Il fantasma del popolo continua ad aggirarsi per la Francia, spettro evocato a ogni tornante della storia repubblicana, dalla presa della Bastiglia alle tele di Delacroix, fino agli accordi marziali della Marsigliese. Una presenza numinosa e tuttavia sempre più sfuggente, entità collettiva la cui volontà dovrebbe fungere da alfa e omega della legittimità politica, ma la cui incarnazione concreta si fa sempre più problematica nell’epoca della frammentazione identitaria e della disillusione post-ideologica. È in questo paesaggio spettrale che si muove una figura sintomatica delle convulsioni contemporanee, Jean-Luc Mélenchon.
Il recente inciampo giudiziario di Marine Le Pen – la cui interdizione dalla corsa presidenziale del 2027 per peculato sommuove le acque già torbide della politica francese – offre un’occasione, quasi un pretesto, per osservare le contorsioni intellettuali di chi, come Mélenchon, ha fatto della sovranità popolare la propria stella polare. La reazione del leader de La France Insoumise, improntata a una difesa quasi cavalleresca del diritto dell’avversaria storica (“spetta al popolo decidere la rimozione di un politico”, ha chiosato su X), trascende la mera tattica o un improvviso afflato garantista. Rivela, piuttosto, l’ostinata adesione a un principio fondativo, quello della supremazia della volontà popolare su ogni altra istanza, sia essa giudiziaria o statuale; un’adesione che rasenta il fondamentalismo repubblicano, ancorché declinato in una chiave peculiare. Non stupisce, dunque, che il recente saggio di Mélenchon, presto tradotto in italiano come “Ribellatevi! Verso la rivoluzione popolare” si configuri come un lungo, a tratti tortuoso, inno a questa potenza ctonia che sarebbe il popolo. Un percorso che ambisce a tracciare una genealogia della sovranità popolare dalle prime società umane fino all’inquieta Francia odierna, con l’intento dichiarato di scorgere nel trattamento riservato alla Le Pen una “scintilla” potenziale per quella rivoluzione pacifica che egli auspica. Ma quale popolo invoca Mélenchon, e quale rivoluzione?
La sua autodefinizione come “repubblicano” – più che come mero uomo di sinistra – si scontra con la tesi centrale del suo pensiero recente: la Rivoluzione del 1789, pur matrice essenziale, sarebbe rimasta incompiuta. La vera libertà risiederebbe in una sorta di rivoluzione permanente, un incessante aggiornamento e sovvertimento delle realtà politiche dettato dalle mutevoli condizioni materiali. È qui che il discorso si complica, abbandonando i più familiari lidi del marxismo o del socialismo classico per avventurarsi in territori più incerti. Il libro stesso, nella sua eterogenea tematica – dall’economia alla globalizzazione, dal cambiamento climatico all’intelligenza artificiale – tradisce un’ambizione utopica: influenzare il futuro dell’umanità attraverso un appello alla rivoluzione dei cittadini, finalmente consapevoli della propria oppressione. Un sogno che evoca echi sessantottini, tra utopia lennoniana e fermenti trotskisti e maoisti che segnarono la sua formazione, ma che Mélenchon tenta di aggiornare per il XXI secolo. L’approdo della riflessione di Mélenchon è un concetto decisamente controverso: la “creolizzazione”.
Questo termine, che Mélenchon sembra preferire a multiculturalismo (inviso a molta sinistra francese) o assimilazione, disegnerebbe una società ibrida, meticcia, dove le culture “oppresse” si fondono con la tradizione francese per creare un amalgama inedito, un “universalismo concreto” della differenza. Un processo che implicherebbe, gioco forza, una decostruzione radicale dell’impianto repubblicano classico – dalla laicità al centralismo statale – per far posto a questa nuova sintesi, vista come unica soluzione alle divisioni che lacerano il paese, dalle rivolte nelle banlieues all’ascesa dell’estrema destra. A sostegno di questa diagnosi e prognosi, Mélenchon mobilita le recenti scosse che hanno agitato la Francia: i Gilet Gialli, le proteste contro la riforma delle pensioni, le sommosse seguite all’uccisione del giovane Nahel Merzouk. Eventi che egli interpreta come sintomi convergenti del fallimento dell’universalismo repubblicano, incapace di riconoscere le minoranze come quella a cui apparteneva Merzouk. Ma leggere queste fiammate eterogenee – il grido della Francia periferica e abbandonata dei Gilets Jaunes, la frustrazione contro le politiche macroniane nelle piazze antiriforma, il nichilismo giovanile e l’antirepubblicanesimo delle sommosse del 2023 (che presero di mira proprio i simboli dello Stato) – sotto un’unica egida interpretativa appare un esercizio di volontarismo intellettuale, se non una forzatura.
La contraddizione si fa stridente: l’alfiere della Repubblica che sembra quasi legittimare forze che la negano visceralmente. E se la diagnosi è dubbia, la cura proposta – la “creolizzazione” – suscita sconcerto e reazioni veementi. Non solo da destra, che vi legge un cedimento all’islamismo politico, ma anche da settori della sinistra laica, che vedono in essa un tradimento dei valori illuministi fondanti. L’ombra di Houellebecq e del suo romanzo, Soumission, si proietta su questo disegno, come se la finzione distopica avesse trovato un’inattesa, benché involontaria, eco nella teoria politica. Quella biografia nordafricana – Mélenchon è nato e cresciuto a Tangeri, e non manca di ricordare i suoi primi slogan politici in arabo per l’indipendenza marocchina – diviene quasi un sigillo, per i detrattori, di un’alterità irriducibile al patto repubblicano tradizionale.
Ma l’errore fatale, forse, risiede altrove. Nella possibile disconnessione tra l’architettura intellettuale del tribuno e i desideri più profondi di quel popolo che egli pretende di rappresentare e risvegliare. Un popolo forse più esausto dal disordine recente che anelante a una rivoluzione creolizzante; un popolo che brama stabilità e, soprattutto, di veder riconosciuta la propria voce. È qui che l’affaire Le Pen potrebbe rivelarsi un catalizzatore ben più potente delle astrazioni mélenchoniane: la percezione diffusa di un blocco imposto dall’establishment a una forza politica legittimata dal voto, negando la volontà di milioni di elettori. Una ferita inferta a quella stessa sovranità popolare che Mélenchon celebra in teoria, ma la cui incarnazione reale e le cui pulsioni profonde potrebbero prendere direzioni assai diverse da quelle auspicate dal politico. In altre parole, se qualcosa di autenticamente sovversivo alle forme della politica francese dovesse muoversi, probabilmente si muoverebbe da destra. La popolazione della Francia profonda, il popolo, sembra molto più tentata da quelle spinte nativiste, dal ripensare la Francia come un sistema di praterie interne scrollandosi da quella proiezione globale grava di responsabilità che non dall’idea di un ripensamento radicale della forma statuaria, della cultura nazionale, delle fondamenta del diritto così come viste dal teorico della rivoluzione civica dei creoli. Resta la domanda, sospesa nel vuoto pneumatico del presente, su quale popolo Mélenchon invochi, e se esso sia ancora disposto ad ascoltare i suoi vati, per quanto eruditi.