Confessione

Lino Capolicchio

“Ancora oggi, dopo tutte le traversie, dopo tutto quel che mi è successo nella vita, se mi chiedi qual è il ricordo più bello… io ti dico: a quattro anni, il cono gelato con la panna e uno spruzzo di amarena”.
Lino Capolicchio
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Lino Capolicchio, si sa, è uno dei più originali artisti del nostro paese. Icona assoluta degli anni settanta-ottanta, impareggiabile interprete del teatro italiano, cresciuto sulle tavole del palcoscenico sotto la rigida guida di Giorgio Strehler, ammesso all’Olimpo grazie ad un giardino incantato la cui regia era di Vittorio De Sica, simbolo del neo-realismo italiano. Un attore il cui volto, dagli occhi chiari e severi da aristocratico austriaco del ‘700, ha mostrato ogni sfumatura dell’essere umano, capace di attirare l’attenzione d’ogni tipo di regista: da Lizzani ai Taviani, finendo persino in un’esotica commedia di Dino Risi, Il giovane normale. Nel Gennaio del 2020 ha presentato il suo primo libro, una straordinaria autobiografia dal titolo D’amore non si muore.

D’amore non si muore (Edizioni di Bianco e Nero) di Lino Capolicchio

Maestro, leggendo le pagine della tua infanzia si ha come l’impressione di essere catapultati ne I 400 colpi di François Truffaut. Cosa pensi a riguardo?

È bella questa osservazione che mi fai, perché effettivamente mi ci riconosco. In effetti, in quegli anni ’50, stare in un collegio con un tipo di educazione molto severa non ti permetteva di fare nulla ed eri succube di un insegnamento rigido, schematico. Dovevo quindi sopportare delle situazioni che erano molto pesanti, per me come per tutti. È bella questa cosa che mi dici perché, innanzitutto, il film I 400 colpi è un capolavoro del cinema di Truffaut, è una pellicola che amo molto, e poi mi ricorda che potevo essere io quel bambino, sicuramente.

Rimanendo con lo sguardo proiettato a quel tempo è possibile notare un tuo grande amore nei confronti del cinema, in particolar modo verso un personaggio, Tarzan. Per quale motivo?

Perché i bambini amano l’idea dell’avventura e amano come immagine maschile quella di qualcuno che è molto forte, che possiede una grande forza morale ma, soprattutto, fisica. Io mi riflettevo in Tarzan perché lo vedevo come qualcosa di mitico, di soprannaturale, di irraggiungibile, uno che riusciva a combattere e a vincere contro qualsiasi situazione di pericolo, e dunque era diventato il mio eroe preferito. Quindi io per anni, da piccolo, appena usciva un film di Tarzan correvo al cinema per vederlo.

Come hai passato la notte prima dell’esame d’ammissione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico?

Non credo di aver dormito molto. Anzi, credo di non aver dormito affatto. Comunque è stato una sorta di dormiveglia, nel caso, ma ricordo che ogni tanto mi svegliavo in preda all’ansia perché dicevo: “Metti caso che sbaglio, che qualcosa va storto?”. È come un castello di carte che improvvisamente crolla, crolla tutto e io mi ritrovo a terra. Ormai avevo capito che la mia destinazione era lo spettacolo, il teatro, il cinema eventualmente. Sentivo che era l’unica cosa che volevo fare nella vita ma temevo che se si fosse verificato qualcosa di negativo avrei subìto delle conseguenze gravi perché mia madre non era in grado di mantenermi, quindi dovevo per forza vincere la borsa di studio. Fortunatamente è andato tutto nel migliore dei modi e i problemi pratici si sono risolti.

Durante il saggio finale in accademia, poco prima di entrare in scena, ti viene detto da un compagno “C’è Strehler in sala…”

Si, quello è stato un momento quasi inquietante per me perché ero il protagonista e quindi sentivo una grande responsabilità, ovviamente. E tu mi dici “c’è Strehler in sala?” è come se, alla finale della coppa del mondo di calcio, si fa male il titolare e l’allenatore viene da te e ti dice che devi giocare. È dura, molto dura. Quindi mi sono detto che dovevo entrare in scena senza paura, l’ho fatto, ed è andata bene perché non ho pensato a nulla, ma solo allo spettacolo. Poi ho esordito sul palcoscenico proprio con lui, il grande maestro, ne Le baruffe Chiozzotte di Goldoni.

Pochi anni dopo debutti con successo al cinema con Escalation di Roberto Faenza. Sappiamo però entrambi che all’inizio il tuo aspetto non convinse il regista.

No, perché quando sono andato da lui ero biondo ossigenato e quindi credeva che fossi gay, infatti mi disse, usando una parola un po’ volgare: “ Lei ha un’aria da frocio e da drogato.” Siccome nella prima parte il protagonista era un sognatore, un ingenuo che faceva tenerezza, evidentemente il mio aspetto ambiguo non riusciva ad associarlo a quel personaggio e quindi io sono andato via pensando che il film non l’avrei mai fatto. Poi invece le cose sono cambiate, perché Faenza continuava a provinare attori ma nessuno di questi lo convinceva e alla fine, tramite la segretaria di edizione, hanno deciso di provinarmi e ho vinto. Il film ha avuto un successo strepitoso sia dal punto di vista della critica ma anche da parte del pubblico. Io fui candidato al Nastro d’argento, alla Grolla d’oro ecc.

Dopo Escalation arriva un altro successo cinematografico, Metti una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi. Film che ti porterà a Cannes al fianco di Florinda Bolkan, Tony Musante, Jean-Louis Trintignant. Com’è stato recitare con tutti questi attori stranieri?

Beh, io recitavo in inglese sul set, quindi ho studiato il copione non in italiano, sapendo comunque la traduzione di ciò che dicevo. Recitavo in inglese con Musante, con la Bolkan e in realtà anche con Trintignant che invece recitava in francese. Quindi parlavamo contemporaneamente due lingue e non era facile, ma avevo studiato bene la parte, anche perché il copione mi era stato dato con molto anticipo, e quindi ho potuto sviscerare i consigli datemi da Patroni Griffi per farmi entrare al meglio nel personaggio.

Metti una sera a cena

Ad un certo momento, però, accade un evento che cambierà radicalmente la tua vita e ti farà diventare un’eterna divinità del cinema. Stiamo parlando ovviamente di un famoso giardino…

Si, naturalmente il film più importante della mia carriera. Il Giardino dei Finzi Contini è un film a cui devo tutto. Lavorare con un gigante come De Sica è stato meraviglioso, anche perché curava benissimo le sfumature di un attore. Il fatto è che io all’epoca ero diventato un divo nazionale ma quel film mi ha proiettato addirittura a livello internazionale, perché ha vinto il festival di Berlino, ha ricevuto l’oscar come miglior film straniero, io ho vinto il David di Donatello ecc. Sono dunque diventato qualcosa di iconico, di speciale. La mia interpretazione, la mia fisicità è andata oltre il personaggio del film. Attraverso quella pellicola la gente mi vede in maniera particolare, non so ma quel personaggio emana un fascino che non saprei definire.

Ma è vero che il cinema rende immortali?

Quando fai un grande film si, perché se fai un capolavoro il capolavoro rimane. Comunque credo che ci siano delle cose strane. Ci sono dei momenti in cui fai un film ma non sai come andrà a finire veramente e poi, improvvisamente, ti rendi conto di aver fatto qualcosa che è andata oltre ogni previsione. Io non ho ancora sentito una donna che non mi abbia detto: “Vendendo il film mi sono innamorata di lei.” Questo è incredibile perché non mi succede con gli altri film, solo con questo.

Il giardino dei Finzi Contini

Facciamo un passo indietro e torniamo agli esordi, quando hai avuto la fortuna di passare un pomeriggio a casa del Cristo novecentesco, il poeta corsaro Pier Paolo Pasolini.

Avevo fatto al Teatro Valle di Roma un recital di poesie, tra cui Il pianto della scavatrice che, come sai, è molto lunga, dura una ventina di minuti. E qualcuno vicino al grande Pasolini disse che, chiudendo gli occhi e ascoltando la sua voce, sembrava di sentir leggere proprio il poeta stesso. Era un critico, amico di Pasolini, che venne nel mio camerino a farmi i complimenti e mi disse: “Ne devo parlare a Pier Paolo di questo recital…” Quest’ultimo, attraverso la sua segretaria, mi dette un appuntamento a casa sua. Andai in questa casa all’EUR e passai un pomeriggio intero con lui che si comportava come un professore di università, anche bacchettandomi, ad esempio non gli piaceva il fatto che avessi i capelli molto lunghi che mi coprivano la fronte. Mi disse: “Lei ha una fronte intelligente, perché si vuole omologare alla massa? Lei è un artista e deve differenziarsi.” Poi arrivò la madre con il thè e i pasticcini e me la presentò. Poi mi dette una lezione estetica e anche morale. Quando gli dissi che ero un grande amante della pittura, lui rispose: “A Casarsa, nel mio paese, c’è un tratturo che viene calpestato da millenni dai contadini ed io di fronte quel tratturo mi emoziono perché è come un quadro di Piero Della Francesca.” Una lezione meravigliosa. Poi lui aveva in mente di fare un disco di sue poesie recitate da me, progetto mai realizzato perché i produttori della RCA dissero a Pasolini che le sue poesie erano troppo lunghe e andavo tagliate, quest’ultimo ovviamente li mandò a quel paese. Comunque, quando fummo sulla porta, alle sette di sera, mi accompagnò sull’uscio della porta dicendo: “Capolicchio, lei ha un viso bellissimo, ma il suo viso esprime tutta la decadenza della grande borghesia europea del novecento.” Io rimasi basito, annichilito, non credevo a ciò che avevo ascoltato su di me, detto da un grande poeta, un grande scrittore e un grande intellettuale del novecento, forse il più importante del suo secolo.

Sei sempre stato alla ricerca di una figura paterna nel mondo artistico ed è vero che l’hai trovata nel leggendario regista Giuseppe De Santis?

Si, dato che io ho avuto un pessimo rapporto con mio padre vedevo nella figura del regista qualcosa di paterno, intanto perché il regista ti dava un indirizzo e ti insegnava delle cose ecc. Naturalmente con De Santis si è verificato un rapporto speciale non solo sul piano artistico, ma soprattutto umano. Quindi io sono diventato un suo grande amico e per trent’anni l’ho frequentato ed effettivamente in lui vedevo una figura molto alta, praticamente paterna, che mi ha dato un’educazione morale della quale non mi sono mai dimenticato.

Sul set di Metti una sera a cena conosci “un giovanotto smilzo con un’aria perennemente fosca” che collabora al film in veste di sceneggiatore e ti confida di voler diventare regista. Nel ’74 ti viene consegnato da parte sua un copione per un film visionario che cambierà per sempre l’idea di thriller. Quel ragazzo si chiama Dario Argento ed il film è Profondo Rosso.

Lui voleva me come protagonista ed io avevo letto per tre quarti la sceneggiatura ma non l’avevo finita. Con una mia amica decidemmo di andare a trovare mio figlio che aveva due anni e non lo vedevo da due mesi. Mio figlio stava nelle Marche per cui il viaggio era piuttosto lungo, ci volevano tre ore. Purtroppo pioveva a dirotto, c’era una visibilità ridotta e a una curva un pazzo con degli abbaglianti fortissimi ci è venuto addosso a tutta velocità. C’è stato un grande scontro e le cose sono precipitate, siamo finiti in ospedale, io con un ginocchio fuori uso e con una botta alla fronte. La mia amica è finita addirittura in coma. Il mio ginocchio si era gonfiato moltissimo e non ero in grado di camminare. Le riprese del film sarebbero iniziate poche settimane dopo e quindi ho ricevuto un telegramma di Dario che diceva: “Mi dispiace molto che tu non possa partecipare al set ma la vita è più importante di qualsiasi film.”

Nonostante questo sei divenuto comunque il principe del giallo italiano grazie all’incontro con colui che diventerà per te un amico fraterno, Pupi Avati.

Con Pupi è stato un incontro molto felice, in cui abbiamo scoperto di avere una sensibilità in comune. All’epoca, siccome io ero una star e lui era agli inizi, voleva a tutti i costi fare un film con me come protagonista. Diceva che avremmo fatto qualcosa, poi alla fine mi ha mandato il copione de La casa dalle finestre che ridono, che ho amato moltissimo. Allora gli detto che avrei voluto farlo a tutti i costi e lui si è messo a cercare un produttore. Poi abbiamo fatto il film ed è stato un successo tale da diventare un film di culto e ancora oggi, oltre a Il Giardino dei Finzi Contini, mi dà tante soddisfazioni.

La casa dalle finestre che ridono

Hai anche prestato il volto al suo racconto biografico per la televisione, Jazz Band.

Si. Jazz Band è stato il film più divertente che ho girato nella mia vita, dove mi sono divertito come un pazzo. In America ci sono questi personaggi che suonano il jazz ma in Italia no, non esiste la cultura di un film su un ragazzo che suona il clarino, non fa parte della cultura italiana. Quindi, il fatto che Pupi abbia scritto un copione del genere, che faceva parte di una sua esperienza fisica vera, autentica, è stata per me un’esperienza pazzesca. Quando ho letto il copione, che tra l’altro era spesso, nel finale mi sono commosso e ho telefonato a Pupi e gli ho detto che era una delle sceneggiature più belle che avessi letto. Ancora oggi rimane tale. Sono tre puntate per la televisione, abbiamo girato quasi quattro mesi a Bologna e nelle zone limitrofe ed io, ogni giorno, non vedevo l’ora di andare a girare sul set. Non mi è mai capitato con nessun altro film, è stato bellissimo.

Tra i vari film a cui dovevi aderire c’è anche il Satyricon di Fellini…

Quella è stata la più grande delusione della mia carriera perché quando entrai nell’ufficio di Fellini trovai in bella mostra una mia foto e accanto quella di Pierre Clémenti, quindi pensai di poter essere uno dei due protagonisti maschili. Invece Fellini mi gelò dicendomi “C’è un problema. Fermo restando che io la considero uno splendido attore, lei è molto bravo e sarebbe perfetto per il ruolo ma, mentre il produttore vuole due attori famosi e di cartello come lei e Clémenti, io vorrei, invece, due facce sconosciute. Quindi se vince il produttore lei fa il mio film ma se vinco io no.” Ovviamente ha vinto Fellini, quindi io non ho fatto il film. È stata la delusione più grande della mia carriera.

Ci parli della tua amicizia con Carmelo Bene?

Carmelo l’ho conosciuto perché voleva fare al cinema l’Edoardo II di Marlowe in cui io ed Helmut Berger dovevamo avere questo rapporto omosessuale. C’incontrammo ed io gli dissi che mi piaceva l’idea e che conoscevo molto bene il testo e ci mettemmo alla ricerca di un produttore. Andai da Frizzi, che all’epoca era il direttore commerciale della Euro International Film, portai con me Carmelo e quando gli venne chiesto dallo stesso Frizzi un trattamento per verificare al meglio il progetto, perché a voce tutto è diverso, lui tirò fuori quattro righe scritte su un fogliettino. A quel punto gli venne detto: “E’ un po’ succinto…” e Carmelo rispose: “Questo è tutto quello che le posso dare.” Il progetto non vide mai la luce. Noi però siamo rimasti amici e mi ha sempre sorpreso il fatto che avesse una stima nei miei confronti e che continuava ad offrirmi spettacoli, ma io ero terrorizzato da lui perché non sapevo mai come sarebbe andata a finire. Mi ha offerto cinque o sei spettacoli sicuramente, ma io li ho rifiutati tutti. Perfino il San Sebastian di Debussy, con il libretto di D’Annunzio, dicendomi: “Nudo, nudo. Lino tu sarai nudo in scena, con il corpo coperto di frecce, così le donne le facciamo contente.” L’unico progetto che siamo riusciti a fare è una versione radiofonica di Salomè dove io facevo il giovane Siriaco e quando gli chiesi come dovevo interpretarlo, lui mi disse: “Hai presente qualcuno che si masturba? Ecco, devi avere sempre un tono masturbatorio.” L’ho fatto come voleva e a lui è piaciuto molto. Ultimamente ho letto un articolo di un signore delle Marche in cui diceva che questa mia interpretazione in Salomè è eccezionale e che io sono uno dei migliori attori italiani.

Quindi Carmelo Bene aveva visto lungo quando disse che eri uno dei più grandi attori di sempre?

Assolutamente. Lui aveva di me una considerazione pazzesca, infatti mi diceva: “Che cazzo ci stai a fare in questo paese, tu sei oltre. Prendi un vascello e vai, allontanati sulle onde e veleggia, non startene in un paese che non ti capisce e non ti potrà mai capire.”

Nel libro c’è un bellissimo epitaffio che gli hai dedicato e volevo chiederti se questo Pinocchio delle tenebre ti abbia lasciato qualche sogno eretico.

Guarda, lui era personalità forte, potente. Certo, lui era barocco, io non lo sono. Lui veniva dalla Magna Grecia, io vengo dal profondo Nord, ma siccome eravamo due artisti secondo me di grande livello, il linguaggio è quello, e quindi puoi venire da dove ti pare perché sono due linguaggi che si sposano, si uniscono, e la loro fusione diventa un linguaggio universale. Lui mi amava moltissimo e mi ha lasciato una grande sensazione di quello che vuol dire avere una grande personalità, perché è ciò che possedeva lui, in qualunque cosa facesse. Passavamo le notti a parlare, nei ristoranti o altrove, a discutere di cultura, soprattutto di musica classica perché, anche nel suo modo iperbolico, era magnifico sentirlo spiegare per quale motivo, secondo la sua visione, Rossini era il più grande compositore italiano. Passare tutti quegli anni accanto ad un amico come Carmelo è stata una scuola altissima di filosofia, di dialettica. Quello che mi ha lasciato è un grande patrimonio di estetica e morale.

Vittorio Storaro, un altro grande esteta, dice che sei l’unico attore con gusto. È vero?

Io sono un grande amante della pittura, quindi con Vittorio parlo più di quadri e pittori che di cinema. La stessa cosa mi succedeva con Zurlini, con il quale ho avuto tanti scontri. Quindi, è proprio perché conosco profondamente quest’arte che lui mi fa questo complimento, perché dice di non aver trovato un altro attore con un senso estetico così elevato.

Insomma, la tua vita è stata piena d’incontri, dalla Magnani a Mastroianni e Antonioni, da Peppino De Filippo ad Alida Valli e Volonté, fino a Branduardi, De Gregori, De André, Gaetano, Venditti. Per non parlare dei grandi personaggi esteri: i Beatles, Fassbinder, Herzog, Delon, Wajda, Coppola, Schlesinger, Polanski, Miller, Tarkovskij. Ma credo che l’incontro più folgorante sia stato con Orson Welles, no?

Sicuramente. Orson Welles, come sai, è stato un monumento del cinema e del teatro. Era enorme sia per il suo talento incredibile che per la sua fisicità che ne faceva un gigante assoluto agli occhi degli altri. Quando l’ho incontrato è come se avessi visto Hollywood nella sua classicità che si presentava davanti a me, un ragazzino di ventidue anni. Ma la cosa più straordinaria è che lui mi ha trattato come se mi conoscesse da tempo, dandomi anche del tu. Poi, quando gli ho confidato il mio amore per la musica operistica, lui mi ha rivelato che sua madre era una concertista e che quando era piccolo lo portava a vedere l’Opera e le prime parole italiane le ha conosciute grazie alle opere liriche italiane. Infine, mi ha raccontato che, il giorno del suo nono compleanno, mentre sua madre era gravemente malata, il padre gli disse di salire su nella camera, dove era atteso. Sulla torta c’erano nove candeline e sua madre lo abbracciò fortissimo, come non aveva mai fatto prima e gli sussurrò: “Orson, vorrei che la tua vita fosse leggera come le ali di una farfalla. Adesso spegni le candeline.” Lui ha spento le candeline e la stanza è andata al buio e in quel buio sua madre è morta. Sembra la sceneggiatura di un suo film…

Maestro, oltre che uno straordinario attore sei anche un ottimo regista, i due film da te diretti sono stati osannati dalla critica e non solo. Ce ne parli?

Ad un certo punto decisi di dedicarmi alla regia. Volevo fare un film sul mondo del pugilato visto che, all’epoca, era il mio sport preferito, perché io sono per gli sport individuali, non collettivi. Conobbi molti pugili e capii che erano persone fragili e questo mi affascinava perché il pugilato per me ha sempre rappresentato la sfida dell’uomo contro la vita, contro un gigante che farà di tutto per abbatterti e che devi affrontare da solo. Quindi ho scritto un film su Tiberio Mitri, che era stato un idolo italiano degli anni cinquanta perché aveva raggiunto il titolo di campione europeo e aveva tentato anche quello mondiale. Questa sceneggiatura, molto ampia, si svolgeva in Italia ma anche negli U.S.A. e, dato che costava molto ed io non avevo un nome da regista, ma solo di attore, non riuscii a realizzarlo. Poi venne un signore che faceva parte della Federazione Pugilistica Italiana, si occupava dell’ufficio stampa, mi disse che se avessi scritto un film a basso costo loro lo avrebbero finanziato. Così è stato. Io scrissi un film dal titolo Pugili, diviso in quattro episodi che raffiguravano il ciclo della vita, quindi le quattro stagioni dell’uomo, o del pugile, Primavera-Estate-Autunno-Inverno. I primi due episodi sono stati girati in bianco e nero e gli altri due a colori. Con questo film ho fatto debuttare Pierfrancesco Favino. Siamo stati al Torino Film Festival dove il film ha vinto il premio della critica internazionale, poi in tantissimi festival nel mondo, ricevendo applausi da molti critici, alcuni dei quali lo hanno definito pasoliniano. Dopo quattro anni ho scritto e diretto Diario di Matilde Manzoni, un film sull’Ottocento, durante il periodo risorgimentale, che racconta le pene di una ragazza innamorata del padre, un noto scrittore che si occupa più di stesso che della figlia e quindi lei, in qualche modo, muore per mancanza di affetto, anche perché la tisi che la porterà alla morte è comunque una conseguenza di questa mancanza d’affetto, questa mancanza d’amore paterno. Quest’opera è stata invece paragonata a Visconti e sono stato molto orgoglioso di questo, anche perché dentro ci ho messo tutto il mio amore per la pittura e per la musica.

Lino Capolicchio

Rivolgendo lo sguardo al passato, forse all’infanzia, qual è il ricordo che più ti commuove?

Mi commuove il fatto che andavo al cinema con mia nonna, che chiamavo la nonna nera perché, esteticamente, era il contrario di mia madre, una donna dalla pelle molto chiara, estremamente nordica con gli occhi azzurri. Quindi, essendo abituato a questo modello estetico, quando ho incontrato mia nonna nel ’47, per via dell’esodo in Istria che l’aveva costretta a venire da noi a Merano, notai che aveva la pelle scura e gli occhi nero carbone e quindi quando l’ho vista ero come spaventato ed urlai “Mamma la nonna è nera, la nonna è nera.” Poi però c’è stato un grande amore con lei e la cosa più bella che ricordo è che quando uscivamo dal cinema, prima di riportarmi a casa, mi accompagnava al bar all’angolo dove facevano i gelati ed io prendevo sempre un cono con la panna montata sopra ed uno spruzzo di amarena. Per me quello era il momento in cui andavo nel Nirvana e mi piaceva così tanto questo gelato che me lo ricordo come la cosa più bella della mia vita che ancora oggi, dopo tutte le traversie, dopo tutto quel che mi è successo nella vita, se mi chiedi qual è il ricordo più bello… io ti dico: a quattro anni, il cono gelato con la panna e uno spruzzo di amarena.

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