Manca poco alle ventitré del 7 novembre 1983 quando al centralino del Campidoglio statunitense arriva una chiamata. La sonnolenta operatrice dà sfogo alla noia dell’interminabile serata con uno sbadiglio, poi alza la cornetta. “Buonasera, qui è l’ufficio per il pubblico del Campidoglio. Come posso aiutarla?” enuncia in tono monocorde. Dopo qualche istante la schiena della giovane s’irrigidisce contro la consunta sedia da ufficio, la presa delle dita sulla sigaretta appena accesa si allenta. Dall’altra parte, un uomo le ha appena comunicato che nell’edificio c’è una bomba: se è uno scherzo — deve esserlo, pensa lei — non è divertente. La telefonata s’interrompe. Impietrita, ha appena il tempo di riagganciare: un boato squassa l’austero palazzo neoclassico, quasi che l’ordigno — ma allora il tizio era serio! — l’avesse attivato lei stessa mettendo giù. L’esplosione sfonda una parete antistante l’aula del Senato, fa a brandelli un prezioso dipinto ottocentesco e scardina la porta dell’ufficio del capogruppo democratico; i danni ammontano a circa 250mila dollari ma vittime, per fortuna, non ce ne sono.
Allora nessuno poteva saperlo, ma quella notte si era esaurita la stagione degli weathermen. Così si facevano chiamare, in un discutibile omaggio a Bob Dylan, i membri della Weather Underground — miti studenti della piccola università di Ann Arbor, Michigan, divenuti bombaroli in nome del socialismo. La prima carica l’avevano piazzata nel 1971, proprio al Congresso; l’anno dopo era toccato al Pentagono, poi nel 1975 alla sede del Dipartimento di Stato. Obiettivo: mettere fine alla guerra in Vietnam, al razzismo, agli Stati Uniti e al capitalismo, più o meno in quest’ordine. Il conflitto nel Sudest Asiatico, se non altro, si concluse per davvero. Ironia della sorte, tra le sue ultime vittime vi fu anche il gruppo estremista, fiaccato dallo scemare della contestazione pacifista che gli aveva dato i natali: entro la fine degli Anni ’70 si era frantumato in una serie di cellule più piccole e violente. Sarebbe stata una di queste, la May 19th Communist Coalition, a far brillare la dinamite a D.C., là dove tutto aveva avuto inizio; l’ultimo, eclatante gesto di una generazione fuori tempo massimo, prima che le autorità federali dessero il colpo di grazia a quel che restava del ’68 americano.
Per come l’abbiamo descritta, la parabola dei meteorologi non può non ricordare, pur coi dovuti distinguo, le Brigate Rosse: stesse origini, stessa cornice temporale, fini comparabili. Se però le BR e gli Anni di Piombo sono ancora al centro di un vivacissimo dibattito, sull’altra sponda dell’Atlantico la Underground pare essere stata relegata al dimenticatoio; dopo aver scontato delle condanne lievi o ridotte, i suoi protagonisti conducono oggi confortevoli seconde vite da borghesi. Un oblio de facto (sporadicamente intervallato da qualche iniziativa agiografica), quello riservato all’eversione di sinistra, che inevitabilmente stride con l’attenzione spasmodica di cui è per contro oggetto l’assalto a Capitol Hill, l’anniversario del quale cadeva giusto un paio di settimane fa. Joe Biden l’ha definito“un’aggressione contro la volontà del popolo e la Costituzione”; la sua vice Kamala Harris si è spinta oltre, con un paragone a dir poco audace tra i disordini di quel 6 gennaio e l’attacco giapponese a Pearl Harbor. Senza nulla togliere alla portata dei fatti — settecento arresti — le parole del duo presidenziale suonano smaccatamente retoriche. Sarebbe però un errore cedere alla tentazione di liquidare il tutto come un faraonico esercizio di onanismo, la cerimonia di D.C. rappresenta piuttosto il culmine di un’opera di mitopoiesi.
Da artata narrazione giornalistica, il 1/6 — con un forte richiamo all’11 settembre — è stato elevato a storiografia ufficiale, vero e proprio episodio (ri)fondativo di un sistema, il cosiddetto Deep State, che ormai fatica a giustificare la propria esistenza. Di fronte al forzoso disimpegno nel Medio Oriente e al crollo della fiducia in patria, lo Stato parallelo dei servizi si direbbe intento a trasformare Capitol Hill in un secondo World Trade Center: il pretesto perfetto per mantenere inalterato, perfino incrementare lo strapotere acquisito in vent’anni di persecuzione del terrorismo. Gli fanno eco il Partito Democratico e la stampa, che hanno da tempo fiutato l’occasione di smorzare definitivamente le braci ancora calde del nazional-populismo made in USA e chiudere così, una volta per tutte, la parentesi anomala aperta da Trump nel 2016. Abbandonato l’archetipo del diabolico kamikaze islamista, il nemico n.1 della democrazia a stelle e strisce ha dunque i connotati del WASP frustrato, sulla testa il cappellino rosso dei trumpiani, tra le mani un AR-15: a questo identikit rispondono, per un verso o per un altro, quasi settantacinque milioni di persone — metà dell’elettorato, che si ritrova oggi un bersaglio sulla schiena. The war comes home: la lotta al terrore in versione domestica dichiarata dalle istituzioni contro la Middle America è il sussulto finale di questo establishment sclerotico, ridotto come gli ultimi weathermen a distruggere tutto pur di non accettare il tramonto della propria epoca. Niente bombe, stavolta; ma nelle viscere del Campidoglio fatale il mito del 6 gennaio rischia ugualmente di esplodere con una forza in grado di spaccare in due gli Stati Uniti.