Vuole la vulgata che il Vietnam sia un Paese in ascesa; da oltre vent’anni l’economia locale cresce a ritmi record, e con essa pure il benessere di una popolazione che, sebbene viva sotto uno Stato monopartitico, può dirsi relativamente libera. E invece, sorpresa, nonostante tutto la patria di Ho Chi Minh sarebbe ancora da relegare al Terzo Mondo: parola di Joe Biden, recentemente rientrato dalla sua primissima visita ufficiale presso quello che è ormai il più importante partner statunitense nel Sudest Asiatico. L’uscita del Presidente, al culmine di una conferenza stampa iniziata con un bizzarro richiamo alla celeberrima pellicola Good Morning Vietnam e conclusa ex abrupto da un’imbarazzatissima funzionaria — «Buonanotte, io me ne vado a letto», è stato il laconico commento finale di Biden — non è che l’ultima aggiunta ad una sequela di gaffe che fin dall’insediamento sono valse all’inquilino della Casa Bianca lo scherno pressoché incessante degli avversari repubblicani.
Dallo scivolone sulla scaletta dell’Air Force One alla mano poggiata sul petto per l’inno nazionale indiano, Sleepy Joe, come l’ha apostrofato l’arcinemesi Donald Trump, è suo malgrado il bersaglio privilegiato dell’ironia dei conservatori. Ma ora, con la campagna per le fondamentali elezioni del 2024 in procinto di partire a regime, la goliardia va lasciando il posto alle polemiche. L’ottantenne ex vicepresidente sarebbe in pieno declino cognitivo, è l’accusa che arriva dai ranghi del GOP: troppi gli episodi di confusione e smarrimento che l’hanno visto protagonista nei quasi due anni in carica, per ricondurre il tutto ai semplici acciacchi di un’età che preoccupa sempre di più anche il campo progressista. Nonostante il silenzio dei vertici dem, sulle testate vicine al partito dell’asino si fanno largo i dubbi rispetto alle effettive condizioni psicofisiche di Biden, mentre l’ineffabile numero due dell’amministrazione Kamala Harris si dice pronta a «prendere il controllo» in caso di necessità.
E poi c’è la questione Hunter. Enfant terrible con alle spalle una storia pluridecennale di droga e scandali, il First Son è stato appenaincriminato per possesso illegale d’arma da fuoco e falso; escluso a priori un intervento della Presidenza in suo favore, in caso di condanna rischia fino a venticinque anni di carcere. Si riaccendono i riflettori sul secondogenito dei Biden e su alcuni fumosi affari di cui sarebbe stato protagonista insieme al padre: di particolare interesse una serie di messaggi ed email personali rinvenuti nel 2020 su un portatile di sua proprietà, in cui Hunter sembra fare più volte riferimento al potente genitore come destinatario di ingenti somme di denaro da parte, tra gli altri, anche di personaggi vicini a Pechino. Un assist tanto inatteso quanto gradito per l’opposizione di destra, che brandisce ora la minaccia di impeachment per cercare di prevalere nel braccio di ferro sul bilancio federale che da settimane si trascina al Congresso.
Immancabile la reazione di Trump: dal buen retiro di Mar-a-Lago l’ex Presidente punta il dito contro il suo successore e promette di dare nuovamente battaglia agli abitanti della proverbiale palude di Washington. Conscio di disporre di un sostegno schiacciante tra gli iscritti alla compagine che fu di Lincoln — ben il 55% intende votarlo alle primarie del prossimo anno; il suo contendente più vicino, il governatore della Florida Ron DeSantis, è fermo al 17% dei consensi — il magnate dell’immobile ha finora disertato i tradizionali dibattiti televisivi con gli avversari, preferendovi un’intervista da milioni di spettatori con il controverso anchorman Tucker Carlson. Più di una semplice mossa elettorale (Fox News, che di norma ospita il confronto, è in crisi di ascolti dopo aver estromesso Carlson, passato con grande successo ad un proprio canale su X), la scelta di Trump ne certifica la forza persistente e, insieme ad un nuovo sondaggio che lo dà vincitore anche su Biden, lo proietta per distacco verso la candidatura.
La prospettiva di un secondo mandato per il tycoon newyorkese rischia tuttavia di sfumare a causa delle numerose vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto negli ultimi mesi. Quattro sono al momento i fascicoli aperti in vari Stati contro Trump: i capi d’imputazione vanno dalla corruzione (di terzi) alla frode elettorale. Lui si dichiara innocente e perseguitato; nondimeno apparentemente a proprio agio con l’etichetta di fuorilegge, The Donald gioca perfino con la sua foto segnaletica, diffusa dal tribunale della contea di Fulton, in Georgia, e subito finita su una pletora di gadget a tema MAGA. Questo piccolo capolavoro di comunicazione non allontana però l’ipotesi, affatto inconsistente, che il frontrunner repubblicano si trovi costretto a correre per lo Studio Ovale da dietro le sbarre: è la segreta speranza anche dei NeverTrumpers, espressione ormai minoritaria ma sempre agguerrita della vecchia guardia neocon,che puntano sull’ineleggibilità di Trump per forzare l’esito altrimenti scontato del voto interno al partito.
Gli opposti schieramenti della politica a stelle e strisce debbono dunque fare i conti con candidati problematici. La situazione, a dir poco inedita se si considera che la pregressa esperienza da Commander in Chief rappresenta solitamente un enorme vantaggio — diremmo quasi una garanzia di successo — per la rielezione alle primarie, alimenta le preoccupazioni dei cittadini, ad oggi in maggioranza insoddisfatti; pesano le divisioni ideologiche e i postumi economici della pandemia, entrambi catalizzati dal dispendioso coinvolgimento nel conflitto ucraino. Ovunque nel Paese è diffusa la sfiducia nei confronti di una classe dirigente da molti considerata distante, inadeguata e corrotta, e con essa la voglia di volti (più o meno) nuovi. Ecco allora che nelle stanze dei bottoni di Capitol Hill prende timidamente corpo il dibattito intorno a delle possibili alternative al duo Biden/Trump: per la prima volta dalla tornata choc del 2016 si ha la pur lieve impressione che le urne d’oltreoceano possano regalare qualche sorpresa.
Il nome più quotato nell’area democratica è quello di Gavin Newsom. Classe 1967, sindaco di San Francisco dal 2007 al 2010, poi vice-governatore della California ed infine governatore, durante l’interezza del suo (duplice) mandato Newsom si è distinto come indefesso campione delle cause di sinistra: le stringenti regolamentazioni ambientali, la politica di tolleranza zero in materia COVID e le posizioni radicali su giustizia e sessualità del Golden State portano tutte la sua firma. Che è invece venuta a mancare per l’approvazione della Assembly Bill 957, molto cara ai gruppi LGBT: il veto opposto al disegno di legge, in base al quale i giudici avrebbero dovuto tener conto dell’identità di genere dei minori nelle decisioni di affidamento, rappresenta un inequivocabile segnale agli elettori moderati in vista di una non lontana discesa in campo. Se non bastasse, Newsom ha accettato la proposta di una discussione vis à vis avanzata da Ron DeSantis, rinforzando così anche l’idea che i due sarebbero al centro di un’eventuale competizione “parallela”.
Ma DeSantis, ambiguo su un’agenda che non riesce a comunicare con reale efficacia e dimostratosi poco avvezzo alle folle, è verosimilmente fuori dai giochi. Restano qualche personaggio noto e poco amato, come Nikki Haley o Mike Pence, e un outsider: Vivek Ramaswamy. Imprenditore millennial di origini indiane, ad istanze sostanzialmente trumpiane su economia, immigrazione e politica estera Ramaswamy coniuga un’immagine da model minority (si è laureato ad Harvard) ed una retorica da nazionalista civico, in grado di rassicurare quella non esigua porzione di votanti turbati dagli eccessi di Forty-Five. Con la sua piattaforma Vivek, come ama farsi chiamare, si colloca a metà tra l’impostazione legnosa di DeSantis e la personalità esplosiva di Trump, nell’intento di sottrarre consensi a ciascuno dei due e, forse, durare abbastanza a lungo da ottenere un posto accanto al vincitore. Non ad altro può aspirare per ora il giovane Ramaswamy; in ogni caso, è lecito credere che se ne sentirà parlare ancora.
Lo stesso Newsom farebbe bene a non illudersi. Sebbene goda di una popolarità ben superiore e di appoggi molto più solidi di quelli del suo possibile rivale, le ambizioni del politico più woke d’America sono zavorrate dal drastico deterioramento della qualità della vita in California; il PIL trilionario dello Stato non basta ad arginare la crisi dell’ordine pubblico, acuita dal costante afflusso di oppiacei e dal lassismo delle autorità locali, né l’ondata di emigranti in fuga verso zone più tranquille degli States. Insomma, Ramaswamy non ha chances di entrare al 1616 di Pennsylvania Avenue, Newsom ne ha poche: tutto inutile? No. La comparsa sulle scene di questa coppia di perdenti (quasi) certi non è un caso; trainato dai tanti delusi della Generazione Y, a suo tempo avanguardia dell’obamismo, l’elettorato USA sembra pronto a lasciarsi indietro le sue élite stantie in favore di un ricambio non soltanto politico, ma anche e soprattutto generazionale. La dimensione demografica della contrapposizione tra le parti si appresta così a superare il solo aspetto razziale.
Una nuova e potente linea di demarcazione sta emergendo nel body politic americano. Giovani contro vecchi, pagatori contro mantenuti, sconfitti contro vincitori: le elezioni dei prossimi anni le vincerà chi saprà intercettare la rabbia degli uni o la paura degli altri. In attesa che questa nuova, dirompente dinamica attraversi l’Atlantico; è questione di quando, non di se.