Immaginatevi Mosca nel 1992. La brutta copia di quella grande e insonne metropoli che è ora. Moscow never sleeps, un po’ come New York o Bangkok. Ma fino a trent’anni fa era un’altra storia. Si raccoglievano le macerie dell’Urss, “suicidata” dal team Gorbačëv-El’cin, nel totale disordine e nella cupezza dei tempi che furono. C’era un milanese che aveva vissuto a cavallo della Cortina, sbarcato poco più che maggiorenne, colbacco e montone, in quell’Urss al suo canto del cigno, della quale ricorda i profumi e i sorrisi delle persone, i tempi lunghi e scanditi dal tè e dalle sigarette scadenti.
Sandro Teti è un personaggio tra due mondi, un ribelle che decide di trasferirsi in un mondo fatto di rigidezza e controllo. Un eterno ragazzo cresciuto a pane e tvorog, con qualche eccesso giovanile e un intramontabile estro intellettuale. Ha finito per ricalcare le orme di suo padre, grande editore del ‘900, senza mai realmente seguirlo, e da lui ha ereditato soltanto la passione per il Toro. Tutto il resto è farina del suo sacco, in salsa sovietica. Oggi Sandro rappresenta un vero e proprio trait d’union tra l’Occidente e l’Oriente, ambasciatore di una commistione di culture forse impensabile, perché troppo diverse e perennemente divise. Eppure, lo vediamo, sui voli per Minsk o per Baku, a portare contaminazione e amicizia tra dove prima c’era isolazionismo e tensione.
Lo vedrete sempre così, con quel capello perennemente arruffato e con quello sguardo sornione, con una attitudine ottimista e leggera, nonostante tanti guai e tante avventure al limite del pericolo. Con uno stile a metà tra un bohémien e uno yuppie, guardando le sue bellissime foto ripercorriamo insieme la sua avventura in Unione Sovietica, tra ricordi al sapore di vodka e di cioccolato “Ottobre Rosso”. La nostra è stata una chiacchierata come quelle dei suoi tempi sovietici, lenta, lunga, piacevole, ammaliante per certi aspetti, con questo fare sempre molto accomodante. Abbiamo ripercorso tanti ricordi mirabolanti, con gli occhi sempre luccicanti su quei ricordi indelebili ed imprescindibili anche nella sua quarta o quinta vita, quella che vive a metà tra il giramondo e la passione per le lettere.
L’intervista che leggerete è solo frutto di uno dei tantissimi colloqui che abbiamo avuto, e sono certo che ne uscirebbero altre, completamente diverse, dalle future chiacchierate. Con Sandro si può parlare di tutto, tirerà sempre fuori una storia o un episodio in cui ha conosciuto un personaggio chiave, ha vissuto una situazione analoga, in chissà quale posto esotico. Una scheggia impazzita nella società della lentezza. Oggi però ci siamo accomodati sul divanetto del suo studio a Roma, e abbiamo lasciato che il tempo scorresse a suo piacimento.
Sandro, tu provieni da una famiglia comunista “ultra-ortodossa”, che in qualche modo ha condizionato la tua scelta di fare questa esperienza di vita in Urss.
Con mio padre avevo un rapporto conflittuale. Avevamo una visione diversa anche sull’Urss: lui tendeva a idealizzarla, mentre io avevo un atteggiamento più equilibrato ed evidenziavo anche gli aspetti negativi.
Agli inizi degli anni 80, Milano aveva preso una brutta piega, il “riflusso” acquisiva sempre più vigore e degli anni Settanta erano rimasti solo eroina, terrorismo e repressione mentre tutti gli aspetti creativi, gioiosi, “comunitari” e libertari erano stati spazzati via. Insomma mi sentivo molto a disagio, fuori posto. Il clima per me era diventato pesante e sentivo il bisogno di cambiare aria. Ero insomma sul piede di partenza senza sapere per dove, avevo seriamente pensato di imbarcarmi come mozzo, poi ebbi questa opportunità, non voluta, non cercata.
Parlaci di come nasce la tua esperienza di vita in Urss.
La mia esperienza di vita in Unione Sovietica è stata oggettivamente unica per un occidentale dell’epoca. Arrivai a Mosca nel 1981, a soli 20 anni. Sono rimasto lì, salvo i periodi di vacanza in Italia fino al 1984, per quasi tutto il cosiddetto “periodo dei funerali”, nel quale si avvicendarono i tre anziani segretari del PCUS, Breznev, Andropov e Cernenko. Ebbi la fortuna di non vivere in un compound per stranieri, dove erano rigidamente costretti a risiedere i diplomatici, i corrispondenti di televisioni e giornali stranieri, così come i dirigenti delle grandi imprese internazionali, per esempio Fiat, Eni, Nuovo Pignone ed altre. La ragione, secondo quanto ufficialmente dichiaravano i sovietici, era garantire la sicurezza e l’incolumità ai cittadini stranieri. In realtà Mosca era una città estremamente sicura all’epoca, con uno dei tassi di criminalità più bassi al mondo. Era chiaro che fosse un provvedimento per facilitare il controllo sulle persone e per contrastare i tentativi di spionaggio, che effettivamente si susseguivano e non erano quindi il frutto della paranoia del KGB.
Mio padre era un editore, nel 1964 rilevò dal Pci la rivista comunista, il Calendario del Popolo, che negli anni ’50 raggiunse volumi di vendita imponenti. Pur non essendoci ufficialmente delle correnti nel PCI, lui si identificava nel gruppo dei filosovietici, dal 1980 definiti “kabulisti”. Lui aveva rapporti con il Dipartimento internazionale del Comitato centrale del PCUS, e per questa ragione fu invitato nel 1980 alle Olimpiadi di Mosca. E ci andai anch’io. In quell’occasione incontrai il direttore della Casa Editrice “Novosti”, che aveva centinaia di collaboratori e 59 redazioni in altrettante lingue diverse. In questi uffici ci si occupava di tradurre e predisporre i testi dal russo nelle diverse lingue per le pubblicazioni a fini propagandistici.
Nell’inverno del 1980 pensando di fare un breve periodo, partii. Quando atterrai all’aeroporto di Sheremetyevo c’erano 14 gradi sottozero e fu uno shock e feci molta fatica a gestire la quotidianità. Ero sempre stato viziato in casa, come molti adolescenti, specialmente dalla mia nonna veneta. Mi diedero un monolocale in un palazzone. L’ambiente di lavoro era estremamente formale, molto colto, tutti provenivano dalle migliori scuole del Paese. L’impatto non era stato dei migliori, in fondo il più giovane aveva 17 anni più di me! Ricordo che le due più anziane dell’ufficio battibeccavano continuamente e confrontavano le proprie esperienze di vita in Italia. Una di queste raccontava di aver stretto la mano a Mussolini nella spiaggia riservata ai diplomatici, mentre l’altra raccontava di aver lavorato presso l’Ambasciata russa a Roma, ricordando spesso la fiumana di gente che si recò a firmare il libro delle condoglianze nel 1953, quando morì Stalin.
Io fui messo sulla graticola da loro due, che sadicamente mi facevano domande molto specifiche come per esempio sulle ultime tendenze della critica letteraria in ambito poetico. A causa di questo, nei primi tempi fino a tarda notte studiavo letteratura italiana invece che lingua russa, perché a 19 anni ero tutto fuorché erudito in materia. Loro divoravano letteralmente le copie dei giornali italiani che arrivavano in sede, come Paese Sera, Rinascita e l’Unità. Era tutta gente che aveva studiato per una vita, in modo maniacale, spinta dalla passione, tutti gli aspetti più peculiari dell’Italia, della nostra cultura. Vivere quotidianamente in quell’ambiente mi illuminò su tante questioni, anche legate all’approccio e al plagio, in un certo senso, della propaganda occidentale rispetto alla vita in Unione Sovietica.
Come si viveva in Urss negli anni ‘80?
La propaganda occidentale era pervasiva, e aveva fatto breccia anche su di me fino a quel momento. Non era assolutamente vero che in Urss si facesse la fila per avere il pane, si panificava quotidianamente fino alle 11 di sera, così come per tutta una serie di generi di prima necessità. Io andavo matto per il cioccolato. Vi era poi una serie di generi che erano sempre disponibili, ma per i quali era necessario fare la fila. Mi riferisco in particolare alla frutta e agli ortaggi, come le arance marocchine, che erano presenti in quantità industriale, ma erano comunque razionate tra la popolazione. Io, comunque, ero fortunato, perché mi era consentito pranzare nella mensa interna alla casa editrice, le stolovaya che erano presenti in tutti i luoghi di lavoro, così come degli spacci alimentari interni, dove si poteva acquistare la carne e altri generi.
La vita ai tempi non era orribile come veniva descritta. Mi colpì particolarmente, ai tempi, una cosa in particolare: la quantità e la qualità del tempo libero. In un sistema come quello sovietico non esisteva la preoccupazione del lavoro. Chiunque, anche se perdeva il proprio posto, sapeva che comunque avrebbe avuto altre cinque o sei possibilità. Il lavoro non mancava, così come la disponibilità di tempo libero in dotazione alle persone. Esisteva un’immensa offerta di eventi teatrali e cinematografici, e si leggeva tanto. Si discuteva di tutto, in cucina, tenendo la radio ad altissimo volume, e si raccontavano molte barzellette sul regime. Era tutto molto diverso da come un italiano potesse immaginare. Per telefonare in Italia ai tempi non c’era la teleselezione, ma vi era un operatore che ti connetteva con gli altri Paesi, anche dopo molte ore di attesa, rimanendo in linea per tutto il tempo ad ascoltare i dettagli delle conversazioni. Quando ogni tanto telefonavo a mia madre sentivo l’operatrice tossire!
Tu hai mai avuto disagi, sei stato mai messo sotto pressione per qualche accadimento?
Non ho mai avuto nessun tipo di problemi. Quando però, nel settembre 1983, all’apice del rigurgito della guerra fredda tra Usa e Urss, si verificò l’incidente del Boeing 747 della Korean Airlines sopra Sakhalin, che suscitò altissima tensione fra i due blocchi, fui convocato e mi venne detto “non è opportuno frequentare l’Ambasciata d’Italia, bisogna evitare provocazioni”.
E negli anni successivi?
Il periodo del 1992-93 fu impressionante, con l’iperinflazione che distrusse i risparmi di milioni di cittadini russi. L’inflazione era tale – raggiunse il 10.000% – che ogni volta che cambiavo i miei dollari uscivo dal cambiavalute con le borse di plastica del supermercato piene di banconote. Il mio autista prendeva dieci dollari al giorno pieno di benzina compreso, l’equivalente di uno stipendio di un professore universitario. Molti si arricchirono all’epoca, mettendo le mani sui giacimenti di materie prime, ma ci furono ruberie di ogni genere. Ricordo per esempio un italiano che trasportò in Italia un intero treno di acciaio di particolare pregio. In Italia, portate a Brescia, queste finirono in un altoforno per la produzione di acciaio, pagate dieci volte di più. Ci fu anche un ebreo che, con un colpo di mano, riempì di carburante molte autobotti, facendo il giro di tutte le scuole, ospedali ed enti di Stato di Odessa, svuotandone tutte le riserve strategiche e imbarcò tutto su una petroliera, e con il ricavato comprò una ventina di palazzi in centro.
Raccontaci qualche episodio surreale che ti ha coinvolto.
Ricordo una volta che dovevo ripartire, dimenticai a casa il passaporto e non feci in tempo a tornare indietro. All’epoca il caposcalo Aeroflot di Malpensa era un mio caro amico, e mi fece imbarcare su un volo per Kiev. All’epoca, arrivato a Borispol, era notte, mi spillarono venti dollari per appormi un timbro su un foglio di carta. Uscii dal terminal e vidi un tappeto di persone che dormivano in attesa che si riempisse il volo, perché mancava il denaro per rifornire l’aereo. Presi una macchina per andare in stazione. Attendevo in stazione la partenza del treno che da Odessa, transitava per Kiev, diretto a Mosca. Il capotreno mi domandò dove dovessi andare, mi chiese i soldi in anticipo e mi fece salire sul treno. Lui abitava con tutta la sua famiglia sul treno, ed incassava direttamente i soldi del biglietto. Un’altra volta ancora presi l’aereo da Simferopoli, avevo accanto una donna con una gallina, mentre un altro azero di Baku con tutti i denti d’oro, tirò fuori una valigetta ventiquattrore piena di pomodori che vendeva a 20 rubli al kg, quando lo stipendio mensile di un russo era di 70 rubli. Nel 1992 misi su una joint venture con un ente pansovietico che si occupava di editoria e di intermediazione di vendita di prodotti editoriali. Iniziai ad importare dalla Svezia anche il Tetrapak e le confezioni per i medicinali. Il progetto stava andando benissimo, ma a causa di un grave incidente stradale dovetti abbandonare il progetto.
Cosa successe?
Fui investito sul Sadovoye Koltso, nei pressi dell’ospedale “Sklifasovsky”, il più grande ospedale di Russia, all’epoca. Fui trasportato in questo ospedale d’urgenza. Ebbi numerose trasfusioni e stetti in coma per diversi giorni. Avevo bisogno di cure e di essere messo sotto osservazione. Fui raggiunto da una mia amica, a cui chiesero molti soldi. Svuotarono un intero camerone per metterci dentro me con degli infermieri che mi sorvegliavano h24. Io ricordo di aver avuto allucinazioni per diversi giorni, vedevo dei maiali rossi che passeggiavano sul soffitto. Dopo quattro giorni, scoprirono che al posto della morfina, che gli infermieri si rivendevano sul mercato nero, mi veniva somministrata la scopolamina, un anestetico per cavalli. Solo dopo l’intervento dell’Ambasciata e del glavny vrach (il primario), mi venne finalmente somministrata la morfina. Io in questi momenti di delirio assoluto, ricordo di dialoghi con le mie infermiere, una di queste mi raccontò che si era trasferita da poco a Mosca, il padre era un militare, e lei ebbe una relazione clandestina con il vicino di casa, coetaneo dei genitori. Un’altra, invece, mi aiutò molto e mi rimase molto cara. In quel momento feci obyet, un fioretto, e le dissi che appena mi fossi ripreso l’avrei invitata in Italia, cosa che poi effettivamente feci. Qualche tempo fa ricevetti un messaggio da questa donna, che mi diceva che era felicemente sposata con un uomo sardo e si era trasferita stabilmente in Italia.
Come funzionava la vita privata lì?
Esistevano solo le discoteche clandestine, il rock era bandito, restava una corrente musicale underground. I film francesi e italiani erano molto apprezzati. Tutti conoscevano e apprezzavano il neorealismo italiano, in tv venivano trasmessi i film di De Sica, Fellini e Rossellini. Si leggevano i libri italiani, Gianni Rodari era una star, venivano stampati e pubblicati con tirature enormi. Nella Mosca sotterranea si trovava di tutto, c’erano i milionari, i cambiavalute clandestini, a volte collusi coi servizi, il fenomeno della prostituzione era limitato ai soli alberghi ed erano frequentate da stranieri. Erano ragazze coltissime, anche loro al soldo dei servizi, per i quali raccoglievano informazioni. Conobbi una signora che, tornata dall’India, praticava yoga e lo insegnava privatamente alle amiche. C’era una vita parallela oltre al comunismo. Molta di questa si svolgeva nelle case. Poi c’erano i luoghi pubblici, i mercati kholkoziani, come il Tsentralny Rynok, il mercato centrale, che era frequentato da chiunque, anche dai diplomatici, gestito dai caucasici, che avevano in mano il commercio di frutta e verdura, che erano i beni più costosi, e che puntualmente mi intercettavano chiamandomi Zemlyak, paesano, e cercavano di vendermi qualunque cosa. In questo periodo ho avuto modo però di incontrare tutto un microcosmo di realtà intellettuali e politiche molto estrose.
Chi hai conosciuto?
Ho coltivato alcune amicizie importanti, come la persona che mi diede più aiuto ai tempi, Tolia Sokolovic. Era di poco più grande di me, aveva già conseguito il dottorato, ed ė ancor oggi è il più grande esperto di lingua e cultura vietnamite e insegna all’Accademia Russa delle Scienze. Abitavamo nello stesso stabile, dove abitavano tutti i dipendenti della casa editrice, dal direttore alle donne delle pulizie. Tra quelli che ricordo con più affetto c’era David Abramovic Dragunsky, all’epoca generale di Corpo d’Armata, che a soli trent’anni durante la Guerra Patriottica (la nostra Seconda Guerra Mondiale), da colonnello, conquistò con i suoi carri il cuore di Berlino. È stato insignito per ben due volte eroe dell’Unione Sovietica. Ebreo, durante la guerra ebbe 51 morti in famiglia a causa delle rappresaglie naziste in Bielorussia. L’ho accompagnato anche durante i suoi viaggi in Italia. Ad un certo momento divenne anche presidente del comitato antisionista dell’Urss. Egli non metteva in discussione l’esistenza dello Stato d’Israele, ma si batté tantissimo per la nascita dello Stato palestinese. Sono stato qualche tempo fa al suo funerale, dove tenne un discorso anche Chebrikov, ex comandante del KGB e il presidente del Birobidzhan, la regione autonoma ebraica. C’era anche un armeno che lavorava lì alla Novosti con me. Dopo la caduta dell’Urss mi chiamò, nel 1993, raccontandomi di aver fondato un’agenzia di modelle e mi venne a prendere in una Mercedes 600 e mi portò a fare acquisti per la sua boutique all’interno dell’hotel Metropol’. Mi portò anche nella sua dacia a Barvikha, dove oggi ha edificato una specie di castello, con tanto di cita muraria, con una chiesa ortodossa all’interno. All’epoca si facevano fortune partendo dal nulla.
Ho conosciuto poi Zhores Alferov, premio Nobel per la fisica, con il quale ho collaborato molto, ho conosciuto Zyuganov, che ho portato in Italia per incontrare i vertici del PCI e della Rifondazione. Stando a Mosca mi ero accreditato presso la Duma di Stato come giornalista indipendente. In ogni caso, all’epoca c’erano pochissimi occidentali: a posteriori seppi che tutti i miei amici, e tutte le persone che frequentavo mentre vivevo lì, erano tutti agenti del KGB, che mi tenevano sotto controllo. Ma d’altronde, in un periodo di tensione come i primi anni ’80, era disseminato ovunque, soprattutto in un ambiente come una casa editrice, che si occupava della propaganda. Tant’è che tutti i corrispondenti russi dell’agenzia nei Paesi Occidentali erano spie. Ho incontrato anche personaggi della malavita russa dei primi ’90.
Tu hai anche conosciuto Putin.
Si, ci ho scambiato delle battute durante una serata. Ho conosciuto e fatto da interprete a Khodorkovsky e alcuni altri oligarchi. Ho conosciuto il folkloristico Kobzon, il pragmatico Rogozin, ho intervistato più volte Gorbacev e sua moglie Raisa, diciamo che gli ambienti che ho frequentato in tutti questi anni mi hanno dato la possibilità di entrare a contatto con persone influenti.
Nei giorni scorsi mi raccontavi di aver frequentato anche Fidelito Castro. Che tipo era?
Il mio caro amico Zhores Alferov era molto amico di Fidel (padre). Fidelito frequentò in incognito l’università a Mosca e poi il dottorato in fisica nucleare a Dubna, nel più importante centro di ricerca russo. Lui era il responsabile del programma nucleare cubano, con il quale avevano l’obiettivo di costruire una centrale nucleare e rendere l’isola indipendente a livello energetico. Il petrolio che ricevevano, dunque, in questo modo poteva essere rivenduto e guadagnarci. Invitai Fidelito anche in un’azienda in Sardegna per la quale facevo delle consulenze, e grazie a lui riuscimmo a partecipare a degli importanti appalti a Caracas. Era una persona molto colta, parlava diverse lingue. Quando appresi del suo suicidio cominciai a pormi delle domande su come riuscisse a sopportare il fardello del suo status, con l’ombra del padre sempre presente, attraverso la propaganda, i monumenti. Lui girava per Cuba con una Zhiguly scassata, seguito a distanza dalle guardie del corpo. Soffriva di depressione per questo, viveva una situazione sicuramente interessante ma estremamente complessa.
In Russia hai incrociato anche una delle personalità più controverse ed esaltanti del panorama intellettuale contemporaneo. Eduard Limonov. Come lo hai conosciuto?
Limonov lo conobbi nel 1992, da poco caduta l’Urss, e lui fece rientro a Mosca da Parigi, dove si era avvicinato agli ambienti anarchici e al Partito Comunista francese. Lo incontrai la prima volta di fronte al Museo di Lenin, chiuso da poco, in Ploshad Revolutsii (Piazza della Rivoluzione), in una situazione surreale: quel giorno c’erano le bandiere zariste, le bandiere anarchiche, i trotskysti provenienti dall’Europa occidentale e dagli Usa, che facevano circolare le proprie pubblicazioni anche in lingua russa. C’erano le bandiere del partito del mio amico Viktor Anpilov, Trudovaya Rossiya. Circolavano copie dello Zavtra, di Den’, e la Pravda, che era rimasto un giornale di sinistra. C’era anche Pamyat’, il movimento ultranazionalista appena sorto. Io facevo lo stringer, subappaltavo servizi per le testate straniere. All’epoca mi portai dietro il mio mixer, e feci la prima intervista a Vladimir Zhirinovsky, attuale capo del partito LDPR. Zhirinovsky era un folle, con il fez in testa recitava “con le nostre autostrade arriveremo direttamente a Berlino”.
Con Limonov siamo divenuti molto amici. Il suo aiutante mi ha detto che, appena passerà questa pandemia, vogliono organizzare una grande giornata di commemorazione a Mosca, alla quale avrò l’onore di partecipare. Era molto affezionato a me, perché ero riuscito a convincerlo a tornare in Occidente e ad uscire dal Paese dopo molti anni. Nel suo ultimo scritto, che si intitola Stary puteshestvyet (il vecchio in viaggio), narra dei suoi viaggi e dei suoi incontri, citando anche i suoi viaggi in Italia e i suoi incontri con me. Si trovava in una Mosca sporca e cupa. Lui fece un’osservazione profetica, disse “Signori, voi non capite un cazzo, non vi rendete conto del fatto che avete lasciato dieci milioni di russi in Ucraina, questo bubbone prima o poi esploderà, vedrete”. Fondò il suo partito (NBP), che pian piano prese corpo, fondò Limonka, che pian piano prese piede. Un personaggio straordinario, negli Usa erano pronti a riempirlo di soldi, come facevano con tutti. Lui lavorava per Radio Svoboda e il quotidiano Novoe Russkoe Slovo. Si rifiutava di sottoscrivere petizioni contro il sanguinario regime sovietico. Criticava l’opulenza della società americana. Lui conduceva una vita molto modesta, semplice. Pubblicò un articolo contrario a quello stile di vita, e gli fu impedito di lavorare, tant’è che osservò “qual è la differenza con l’Urss?”. Lui era un asceta, con una disciplina quasi militare. Non ha mai amato il superfluo, a casa sua c’era solo l’essenziale. Quando lo invitai a Torino la prima volta, che c’erano 700 persone in fila ad attenderlo, lui rimase molto colpito da ciò, ne fu molto felice. Ci volevamo bene, e il fatto che fosse molto amichevole con me mi inorgoglisce. Uno dei suoi più grandi crucci è stato quello di non riuscire a conoscere Pasolini.
Ora tu sei un editore a tempo pieno, ma lavori anche come consulente per una serie di aziende e istituzioni.
La casa editrice è la mia prima occupazione, una passione, e spero che un giorno possa essere economicamente autosufficiente e camminare con le proprie gambe. Ci sono una serie di titoli che usciranno a breve. C’è il libro di Medinsky, dedicato all’Urss nella Seconda Guerra Mondiale. Un altro volume sul cosmismo russo, che molti ritengono essere l’unica corrente filosofica non mutuata dall’Occidente. Venne messa al bando durante l’Urss ed emerse un certo cosmismo “rosso”.
Quindi il fil rouge con il mondo russo rimane il filone tematico principale della casa editrice.
Si, la Russia e tutto il cosmo dei Paesi ex-sovietici. A breve usciranno le memorie di Yakoov Kedmi, ex capo del Nativ. Uno degli ultimi poemi della Cvetaeva, i partigiani sovietici nella resistenza italiana. Poi anche i diari del medico militare di Ataturk, che prese parte alla battaglia di Canakkale (la Gallipoli turca). A tal proposito, ho intenzione di coinvolgere gli ambasciatori di Australia e Nuova Zelanda, perché il 25 aprile di ogni anno si celebrano i caduti della battaglia di Canakkale.
Pubblicherete dei postumi di Limonov?
Sì, assolutamente. Con Limonov ci eravamo accordati per la pubblicazione di otto libri. Tra i tanti, la pubblicazione di un libro di poesie molto potenti. Avrebbe voluto venire personalmente a presentarle e declamarle. Abbiamo comunque proceduto, uscirà a breve un testo bilingue con il testo a fronte. All’interno ci sarà un mio ricordo personale di lui. Uscirà anche un testo che lo rese molto famoso, “Il poeta russo preferisce i grandi negri”.
Lo pubblicherete con questo titolo?
È un titolo molto forte, anche se non è il titolo originale. L’edizione russa si intitolava “Eto ya, Educhka” (Sono io, Eduard), che uscì in Germania col titolo “Amerika Kaputt”. Vorremmo anche fare qualcosa con una delle sue mogli, che vive a Roma.
Tu, Sandro Teti di oggi, hai nostalgia della Russia? Avresti voluto vivere tutta la tua vita lì?
Nostalgia tanta, ma non avrei voluto vivere lì tutta la vita. Ho nostalgia del cielo terso di fine giugno, delle chiacchierate infinite davanti al tè o alla vodka. Ho nostalgia del treno, sono stato due volte in treno in Urss, due volte in nave. Da Odessa c’era un servizio di linea Odessa-Venezia. Era impressionante ai tempi fare quella lunga traversata, con quegli ambienti e quelle situazioni quasi da romanzo. Ho nostalgia del treno, di quei tempi lunghi, come di quei sapori e odori che sono spariti anche nella Russia di adesso. Ho nostalgia dell’odore di quelle Papirosi (marca di sigarette, ndr), con quel tabacco di infima qualità che era diffusissimo nel Paese. Un Paese al quale sono indissolubilmente legato, e di cui continuo a studiare la storia. Rimpiango solo di essere andato là troppo giovane, senza il bagaglio esperienziale e culturale per comprendere quanto di dirompente stesse succedendo in quegli anni.
Tu che continui a frequentare la Russia, noti delle differenze col passato? La vedi migliorata?
Ci sono stati dei notevoli passi in avanti. Era anacronistico non consentire alla popolazione di recarsi all’estero; era anacronistico mantenere il Glavlit, l’organo di censura, sopprimere la libertà religiosa. Come incredibilmente riemersero dei caratteri prerivoluzionari dopo il ‘91, io vedo molti aspetti di continuità col periodo sovietico e addirittura presovietico anche nella Russia odierna. Trovo, in ambito femminile, una vera e propria rivoluzione. Oggi, girando per Mosca vedi passeggiare le ragazze con le scarpe da ginnastica, mentre nel periodo sovietico dovevano girare con i tacchi altissimi anche sul ghiaccio. Mi colpisce oggi vedere le ragazze vestite in modo casual. Al tempo questa femminilità portata al parossismo portava le donne ad eccedere nell’esasperare la propria immagine. Vedevi queste donne con le unghie lunghissime, che continuamente si specchiavano e si incipriavano il naso. C’era sicuramente un contrasto enorme tra loro e le donne italiane, che a volte sembravano occultare la propria femminilità. Era anche un tabù pronunciare le parolacce davanti alle donne. Inoltre, ai tempi c’era sicuramente molto sessismo.
Quali sono le tue passioni?
A parte la storia, ho una fortissima passione per il Toro, che mi ha trasmesso mio padre, stregato dalla squadra di Valentino Mazzola. A scuola mi prendevano in giro, perché in quegli anni erano tutti tifosi per le squadre milanesi. Io andavo allo stadio due volte l’anno e non ho mai visto un gol al Meazza.
Poi per fare i libri. Ne ho veramente parecchi nel cassetto, perfino due scritti da me. Ogni mese leggo moltissime recensioni sulle novità editoriali russe. Quando vado a Mosca trascorrono molte ore delle mie tre librerie preferite, l’immensa Dom Knigi, l’underground Falanstere e la molto fornita Biblio Globus, di fronte alla sede del FSB. Acquisto parecchi libri che poi leggo e decido se tradurre e pubblicare.
Che rapporto hai avuto con tuo padre?
Ho avuto un rapporto molto difficile. Lui era editore, un ambito che mi ha sempre molto attratto, ma non ho mai potuto instaurare un dialogo e lavorare con lui. Abbiamo avuto uno scontro ideologico e generazionale, perché fin da giovane ero stato preso dalla passione per quel sottobosco alternativo di quegli anni e molto diverso dalla rigidità del PCI. Ebbi delle frequentazioni con persone vicine agli ambienti estremisti milanesi, frequentai gli indiani metropolitani e leggevo in modo bulimico e compulsivo sia gli autori della Beat generation che testi politici rivoluzionari. Tuttavia, la mia ribellione era certamente derivata da un’epoca di contrasti generazionali non solo miei e che mio padre non riuscì mai a comprendere.
C’è un ricordo, una filosofia di vita che ti sei portato dietro?
Non sono mai stato iscritto ad alcun partito. Da adolescente sono stato un irresponsabile, sono andato via di casa tante volte, ho frequentato persone e ambienti particolari. Sono stato criticato per aver frequentato ambienti eterodossi lontani da una certa sinistra. Ho trovato molto conformismo ovunque. Ciò ha fatto cadere in me qualsiasi preconcetto, non ho pregiudizi nei confronti di nessuno. Da giovane ero categorico, fazioso ed estremista. Adesso ascolto, poi magari mando affanculo ma intanto ascolto. Vedo le cose con maggiore distacco rispetto a prima. Io ho subito un’evoluzione nella capacità di osservare dall’esterno i problemi e le situazioni e cerco di essere empatico più che tollerante, e prediligo soluzioni ibride. Oggi più che mai ne abbiamo estremamente bisogno.