I fenomeni inflazionistici non sono certo una novità, ciclicamente le economie di tutto il mondo si trovano a fare i conti con l’aumento continuo e prolungato dei prezzi, e alla conseguente diminuzione di potere di acquisto della moneta locale. Negli ultimi due anni, i livelli di inflazione hanno però raggiunto picchi che non si vedevano da decenni, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Vi sono molte concause che hanno contributo a questo vertiginoso aumento dei prezzi, ma i principali fattori scatenanti sono sostanzialmente due, la pandemia con il susseguirsi di chiusure e riaperture, e il conflitto tra Russia e Ucraina. L’individuazione delle cause principali non ha comunque impedito al mondo accademico e agli economisti di aprire un dibattito, a volte anche molto aspro, sulla natura del fenomeno e sui possibili rimedi.
Vi è chi sostiene che l’aumento dei prezzi sia dovuto ad un eccesso di domanda, legato sostanzialmente all’aumento della spesa pubblica, ritenuta eccessiva e poco mirata, che quasi tutte le Nazioni del mondo hanno implementato per combattere gli effetti della pandemia, evitare una depressione economica e provare a tutelare le fasce di popolazione più esposte. Altri invece si focalizzano sul lato dell’offerta o meglio della mancanza di produzione dovuta alla carenza di materie prime, che ha reso più difficile o semplicemente molto più caro, l’arrivo sul mercato di tanti prodotti. La differenza di vedute è sostanziale in quanto mentre è sicuramente possibile che vi sia una combinazione di questi fattori, la teoria economica fornisce risposte diverse in base alla causa dominante. Nel caso di un eccesso di domanda, allora una politica monetaria restrittiva, con l’aumento dei tassi di interesse da parte delle banche centrali, può essere la soluzione corretta. Se al contrario ci troviamo davanti ad una contrazione dell’offerta, allora la risposta deve essere molto più articolata con misure di politica fiscale che provino ad attenuare le problematiche relative alla carenza di determinati prodotti sul mercato. Ed è qui che iniziano i problemi, grossi e non semplicemente risolvibili.
Nonostante le evidenze empiriche sembrino mostrare come i livelli di domanda non siano affatto aumentati ed il problema inflattivo sia causato principalmente da contrazioni nelle forniture, quelli che vengono definiti tecnicamente come shock dal lato dell’offerta, si è scelto comunque di agire solo ed esclusivamente attraverso la politica monetaria. Le banche centrali di tutto il mondo, o quasi, si sono messe ad alzare i tassi in maniera decisa, rapida e costante, con l’obiettivo di ridurre l’inflazione ma anche con il rischio concreto di causare un peggioramento della già precaria situazione economica, aumentando il tasso di disoccupazione e agendo negativamente sulla distribuzione dei redditi. I tassi di interesse sono stati per lungo tempo estremamente bassi o nulli, come risposta alla grande crisi finanziaria del 2008, e il costo del capitale non dovrebbe essere zero, o ancora peggio negativo. È indubbio quindi che un ritorno alla normalità è stato visto da tutti come un evento positivo e in qualche modo necessario. Ma andare oltre ad un certo livello di tassi può diventare estremamente pericoloso.
Gli economisti tendono da sempre a focalizzarsi sui trade-offs, bilanciando vantaggi e svantaggi. In questo caso i benefici di una politica monetaria restrittiva al fine di ridurre l’inflazione contro i costi in termini di una disoccupazione più elevata. Come ha recentemente affermato il presidente della banca centrale americana Jerome Powell «sfortunatamente il costo per ridurre l’inflazione si tradurrà in sofferenza per cittadini e imprese». Ma mentre i benefici potrebbero rivelarsi effimeri, almeno nel breve periodo, le sofferenze saranno tangibili e reali, e non verranno nemmeno equamente distribuite. Comprimere la domanda aggregata è il meccanismo primario su cui si basa la lotta all’inflazione attraverso lo strumento dell’innalzamento dei tassi di interesse. Investimenti e consumi andranno inevitabilmente a ridursi, e di conseguenza anche la produzione ed il numero di occupati, ma il prezzo più alto lo pagheranno inevitabilmente le fasce più deboli. Precari, lavoratori poco qualificati, persone con un basso livello di istruzione, rischiano seriamente di essere le prime vittime di questo modo di combattere l’inflazione. Appare chiaro come affidarsi esclusivamente alla politica monetaria rischia di aprire le porte ad una recessione, la cui entità è difficilmente prevedibile.
Per contrastare i problemi del lato dell’offerta, come le catene di approvvigionamento interrotte, servirebbero azioni e politiche che li affrontino in maniera diretta, e che possibilmente diano risultati in tempo rapido. Politiche fiscali ed altri interventi governativi sarebbero probabilmente molto più efficaci nel contrastare questo tipo di inflazione rispetto alla politica monetaria. Si potrebbe ad esempio provare a calmierare il prezzo dell’energia, come azione di breve termine, per poi pensare al lungo termine agevolando il passaggio alle rinnovabili con una serie di incentivi fiscali importanti. Si dovrebbero contrastare le situazioni di monopolio o quanto meno provare a ridurre l’abuso di potere che alcune compagnie possono esercitare sul mercato in virtù del loro dominio. Allo stesso modo si dovrebbe garantire l’occupazione, senza scomodare lo «Stato prestatore di lavoro di ultima istanza» tanto caro a Federico Caffè, vi sono molti modi per creare lavori socialmente utili in grado di assorbire parte della forza lavoro che si troverà inevitabilmente senza impiego. Non guasterebbero di certo altre note misure di politica industriale come la concessione di prestiti agevolati o garantiti dallo Stato.
Quando poi vi sono situazioni in cui gli aumenti di prezzo sono legati all’esercizio, quando non all’abuso, del potere di mercato, uno strumento importante e mirato può essere quello della tassazione. Ad esempio un’imposta temporanea sugli utili straordinari ottenuti dalle compagnie che forniscono energia, spesso a scapito dei comuni cittadini. Si potrebbero così raccogliere fondi per affrontare l’aumento delle disuguaglianze causato dall’inflazione e per consentire investimenti che potrebbero alleviare alcune carenze di approvvigionamento, o ancora per finanziare progetti tendenti ad ampliare l’offerta di energia in maniera rapida e possibilmente ecologica. Ma tutto questo risulta in contrasto con la teoria economica dominante, che tende a ridurre sempre di più le possibilità di intervento dello Stato, e a far “lavorare” il mercato. Il mondo occidentale ha così scelto di affidarsi quasi esclusivamente alla politica monetaria ignorando i rischi associati ad un incremento troppo veloce e troppo intenso dei tassi. Intendiamoci, inutile colpevolizzare Christine Lagarde o lo stesso Powell, il mandato delle moderne banche centrali, indipendenti e almeno teoricamente slegate dal potere centrale di uno Stato, è quello di avvicinarsi ad un dato obiettivo di inflazione, e non quello di evitare una recessione, che dovrebbe essere invece compito della politica economica.
Una delle cose peggiori nell’essere un banchiere centrale è avere la consapevolezza che qualsiasi cosa si faccia è molto probabile che si commettano errori. Ma allo stesso tempo occorre difendere le proprie azioni e assicurare che tutto sia sotto controllo per mantenere una certa autorevolezza e per dare conforto ai mercati. Malauguratamente, anche in condizioni normali, non vi è alcuna certezza sui tempi e sui modi in cui un dato rialzo dei tassi andrà a calmierare i prezzi, figuriamoci in una situazione senza precedenti come quella che stiamo vivendo. Potremmo così assistere ad una situazione in cui la stretta monetaria produrrà effetti quando non ve ne sarà più bisogno, causando una recessione nel momento in cui invece l’economia avrebbe bisogno di stimoli.
Vi è poi un ulteriore scenario a cui in parte stiamo già assistendo. Se l’inflazione non scenderà in maniera rapida come purtroppo è molto probabile, la spinta dei media e di parte dell’opinione pubblica forzerà la mano ai banchieri centrali, che potrebbero continuare ad alzare i tassi ben oltre il necessario. Il rischio è che seguendo modelli quanto meno dubbi, finiranno per comportarsi come quei curatori medioevali che praticavano il salasso, ovvero il prelievo di sangue forzato dai malati. Se come ovvio il malato non migliorava, continuavano a togliere quantità sempre maggiori di sangue causando al paziente continui peggioramenti e nei casi peggiori il decesso. Come ha sempre ricordato Keynes, qualsiasi azione di politica economica è condotta in presenza di elevati livelli di incertezza, ed agli attori non resta che prendere decisioni in base a valutazioni equilibrate ma inevitabilmente soggettive. Troppo spesso però ci si affida a modelli adattati a situazioni passate con circostanze molto diverse, senza analizzare in profondità i rischi delle diverse azioni e la molteplicità dei costi a carico dei vari segmenti della società. Vero che queste analisi possono portare, proprio per la loro soggettività, a conclusioni diverse o addirittura opposte tra loro.
Basti pensare che Nouriel Roubini, uno dei pochi economisti a predire la recessione del 2008, afferma con sicurezza che gli alti tassi di interesse porteranno ad una delle peggiori crisi economiche della storia. Mentre il team di economisti di uno dei più grandi gestori di patrimoni al mondo, il Fondo Elliot continua a ribadire che i tassi sono ancora troppo bassi, e ci avviamo verso una potenziale iperinflazione che potrebbe portare ad un “collasso sociale”. Non sappiamo con certezza cosa ci riserverà il futuro, sicuramente non sarà un periodo in cui le decisioni saranno prese alla leggera. Probabilmente il detto anglosassone Damned if i do, Damned if i don’t risuonerà sempre più forte nella mente di politici e banchieri centrali.