Quando il 24 febbraio 2022 i carri armati russi hanno puntato dritto verso Kiev c’era chi, in Europa, già si metteva le mani nei capelli. Stefano Fantacone, direttore del think tank Centro Europa Ricerche, e Demostenes Floros, analista geopolitico, erano fra questi. La sfida aperta e irrevocabile al mondo unipolare statunitense ha portato e porterà molti cambi d’assetto nell’attuale ordine mondiale, fra tutti quello relativo all’approvvigionamento di fonti fossili e non. Gli autori di Crisi o transizione energetica? Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità ci guidano attraverso le radici di quella che si prospetta essere una delle più grandi sfide che gli stati europei dovranno attraversare. Una sfida la cui difficoltà è imputabile dall’Europa solo a sé stessa, da scelte catastrofiche adoperate decenni fa che implicavano una «disponibilità illimitata di gas a basso costo», e che è stata acuita poi dal Covid e dalle crescenti volontà europee di spostarsi sempre più verso un’energia proveniente da fonti rinnovabili. In tutto questo la situazione in Ucraina ha solamente funzionato da detonatore di una crisi i cui semi erano già ben piantati.
–Parto dal titolo, crisi o transizione energetica: delle due l’una? Oppure possiamo avere entrambe?
Ad oggi direi di no, data la situazione l’una è in conflitto con l’altra. Sono stati fatti errori di valutazione strategici su quella che doveva essere una disponibilità illimitata di energie fossili a basso costo, in particolare di gas. Oggi noi paghiamo questi errori. Quello che sosteniamo nel libro è che il percorso di transizione va riorganizzato, nessuno mette in dubbio gli obiettivi climatici, ma dobbiamo abbandonare illusioni facili sul fatto che si possa fare in breve tempo.
–Perché aumentano i prezzi del gas? Non è soltanto un’effetto della guerra in Ucraina. Il trend si osservava già nell’anno passato. Cosa c’è dietro?
La causa scatenante è la transizione energetica. Nel momento in cui India e Cina hanno accelerato verso le rinnovabili hanno altresì cominciato a esprimere un’enorme domanda di gas naturale non solo nel presente, ma anche in prospettiva futura. Questo ha permesso a chi sta dal lato dell’offerta di cominciare a riorganizzare la propria produzione in funzione di quelle aree, che sono fra l’altro quelle a maggiore crescita. Il tutto mentre l’Europa cercava di diminuire la sua domanda. Poi c’è stato il boom della domanda post-covid e dei prezzi. La guerra in Ucraina ha semplicemente fatto da detonatore a questi due fattori, traducendosi infine in una crisi del gas europea. Perché alla fine la crisi del gas è prettamente europea.
–Nel libro si menziona Enrico Mattei. Il suo più grande merito fu quello di diversificare le fonti d’approvvigionamento energetico italiane. Negli ultimi decenni sembrerebbe si sia lavorato nel senso opposto, buttandoci imprudentemente fra le braccia della Russia. Di chi è la colpa?
Di fondo c’è la scelta europea di legarsi molto, da un punto di vista energetico, alla Federazione Russa. Anche perché va ricordato che la Russia è stata un fornitore assolutamente affidabile fino allo scoppio della guerra in Ucraina. E scopriremo presto che né l’Algeria né alcun altro fornitore avrà lo stesso grado di affidabilità. Questa scelta è stata guidata molto da Berlino. Sono state costruite infrastrutture che hanno rafforzato questa dipendenza, in particolare i gasdotti Nordstream 1 e 2, che fra l’altro arrivano in Germania. A conferma che è da lì che origina tutto.
–Il libro Crisi o transizione energetica è uscito ad agosto. Sono passati diversi mesi e da allora credo che la notizia più rilevante sia stata quella del sabotaggio ai Nord-stream. Chi ci guadagna da ciò?
È una valutazione sulla quale io e il mio coautore (Demostenes Floros, ndr) abbiamo idee differenti. Una risposta immediata può essere che dietro ci sia la mano statunitense, che non ha alcun interesse affinché si ricostituisca il legame economico fra Germania e Russia. Però allo stesso tempo si può anche considerare che la Federazione Russa in questi mesi ha già manipolato molto il prezzo del gas. Quindi anche loro avrebbero avuto i loro interessi. Obiettivamente non avendo altre informazioni è difficile dire da che parte penda la bilancia.
–Il suo coautore, Demostenes Floros, ha parlato di un nuovo processo di de-industrializzazione provocato dall’attuale crisi energetica, con qualche centinaia di migliaia di lavoratori che perderanno il lavoro. Questo, ha aggiunto, è uno scenario ottimistico. Si trova d’accordo? Quale può essere invece lo scenario pessimista?
Sono d’accordo sul rischio di de-industrializzazione, non necessariamente che questo sia l’esito già scritto. È chiaro che i prezzi a cui il gas è arrivato la scorsa estate non sono prezzi sostenibili. Però va detto che dal lato prezzi si è fatto molto: si è arrivato a un price cap, stanno cambiando le piattaforme di contrattazione, si sta ridiscutendo di acquisti congiunti. Quindi sta rientrando il problema dei prezzi, pur con la consapevolezza che non torneremo mai ai prezzi del pre-2021. Questi ultimi, va detto, erano troppo bassi. Dal punto di vista della quantità di forniture l’Italia ha fatto un ottimo lavoro di diversificazione, rafforzando i rapporti con Algeria e Qatar per esempio. Ma non è detto che questi paesi possano garantire le forniture promesse anche nel futuro. Il rischio de-industrializzazione rimane, in Italia come in Germania. Come si risolve? La soluzione è l’innovazione tecnologica, ma nel frattempo è chiaro che abbiamo davanti a noi anni complicati.
–Lei ha menzionato la Germania. Loro hanno approvato un piano di aiuti da 200 miliardi, noi non abbiamo la possibilità di fare altrettanto.
Forse è vero, ma nel 2022 abbiamo già stanziato 60 miliardi contro gli effetti della crisi energetica. E abbiamo maggiore possibilità di diversificazione delle forniture, essendo noi affacciati sul Mediterraneo. Questo ci rimanda a Mattei e a determinate politiche che l’Italia ha già adoperato e che sarebbe il caso tornasse a fare. La Germania non ha questa possibilità, è molto più dipendente dalla Russia. Ha un modello manifatturiero che è costruito su un’ipotesi di disponibilità illimitata di gas a basso costo. È comunque un sistema di dimensioni molto più grandi di quello italiano e quindi anche meno flessibile. Certo, loro hanno maggiori disponibilità di bilancio, però ecco si tratta di tamponamenti momentanei posti a una situazione di crisi. Il problema di sostituire le forniture russe rimane anche per la Germania.
–A proposito della transizione energetica le faccio una domanda forse troppo diretta: chi la pagherà?
Questa è una domanda che è giusto porsi e che non viene posta con dovuta attenzione. L’Agenzia Internazionale per l’Energia calcolava che, a causa di una diminuzione della domanda, la spesa mondiale per l’energia fossile sarebbe diminuita di circa 50 trilioni di dollari. L’idea di fondo era che questo risparmio sarebbe stata la fonte da cui finanziare gli investimenti per l’energia pulita e i relativi minerali necessari. Io e Floros abbiamo fatto un semplice ricalcolo coi nuovi prezzi delle fonti fossili da cui si evince che questa fonte di finanziamento si è già dimezzata. Questo è un problema aperto, l’auspicio è che si arrivi a una soluzione comune. Purtroppo non se ne parla abbastanza.
–Secondo lei significa qualcosa la rinomina, o per meglio dire il ripristino, del nome “ministero dell’ambiente” in luogo di quel ministero della transizione ecologica che avevamo conosciuto negli ultimi due anni?
Una delle tesi che sosteniamo nel libro è che sarebbe assolutamente irresponsabile pensare a una transizione ecologica senza una sicurezza energetica nazionale. Quindi il fatto che adesso il ministero abbia ripreso la sua vecchia denominazione può essere vista come una presa di coscienza utile. Certe posizioni ecologiste sono troppo estreme e non tengono conto dei costi.
–Nelle conclusioni del libro lei si augura e prospetta un ritorno al carbone. Pensa sarà questa la direzione in cui spingerà il governo Meloni da un punto di vista di approvvigionamento interno immediato?
Le centrali a carbone sono già state riportate, o comunque torneranno, a pieno regime. Non credo ci sia spazio per impiantare nuove centrali a carbone. Forse si può spingere sul nucleare, in molti nella maggioranza sono favorevoli, però non so se sarà possibile alla fine.
–Secondo lei oggi l’Europa è in guerra?
Sicuramente quello che sta succedendo non è negli interessi europei. Sicuramente è prevalente un conflitto fra le grandi potenze. Non siamo ancora materialmente in guerra, anzi speriamo di non entrarci mai. Detto ciò, è dal 1945 che l’Europa non era così vicina a una guerra. Speriamo la situazione migliori, ma credo sia giusto considerare la situazione attuale, se non una situazione bellica, quantomeno parabellica. Forse si potrebbe chiedere agli Stati Uniti di prendere maggiormente in considerazione gli interessi europei.