Aurelio Peccei e Alexander King organizzarono il primo incontro a Roma, tra il 6 e il 7 aprile del 1968. Il dirigente industriale torinese e lo scienziato britannico avevano già intuito il garbuglio dei problemi, stretti attorno all’uomo. La tecnica, dono splendido di Pandora. L’equilibrio neolitico, rotto dalla Rivoluzione Industriale. Quindi, le curve esponenziali della crescita. Corso di una problematica o malpasso dell’umanità, da studiare come sistema complesso e globale. Tanto che all’Accademia dei Lincei, i luminari invitati favorirono gli spaghetti, il vino di Frascati, i propri specialismi. E forse lo humor di King: «Questo meeting è stato un monumentale fiasco» (Aurelio Peccei, La qualità umana). L’anno successivo, tuttavia, fu la volta di Alpbach e dell’esclusivo Collegio Austriaco. Il cancelliere Josef Klaus mostrò interesse. Peccei conobbe alcuni scienziati, incuriositi dalla problematica. E soprattutto, spiccò l’idea di studiare la complessità globale attraverso i modelli matematici. Poco dopo sarebbe nato il Club di Roma, come associazione civile nel Cantone di Ginevra.
Tra i primi membri, l’ingegnere britannico Dennis Gabor, il manager svizzero Hugo Thiemann, il biologo etiope Aklilu Lemma, il sociologo marxista polacco Adam Shaff, il senatore americano Claiborne Pell, il manager italiano Umberto Colombo, il botanico egiziano Mohamed Kassas, l’architetto giapponese Kenzō Tange. Evidentemente lontani da propositi di unanimità politica, ideologica o culturale. Comunque, la svolta attese un anno.
Jay Wright Forrester, ingegnere e docente del Massachusetts Institute of Technology, partecipò alla riunione del 1970 e propose di realizzare il primo modello matematico-informatico globale, secondo le tecniche della dinamica dei sistemi, affidando il perfezionamento dei prototipi al suo assistente Dennis Meadows. Presto, le equazioni non lineari di World 3 avrebbero proiettato le dinamiche fondamentali di popolazione, capitale industriale, disponibilità di risorse naturali, produzione alimentare e inquinamento, nelle loro interazioni reciproche, verso il 2100.
Dopo l’esposizione dei risultati scientifici a Mosca e Rio de Janeiro, il primo marzo 1972, lo Smithsonian Institution di Washington ospitò la presentazione di Limits to growth (I Limiti alla crescita, Lu::ce edizioni, 2018). Tra i libri più influenti del secondo Novecento. Decisivo per l’affermazione, del nascente movimento ambientalista.
Fondamentalmente, il testo espose dodici scenari, rispondenti a diverse possibili scelte umane. L’osservazione degli estremi: prosecuzione degli affari come al solito, avvento del migliore ottimismo tecnologico, permette una buona sintesi.
Nell’esperimento dei soliti affari, le cinque dinamiche fondamentali toccano un apice di crescita nella seconda metà del XXI secolo. Poi il collasso: popolazione numerosa, inquinamento, crisi alimentare, risorse tanto care da impedire l’investimento industriale necessario, aumento della mortalità, caduta dell’indice dei servizi pro capite disponibili.
Nell’esperimento tecnologico invece, gli studiosi controllarono le nascite, ridussero ad un quarto l’inquinamento per unità di prodotto, raddoppiarono la produzione agricola, sovrastimarono risorse, riciclo e disponibilità energetica. Ma il collasso giunse comunque, soltanto un po’ più tardi: l’aumento della produzione vanifica i benefici tecnologici.
Occorse limitare la crescita di popolazione e capitale industriale, per ottenere uno stato di equilibrio desiderabile. Pertanto, il primo Rapporto al Club di Roma affermò l’insufficienza della tecnologia, a risolvere la problematica; assieme all’impossibilità che un pianeta fisicamente limitato ospitasse la crescita infinita. Vecchia, la riflessione sulla tecnica. Nuova, la previsione economica.
Di rigore, la crescita impossibile risultava quella dell’impronta materiale umana sul pianeta. Rispondente – nell’esperienza storica effettiva – alla crescita del Pil.
Pertanto, i Limiti lasciarono spazio all’auspicata crescita dei Paesi poveri; a cure sociali diverse dallo sviluppo economico; ad aziende e settori in espansioni o contrazioni di somma zero; nonché all’ipotesi teorica di una crescita monetaria del valore, dissociata dalla produzione materiale con le sue conseguenze.
Certo, la ricezione fu meno sottile, discutendo soprattutto la crescita del pil, tradizionalmente intesa. Probabilmente a ragione.
Intanto, il libro divenne testo universitario, fu tradotto, vendette milioni di copie. Plauso e consenso ignorarono lo spartiacque politico canonico, della destra e della sinistra.
Nel febbraio del 1974, Peccei raccolse a Salisburgo, il cancelliere austriaco Bruno Kreisky, il presidente senegalese Léopold Senghor, quello messicano Luis Echeverría, i primi ministri di Svezia, Canada, Olanda, assieme a diversi rappresentanti personali e membri del Club di Roma, per discutere in forma privata. E nel 1975, un incontro simile fu organizzato a Guanajuato.
Un think tank molto influente che influì poco. Superata la crisi petrolifera del 1973, l’impresa della crescita proseguì con rinnovato entusiasmo. Giunse il neoliberismo. Ronald Regan risolse esplicitamente la problematica: «Non ci sono limiti alla crescita e al progresso umano, quando gli uomini e le donne sono liberi di seguire i propri sogni».
I successivi rapporti al Club di Roma trovarono minor fortuna. Fino all’ultimo Earth4All (Una terra per tutti, Edizioni Ambiente, 2022) che richiama il cinquantennio dei Limiti, privilegiando la narrazione divulgativa, dalla vaga tinta politicamente corretta, rispetto alla modellistica.
Non di meno, cinquant’anni dopo, il paragone con le tendenze registrate ha confermato la buona capacità predittiva di World 3. Mentre il cambiamento climatico scalda la problematica. E la tendenza economica raffredda il pil. A partire dalle economie avanzate, segnate da una stagnazione demografica e produttiva.
Per quanto, anche le curve globali figurino una seconda metà di secolo con meno lavoratori e meno ore lavorate, mantenendo poco più che costante il valore generato nel tempo di impiego (Jorgen Randers, 2052: Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2013). Dai primi anni Settanta ad oggi, la fecondità media globale è passata 4.5 a 2.3 figli per donna; quando 2.1 rappresenta la popolazione stabile. Un lungo termine con meno Pil – cui il welfare dovrà adattarsi – ancora fuori dall’orizzonte politico.
Con ogni probabilità i governi tenteranno di continuare la crescita con le sue esternalità materiali, più a lungo possibile. Sebbene, nelle economie avanzate, sempre più spesso, la crescita avvantaggi soltanto chi è già ricco. Ovvero, il trickle-down ha finito di sgocciolare.
Così, il riscaldamento climatico mantiene al centro dell’attualità politico-mediatica, sia la problematica, sia la crescita. Strette assieme. La pubblicità vende espressioni vaghe quali “sviluppo sostenibile” o “crescita verde”, ormai abusate e mal distinguibili dalla banale crescita del Pil. Onu, Ocse, Banca Mondiale, Unione Europea preferiscono il decoupling, disaccoppiamento. Ad esempio, il Green Deal europeo del 2019, esplicita l’obiettivo di una crescita “dissociata dall’uso delle risorse” e soprattutto dalle emissioni climalteranti. Possibilità teorica non esclusa dai Limiti. Quanto meno, la nozione del disaccoppiamento è chiara e permette una verifica.
Gli studi sul tema scoraggiano la prospettiva di un disaccoppiamento sufficiente a mantenere il clima stabile, tanto equo da liberare quote di emissione per i Paesi poveri, permanente e assoluto. Ad esempio, negli Stati Uniti, la sostituzione del gas di scisto al carbone rese possibile individuare alcuni archi temporali: 2000-2001, 2005-2006 e 2010-2012, caratterizzati da crescita del Pil e calo delle emissioni. Un miglioramento destinato ad assumere valori irrilevanti, considerando l’intervallo 2000-2014; quindi a sparire del tutto. O nell’Unione Europea, dove nel periodo 2007-2015, il Pil è aumentato e le emissioni sono diminuite, al ritmo annuo dell’1%. Un miglioramento che “beneficiò” della crisi economica del 2007 e non calcolò le emissioni dei trasporti. I soli aerei bastano ad annullarlo. Senza contare gli studi che viziano i Paesi ricchi, attribuendo le emissioni delle merci al luogo di produzione, anziché a quello di consumo.
Infatti, il parametro dell’impronta ecologica europea cresce. E la discussione sulla problematica continua. Dal 15 al 17 maggio 2023, il Parlamento Europeo ha ospitato la conferenza Beyond Growth, con il Club di Roma tra i partner organizzatori.
Sandrine Dixson-Declève, co-presidente del Club di Roma, Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea, Roberta Metsola, presidente del Parlamento Europeo, hanno partecipato alla sessione inaugurale. Prevedibilmente, gli interventi di Metsola e Von der Leyen superano gli idrocarburi verso l’energia rinnovabile ma non l’ottimismo tecnologico (auto elettrica e idrogeno verde), né la volontà di crescita sostenibile; all’interno del modello corrente.
Dixson-Declève punta l’oltre con più decisione, la causa principale della policrisi contemporanea è l’ossessione politico-mediatica per la crescita del Pil, l’unica tecnologia in grado di risolvere la problematica sarebbe una macchina del tempo per tornare indietro di cinquant’anni e cominciare la virata quando i limiti del pianeta mettevano poca fretta e le persone non avevano bisogno di crescita ma di benessere.
Contestualmente alla conferenza il Servizio di Ricerca del Parlamento Europeo ha pubblicato lo studio omonimo, Beyond growth, status questionis sul tema. Individuando l’ostacolo alle prospettive di un’economia europea oltre la crescita, nel Trattato di Lisbona con la sua oscillazione tra economia di mercato aperto ed economia sociale di mercato. Qui e ora, l’una. Nell’oltre, l’altra.