La tecnologia è il prisma in cui si riflette la nostra stanca civiltà occidentale, mentre volge fiaccamente al suo declino inesorabile, incapace di rispondere efficacemente a crisi endogene che la attanagliano e alle sfide rappresentate dalle potenze egemoniche in ascesa che ne minacciano la stabilità. Da un lato, infatti, la superiorità tecnologica equivale a un surplus di potenza militare e di soft power da esercitarsi contro competitor geopolitici nella corsa alla conquista dello scacchiere internazionale, dall’altro la tecnica si sposa con l’esigenza di padroneggiare i cambiamenti in atto, di plasmare l’uomo e dotarlo di un indirizzo biopolitico preciso, dalle sculture del Partenone fino alle biotecnologie e ai trionfi della tecnoscienza. La tecnologia, come spiegato da Martin Heidegger in una conferenza illuminante del 1953, interroga l’essenza dell’essere umano e il suo modo di stare al mondo, esprimendo una modalità manifestativa di ciò che è, mettendo in gioco un pensiero monocromatico e bipartisan improntato al calcolo che fagocita la complessità degli uomini riducendoli a enti manipolabili. In essa si esprime il trionfo dell’uomo faustiano che oltrepassa i limiti sfidando le leggi di natura e il carattere predatorio della specie, come scriveva Oswald Spengler nel 1931 in anticipo su Chatgpt e Deepseek che forse minacciano la produzione culturale con le loro false promesse fatte di previsioni senza spiegazioni né veri output creativi per Noam Chomsky sul NYT.
Odiata o esaltata, attaccata globalmente dal genio pazzo di un Ted Kaczynski come innaturale e valorizzata dall’antropologia filosofica di Max Scheler, Arnold Gehlen ed Helmut Plessner come chiave di volta per la comprensione dell’enigma umano, la tecnologia viene così a rappresentare un passaggio obbligato per una politica matura che voglia essere in grado di incidere e dare corpo al proprio pantheon ideologico, guadagnandosi la capacità di padroneggiare il cambiamento in atto. Al di là delle facili esaltazioni di chi preconizza come Ray Kurzweil la possibilità di esoteriche Singolarità tecnologiche che porteranno all’avvento di macchine intelligenti in grado di sopravanzare i nostri fragili simili in attesa di fonderci ai nostri strumenti per dare vita a esseri viventi bionici potenziati con innesti, risulta chiaro come un confronto critico con la macchina tanto per il pensiero progressista quanto per la galassia del conservatorismo voglia dire prendere consapevolezza dei propri valori e riuscire a guardare al futuro senza passatismi. Il controllo della tecnica immediatamente si converte nel controllo della Weltanschauung dominante, nel dominio delle regole del gioco di quel campo di battaglia feroce che è la competizione delle idee nell’arena ideologica.
Proprio allo scopo di capitalizzare lo sviluppo tecnologico rendendolo consono alla propria narrativa e alle idee guida del background politico prescelto, sorse quindi il filone teorico accelerazionista, la vulcanica filosofia che guardava alla tecnica e ai processi del Capitale volendo cavalcarli allo scopo di superarli nella direzione di futuri alternativi, spingendo la tecnologia al limite e reputando che dal collasso del sistema sarebbero sorte opportunità di rottura. Legata a doppio filo ai nomi di Mark Fisher, Sadie Plant e Nick Land del collettivo Cybernetic Culture Research Unit di Warwick come suoi padrini e numi ispiratori, questa riflessione innovativa e antisistema si incarnò in due anime contrapposte del movimento: da una parte gli ex allievi di Fisher Alex Williams e Nick Srnicek si fecero promotori di un accelerazionismo ultra-progressista vicino al marxismo, cercando di separare l’automazione dal capitalismo sulle tracce di socialismi avveniristici, dall’altro lato della barricata Nick Land e i suoi epigoni tentarono di allineare sviluppo tecnico spinto allo zenit e reazionarismo radicale mirando ad una versione nera ed elitaria dell’illuminismo mentre Guillaume Faye della Nouvelle Droite dava i natali ad una sintesi dialettica tra tradizionalismo e modernizzazione sotto il nome di “archeofuturismo”.
Entrambe le declinazioni dell’accelerazionismo sposavano il progresso tecnoscientifico, miravano all’oltrepassamento della civiltà capitalistica mediante il suo ricco strumentario tecnologico avanzato, alla sua autosoppressione per il tramite di forme tecniche divenute incompatibili con il sistema di valori umano, troppo umano cui siamo abituati. Per Williams e Srnicek nel “Manifesto accelerazionista” del 2013, la sinistra deve costruire così una solida egemonia sul piano sociotecnologico, abbandonare il luddismo da anticapitalismo romantico delle folk politics (forme resistenziali al sistema localistiche e caratterizzate da una visione dal basso) per abbracciare le forze inespresse messe a disposizione dal capitalismo tardo moderno. Il Capitale è visto come una potenza che, sulla falsariga del pensiero di Deleuze e Guattari, deterritorializza e riterritorializza simultaneamente, demolendo sistemi simbolici precedentemente invalsi e costruendone di nuovi riorganizzati attorno alle sue parole d’ordine improntate alla ricerca di profitto a cui si deve contrappore una lotta di classe tecnologizzata, all’altezza.
In una pubblicazione successiva del 2015 dedicata all’antilavorismo per VersoBooks, i due studiosi interpretano Marx come un proto-accelerazionista deciso a sfidare il capitalismo sul suo stesso terreno, dichiarano la necessità della sinistra di costruirsi un network egemonico paragonabile alla Mont Pelerin society per l’ideologia neoliberal, propongono la battaglia per un general income e per la riduzione dell’orario di lavoro denunciando l’etica del lavoro come oppressiva, affermano l’esigenza di automatizzare in determinati settori per un futuro post-scarsità. L’accelerazionismo proposto dai due filosofi della tecnica left wing, infatti, rappresenta un modo di sposare la modernizzazione al suo culmine con tutta la cascata di innovazioni tecnologiche (AI, ecc.) e i valori promossi dai movimenti socialisti e anarchici, per battere in breccia tanto il modo di produzione capitalistico quanto l’ossatura etico-politica che lo giustifica a livello di sovrastruttura. La sinistra accelerazionista, in altri termini, reinterpreta la tecnologia come un balzo in avanti sulla strada del sole dell’avvenire laddove i neoreazionari vi scorgono, come vedremo, sconvolgimenti tellurici in grado di ribaltare la stessa antropologia dell’animale uomo per rinverdire ideali culturali scomparsi di stampo anti-egualitario, tradizionalista e gerarchico (in senso olista e organico come sostenuto dall’indologo Louis Dumont).
Se per l’accelerazionismo di sinistra abbiamo un postcapitalismo che potrebbe assumere le sembianze di una costellazione di comuni avveniristiche che soppiantano stati nazione obsoleti per lo sviluppo tecnico crescente, per le destre che tentano di sfruttare il potenziale dell’accelerazione vale un discorso diverso. Se, infatti, Land e Yarvin hanno cercato di edificare un dark enlightment che mirasse a soppiantare gli stati con le aziende ritenendo il capitalismo il necesse est del futuro della civiltà, Faye e la sua riflessione archeofuturista ha provato a mediare tra le opposte esigenze della conservazione e dell’imperativo alla crescita per la crescita. Come il Nietzsche delle “Considerazioni inattuali”, il punto è cercare un incastro tra la recisione col coltello dal proprio passato e la sua idealizzazione a rischio impasse rispetto alle novità, da lui rintracciato nella riscoperta delle tradizioni europee, nella rottura con il modello umanitarista ed egualitario figlio della religione ebraico-cristiana e nella scelta di un mondo multilivello a più velocità di sviluppo. Nell’ottica archeofuturista delineata da Faye a partire da un saggio del 1998, occorre quindi coniugare arcaismo e rispetto delle tradizioni avite più efficaci a fare comunità dei valori borghesi meno radicati in una prassi comunitaria di esistenza al futurismo inteso come libera sperimentazione creatrice volontaristica secondo le linee di un “costruttivismo vitalista” da intendersi come tipologia di pensiero estetico volto alla costruzione di tipi d’uomo superiori.
La modernità al modo di Williams e Srnicek viene vista in chiaroscuro come epoca di convergenza di catastrofi, qui interpretate però privilegiando l’attaccamento all’humus storico-culturale identitario dei popoli europei da preservarsi contro gli assalti di quella che a parare di Faye è un immigrazionismo incontrollato che provoca metastasi sociali unitamente a dissesti economici, demografici, la finanziarizzazione economica, il montare del conflitto tra il Nord e il Sud del mondo, l’accendersi della miccia del fanatismo religioso. A queste sclerotizzazioni Faye contrappone, sul piano prescrittivo, una nuova destra capace di costruire proposte pragmatiche e credibili al di là dei miti facile di sviluppo economico per ogni paese promossi ottimisticamente incuranti degli effetti boomerang sul piano dell’equilibrio ecologico e della competizione con le economie emergenti. Immagina una suddivisione dell’orbe terracqueo per blocchi egemonici facendosi alfiere di un grande spazio eurosiberiano in grado di poter tornare finalmente egemone sul piano geopolitico sganciandosi dagli States, si fa promotore di una tecnica anti-egualitaria e verticistica per delle ristrette gerarchie elitarie capace di convivere con paesi rimasti indietro sul piano dello sviluppo rigettando qualunque rappresentazione progressista di un miglioramento socioeconomico a portata di tutti, accettando per Realpolitik che l’innovazione debba essere conquistata dagli attori internazionali più forti com’è sempre stato nella storia umana.
Lungo questo asse di pensiero la tecnica nei suoi sviluppi viene ad assomigliare ad un’alchimia settaria a disposizione di pochi privilegiati in grado di potersi permettere di sviluppare il proprio potenziale indefinitamente, sullo sfondo di un’umanità dedita uno stile di vita neotradizionale e comunitario autarchici a seconda del proprio merito. Se nell’accelerazionismo progressista prevale la logica utopica, una visione impregnata di romanticizzazione delle tecniche al servizio dell’ingegnerizzazione sociale per assicurare un futuro dignitoso di tutti, l’archeofuturismo all’estremo opposto si presenta come una filosofia del martello che fa strame dei diritti umani mirando all’invenzione di un futuro per esprit fort demiurgici di cui Musk potrebbe rappresentare un messia oscuro. Si tratta di capire se l’accelerazione proposta come panacea dagli uni e dagli altri per inverare i propri modelli sociopolitici non possa essere risolta a vantaggio di un addomesticamento della tecnica compatibile col modello antropologico del passato per impedire un sorpasso che minaccerebbe l’autoestinzione della specie molto più che il traguardo definitivo. Come denunciato da Günther Anders, nella nostra epoca la vergogna prometeica di sentirci superati dalle nostre stesse invenzioni ha raggiunto lo zenit portandoci ad essere considerabili antiquati, in ritardo rispetto a tecnologie sempre più raffinate: può darsi che la strada da percorrere indipendentemente dalla cordata politica di riferimento consista nell’ammansire le tecniche invece che farsene alleati assecondandone il trend. L’obiettivo comune di ogni schieramento potrebbe diventare, pertanto, proprio la ricerca di modalità con cui includere l’apparato tecnologico nel proprio assetto di valori senza sacrificare con questo l’indecostruibile natura umana insegnataci dalla nostra tradizione ellenico-cristiana. Non accelerare sul tracciato di uno sviluppo tecnico sempre più impetuoso, quanto ricodificare quello sviluppo adattandolo alle forme culturali che l’hanno preceduto, senza titanismi fuori luogo.