Nella storia di un Paese ci sono eventi che non è facile dimenticare. In qualche modo, ogni italiano sa da dove viene: dal referendum del ’48 come dagli anni di piombo, dal boom economico, dalla Roma dei papi. E ogni nuovo evento, ogni disgrazia, ogni gioia, non può essere considerata a prescindere da quello che c’è stato prima. Ripercorrere la nostra storia è quantomai un’urgenza di fronte alle sfide che ci attendono. Se è vero che riguardare al passato può essere di grande giovamento per l’avvenire, chi può farlo meglio di qualcuno che ha incarnato lo spirito dell’Italia che fu? A conti fatti, è quanto si propone di fare Paolo Cirino Pomicino nel suo ultimo libro, di recentissima uscita, Il Grande Inganno (Lindau 2022).
Commentare un libro come questo non è semplice. Offre però un punto d’appoggio per impegnarsi in una seria riflessione sui temi che propone, al di là delle opinioni, dell’approvazione e del disaccordo. Pomicino mette sul piatto della bilancia una vita vissuta, prima che un’esperienza riformulata in una teoria politica. Rileggendo criticamente le recenti gesta della politica italiana, Pomicino tesse le fila di una narrazione avvincente, di una vera e propria controstoria dell’Italia politica dalla liberazione ad oggi. Capire cosa abbiamo dimenticato del nostro passato diventa la chiave per comprendere a fondo la disarmante condizione in cui versano le istituzioni del Paese: si tratta di riconoscere come problemi esiziali l’esautorazione implicita, ma di fatto, del potere e del prestigio del Parlamento, la dissoluzione dei partiti, la progressiva dipendenza dall’estero in termini economici. Lo dicevamo prima, quella di Pomicino è una vita gettata sul tavolo, non una narrazione distaccata. Impossibile da falsificare per ciò che riguarda la dimensione percettiva della storia (Pomicino ha vissuto, in qualche modo è stato molta parte di una certa stagione politica: nessun vissuto, in quanto tale, è falso), nelle sue conclusioni si espone coraggiosamente – questo è un merito che va riconosciuto – alla discussione, alla replica, alla confutazione. Ma è bene procedere con ordine.
Per Pomicino, l’Italia come sistema-Paese ha visto agire nella propria storia troppe persone che non avevano a cuore gli interessi giusti. Economisti, politici, magistrati, che hanno tradito. Dal 2018 il Parlamento non riesce ad eleggere come Presidente del Consiglio una proprio membro. Lo stesso vale per la salita al Colle. Questa è la punta dell’iceberg, l’evidenza forte da cui Pomicino parte. La crisi delle istituzioni, il Parlamento su tutte. Le cause sono molteplici, ma l’autore ne rende una in particolare il perno dell’intera ricostruzione: il peccato originale della storia italiana da un certo momento in avanti ha consistito nell’attacco frontale, spregiudicato e decisivo contro la dimensione stessa del ‘politico’.
L’inizio degli anni ’90 è, per Pomicino, l’inizio di una fine. Tra il ’91 e il ’93 si consuma quell’alleanza tanto insolita sulla carta quanto efficace nella realtà che vede stringersi attorno a più di un tavolo i transfughi di quello che è l’ormai ex PCI e i grandi nomi emergenti del capitalismo italiano. Tecnicizzazione della politica (è il ’93, Ciampi sarà il primo di una lunga serie), supporto da parte del tam tam giornalistico delle grandi testate, vero e proprio ‘sguinzagliamento’ della magistratura. È questo il Grande Inganno che Pomicino vuole metterci davanti agli occhi: la demonizzazione etico-morale della classe politica scaturita dalla Democrazia Cristiana fin da subito vincente alle urne da parte di quegli stessi ‘vinti’ della storia (e dal voto) che al potere non arrivarono mai, se non «quando il comunismo era stato cancellato in quasi tutto il mondo, e ci arrivarono grazie ai De Benedetti, agli Agnelli, ai Cuccia, ai Pesenti, ai Romiti e a tanti altri capitalisti italiani». Pomicino avanza sospetti davvero pesanti. Gli interrogativi su una Tangentopoli che lascia con le ‘Mani Pulite’ solo il PCI, la critica serrata al concetto stesso di trattativa Stato-mafia, le mai chiarite relazioni tra Giovanni Brusca e Luciano Violante: sono questi alcuni tra i passaggi che portano Pomicino a formulare dubbi e insieme conclusioni. Una su tutte, che vere e proprie operazioni di palazzo a danno di chi elettoralmente sembrava essere invincibile ci sono state eccome. Ma a che cosa ha portato questo rivolgimento profondo della politica italianaattraverso strumenti profondamente non-politici e a tratti antipolitici come le inchieste, la magistratura, l’alleanza col capitale? In poche parole, la risposta di Pomicino è la seguente: all’autodistruzione del Paese, dal momento che si è consegnato nelle mani di chi non ha a cuore i suoi interessi.
Ecco dunque una nuova carrellata di strani, disastrosi accadimenti: se dal punto di vista economico-finanziario siamo divenuti progressivamente una sorta di protettorato francese (il pensiero qui va certamente alla figura di Jean Pierre Mustier, ma esiste purtroppo una sfilza di casi altrettanto eloquenti), da quello della rilevanza internazionale le cose non vanno certamente meglio. Ed effettivamente, dai tempi in cui Andreotti poteva dissuadere Bush padre dal commettere errori di politica estera in stile tipicamente americano al G4 strategico Biden-Macron-Scholz-Johnson per la guerra in Ucraina, si ha l’impressione di non parlare più dello stesso Paese. Mentre il vuoto politico dell’Italia della Seconda Repubblica lasciava campo libero all’instaurazione e al progressivo rafforzamento dell’asse franco-tedesco in Europa, gli eredi del PCI (Partito Democratico, Partito Democratico della Sinistra, Democratici di Sinistra) si dimostravano più preoccupati a far macerie di quel che rimaneva della DC, ‘uccisa’ dalla magistratura su loro commissione, che di badare agli interessi nazionali. Così D’Alema incappa nell’errore di offrire a Bush figlio le basi di Vicenza per bombardare Milosevic, mentre oggi la vicenda Fincantieri-Saint Nazaire ci mostra che, a questo punto, «la colonia Italia, insomma, può solo vendere, mai acquistare».
La ricostruzione di Pomicino è decisamente a senso unico, i principali attori della Democrazia Cristiana ne escono come martiri che, letteralmente morendo o comunque patendo per l’Italia, restano ancora vittime di una storia scritta da comunisti impenitenti. Se, da un lato, emerge sempre più, col passare degli anni, l’accanimento della magistratura contro personaggi la cui demonizzazione non è mai stata supportata dalla certezza dei fatti, dall’altro va detto che è innegabile la stretta affinità di alcuni esponenti di primissimo piano della DC stessa con ambienti particolarmente discutibili. Di Gladio, della P2 e dei rapporti Gelli-Andreotti, Pomicino non parla affatto. Ma aver riportato all’attenzione del dibattito italiano la continuità storica dei problemi che affliggono la nostra politica ha un ultimo importante merito. Un’accusa in particolare tra quelle formulate da Pomicino merita di essere condivisa: la messa da parte, sotto ogni punto di vista, della dimensione politica del governo della cosa pubblica. Legata a doppio filo con i salotti buoni della finanza, subordinata ad interessi di vario genere e condannata all’irrilevanza strategica, la politica in Italia non è semplicemente più politica. È un gioco di interessi, a cui si prestano professori universitari, economisti e banchieri, addirittura comici e parvenu, nella completa assenza di una vera e propria classe politica. Il problema è che la soluzione di Pomicino – una specie di «ridateci il ‘900!», non ha nulla di realistico e percorribile.
Lo si legge fra le righe di queste pagine, scritte con fervore con un trasporto davvero commovente. Sono pagine di un uomo che mentre scrive di politica, sa che scrive della sua propria vita: fino a tanto le due cose si sono fuse, per diventare indistinguibili. Non c’è più alcuno spazio per un ‘popolarismo cattolico’ autentico in politica: il mondo che si apre di fronte a noi è un mondo non più vergine. Questa è, in fondo, la grande utopia del cattolicesimo politico (molto più politico che cattolico) del Novecento post-conciliare: rievangelizzare il mondo attraverso la prassi. Il punto è che il ‘mondo’, o – per usare categorie meno impegnative sul piano teologico – la società civile, il popolarismo cattolico l’ha già conosciuto, ammirato, sfruttato, abbandonato. Si tratta di saper leggere la storia nel suo divenire e di riscoprire una sua metafisica, teleologicamente ordinata oggi più che mai. L’illusione che Greta Thumberg e Bill Gates possano essere via di rinnovamento in un senso autenticamente ‘cristiano’ è figlia della stessa incomprensione fondamentale che portava Benedetto Croce ad esclamare esultante che «non possiamo non dirci cristiani». È un’illusione tipicamente Novecentesca, forse in buona fede per alcuni, ma pur sempre un’illusione. E in quanto tale, distruttiva.