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Draghi contro Draghi

Le prospettive dell’Italia con o senza Draghi. La quinta e ultima puntata della nostra indagine.
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In questo contesto, il quadro politico-istituzionale delineato dall’era Draghi si presta ad alcune considerazioni sul futuro dell’agenda politica imbastita in questi mesi. In primo luogo, si è assistito a un’evoluzione semi-presidenzialista del potere istituzionale del Presidente del Consiglio direttamente vincolata allo standing personale di Draghi. I decreti, specie se mediati in sede di consiglio dei Ministri tra le varie anime della maggioranza, arrivano al Parlamento senza possibilità di nuove letture, come avviene in molte forme di legislazione tipiche del modello semipresidenzialista francese. Tale prassi è però direttamente collegata al potere apicale di Draghi, e difficilmente potrebbe essere replicabile se la maggioranza dovesse esistere con una diversa figura alla guida. L’acuta volatilità della pandemia e la crisi dell’inflazione e dei prezzi energetici hanno del resto iniziato a far presagire segnali di cedimento nella maggioranza di larga coalizione che andranno monitorati con attenzione.

Secondo punto è il tema della scadenza del mandato di Draghi, che si intreccia direttamente con la caldissima partita del Quirinale. A seconda che Draghi riesca nella scalata al Colle nell’imminente contesa o che finisca rimanere alla guida del governo gli scenari cambiano. Nel primo caso, l’obiettivo sarebbe quello di governare dal Quirinale un’applicazione sostanziale dell’agenda di governo, dell’implementazione del Recovery Fund italiano e degli sviluppi politici in continuità con Mattarella; nel secondo caso, invece, Draghi si troverebbe di fronte al caos con una maggioranza in caduta libera in un clima pre-elettorale. Esponendosi inevitabilmente al rischio di una maretta continua e di un rapido esaurimento della capacità di governo. In entrambi i casi, questi scenari rappresentano il collo di bottiglia in cui Draghi arriva ad aver necessariamente a che fare con la fiducia dei partiti nei suoi confronti, e rischia di bruciarsi qualora scenari inediti o crisi logorassero la sua immagine.

Terzo punto è il fatto che lo Stato profondo del potere italiano si è arrogato un diritto di supplenza delle istituzioni politiche che difficilmente potrà tenere fuori dal perimetro di un’emergenza e dovrà necessariamente evolvere una soluzione d’uscita per il futuro. E qua arriviamo al grosso rischio di un cortocircuito: i partiti, i media, gli enti economici hanno applaudito l’agenda Draghi non solo per assenza di alternative ma anche perché la considerano un “potere frenante”, un katehon in grado di garantire un periodo di tregua da ogni riflessione sui limiti della loro azione e della loro elaborazione politica; ma d’altro canto, hanno firmato una cambiale in bianco nei confronti del presidente del Consiglio, abdicando alla volontà di formare autonomamente classe dirigente e impegnandosi a proseguire sull’agenda Draghi di riforme e piani anche in assenza di Draghi stesso.

Potrà la classe politica sopravvivere a un’ulteriore de-legittimazione, a un nuovo danno autoinferto come questo? Il discorso è serio e pone la domanda cruciale sul giudizio storico dell’era Draghi. Parliamo di un “momento de Gaulle” che prelude una svolta istituzionale? O dell’estrema riproposizione del tentativo di dare nuova vita a una Seconda Repubblica che non esiste più? La risposta starà nella capacità della politica di immaginare sul lungo periodo le rotte dell’Italia di domani. A prescindere da Draghi.

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