episodi, dove i protagonisti collaborano profittevolmente per un obiettivo comune, spalleggiandosi a vicenda. È qui che Murphy innesta l’aspetto metatestuale della vicenda: il soggetto originale per un film, scritto da Coleman e acquistato dagli Ace Studios, che narra la “vera storia” di un’attrice che per disperazione si suicida, gettandosi proprio dalla celebre scritta sulla collina. La produzione che, osteggiata dal boss della major viene caparbiamente portata avanti dai collaboratori, è la linea narrativa che si snoda orizzontalmente per tutte le sette puntate.
Non c’è nulla poi che a Hollywood sappiano fare meglio che parlare di… Hollywood; celebrata nell’ultimo film di Tarantino e città dei sogni (infranti) di La la land, anche in questa storia, sotto una patina d’insopportabile perbenismo, si celano giri di prostituzione, abusi di sostanze, tradimenti e colpi bassi, malavita, bustarelle e una buona dose di razzismo. Perché di razzismo a Hollywood in quegli anni ce n’era parecchio come dimostrano le traversie toccate a Hattie McDaniel – prima attrice di colore a vincere un Oscar ma impossibilitata a sedersi assieme agli altri colleghi – o quella di Anna May Wong – prima star asiatica – alla quale fu sempre negato un ruolo non macchiettistico. Così in Hollywood Murphy decide di offrire loro una sorta di “rivincita” postuma, facendole infine trionfare durante la notte più famosa proprio grazie al film – Peg che, poi, diventerà Meg – prodotto dagli Ace Studios e fortemente sponsorizzato da Eleanor Roosvelt.
Un emozionante happy ending, come nella più classica tradizione hollywoodiana, che raggiunge il climax con l’inatteso e sconvolgente outing di Rock Hudson davanti a un’esterrefatta platea in smoking. Una bella favola perfetta finché, ridestandomi dall’illusione, avverto un vago senso di stordimento e confusione. Da qualche remoto angolo della mia memoria s’insinua un fastidioso ricordo che collega Rock Hudson all’Aids. Dopo un rapido controllo che conferma la sensazione, riemergono i fatti: il celebre attore statunitense non solo non ha mai ammesso la propria omosessualità – che gli avrebbe sbarrato per sempre le porte di Hollywood – ma, anzi, l’ha sempre nascosta, arrivando perfino a celebrare un matrimonio pur di fugare voci e sospetti, prima di contrarre il fatale virus. Anche Henry Wilson – che fu davvero il suo agente e che gli impose il nome d’arte – nel finale si pente per averlo costretto a nascondere la propria sessualità e di aver abusato dei suoi clienti, redimendosi. Inutile aggiungere che anche questo è completamente inventato e che mai Wilson ammise pubblicamente d’essere gay.
Ryan Murphy, infatti, la chiama faction, arbitraria unione di “fatti” e fiction, che inevitabilmente ricorda distopie orwelliane. Impossibile poi non notare nel sottotesto una precisa agenda politica, soprattutto quando nel toccante discorso progressista di premiazione Archie Coleman afferma “la vostra storia è importante….ognuno di voi è speciale… raccontate la vostra storia”, appare sempre più chiaro chi indichi con quel vostro. Rivelatrice è anche alla vicenda di Peg che, da illusa ragazzotta bianca della media borghesia che si suicida “incapace di reggere alla delusione delle sue eccessive aspettative”, viene trasformata in ragazza di colore (Meg) e che, quindi, non può arrendersi ma deve continuare a lottare. Chiaro, no? Eppur bellissimo.