Se ne è andato il giorno dopo le (meste) celebrazioni dei cento anni ideali di un Enrico Berlinguer santinato al solito oltre misura, come a voler mettere lui, con il gesto più estremo a sua disposizione, il sigillo su una stagione politica che ai più giovani può suonare lontana come un vecchio sceneggiato televisivo, quando i partiti erano pesanti (e pensanti), quando la politica non era tiranneggiata dall’ignoranza come oggi, quando si poteva parlare ancora di maggioranza silenziosa e di rispetto istituzionale da parte di un paio di generazioni che erano state parte attiva in un modo o nell’altro nel boom economico dei primi Sessanta, quando termini come eccellenza, bellezza e rinascimento erano fantascienza per la semplice ragione che le parole da che mondo è mondo servono a invocare ciò che non c’è più.
Segretario per sette anni del maggiore partito italiano, la Democrazia Cristiana; deputato nazionale per undici legislature, europeo per altre due, e infine, per non farsi mancare nulla, dal 2014 -a 86 anni- sindaco di Nusco, il paese irpino che lui, figlio di un sarto, aveva lasciato giovanissimo per Milano e l’università cattolica. Bastano pochi dati per capire il rapporto osmotico tra De Mita e la politica, una politica intesa davvero come professione, come dedizione, come Beruf per dirla con Max Weber ma declinata più modestamente all’italiana; ed esibita, anche all’italiana, con quella superbia dell’intelligenza di cui lui per primo è sempre andato fiero, con quell’accento dialettale diventato proverbiale, fino a essere messo alla berlina da spettacoli tipo Bagaglino, ma di cui lui rivendicava a tutta forza l’uso come segno particolare, quasi fosse il logo fonetico di una politica antica abituata a formare ragnatele di ragionamenti spesso impervi, capaci addirittura di convincere qualche volenterosa interprete in simultanea ad abbandonare lì per lì il posto di lavoro, sfinita da troppo arzigogolati avvitamenti mentali.
«Io penso così: che il pensiero ci aiuta a capire, la realizzazione del pensiero realizzando fatti dimostra il limite del pensiero e la novità dell’evento. quindi la consecutio diretta tra pensiero e azione è una cosa che si pensa ma non si fa, non nel senso che non la si può fare perché il pensiero astraendo ci trasmette una logica diversa della realtà».
Ragionava così Ciriaco De Mita, con quell’atteggiamento da intellettuale da Magna Grecia sconfinante spesso nell’arroganza, sorretto tuttavia da quella cosa che si chiamava (e si chiamerebbe ancora) cultura, in un’epoca in cui non era stata ancora estromessa in malo modo dal parlamento… senza preoccuparsi nemmeno di far notare ai giornalisti che lo intervistavano che non avendo capito il suo ragionamento, non erano in grado di fare domande; con una prosopopea che nemmeno D’Alema ha mai pensato di poter eguagliare.
Una lunga, eterna carriera, la sua, macinata sul confine sempre labile tra intenzioni e risultati (io indico i percorsi amava dire), tra teorie cerebrali variamente profuse e clientelismi anche locali, tra pensiero e azione, appunto: non in chiave mazziniana, né tanto meno emersoniana (il pensiero è azione) ma in senso squisitamente meridionale e demitiano, secondo quella netta distinzione tra il dire e il fare che ha sempre contraddistinto una politica dove, non per nulla, le convergenze si sono rivelate il più delle volte inevitabilmente parallele.
Presidente del consiglio lo è stato per poco (un annetto o giù di lì, da segretario DC, dall’aprile 1988 al luglio 1989) eppure, per quasi un decennio fu il politico più potente del paese, insieme naturalmente a Bettino Craxi, con cui dette vita a uno dei testa a testa paralleli più entusiasmanti (o più inquietanti, a seconda dai punti di vista) della storia della nostra repubblica. Da segretario DC ha liberato i vari Mattarella (ministro per la prima volta nel 1983), e Prodi all’IRI, coltivando rapporti privilegiati con Callisto Tanzi della Parmalat ma non altrettanto con Gianni Agnelli e la FIAT, protagonista di cause giudiziarie ad ampio raggio (contro Montanelli che gli aveva dato del padrino e contro il PCI che aveva sollevato dubbi sul suo operato dopo il terremoto in Irpinia), capace, in tempi di CAF, (la triade Craxi, Andreotti, Forlani) e col sostegno di un quotidiano come la Repubblica di Scalfari, di ringiovanire una DC in crisi profonda, rendendola come mai prima affine e contigua con la sinistra, in una guerra contro il partito socialista sfociata poi nel 1990 fino alle clamorose dimissioni, nel 1990, dei cinque ministri della sinistra democristiana (tra i quali Martinazzoli e lo stesso Mattarella) contro la famosa legge sulle televisioni pro Berlusconi voluta dal PSI e firmata Mammì, approvata con la fiducia e a voto segreto dal governo Andreotti.
Con gli eredi di quella sinistra si ritrovò poi a giocare di sponda nel 2016, all’epoca del Referendum voluto dal Renzi presidente del consiglio, contro una riforma costituzionale giudicata “incomprensibile”. Lui, risolutamente schierato per il NO, a sostegno di una battaglia che almeno in quella circostanza vide sposate teoria e pratica…