L’unico motivo per cui il lettore italiano potrebbe interessarsi di George Blake, triplo agente sovietico morto il 26 dicembre scorso, è che servì a Milano facendo la spola tra Vienna e il Cairo a metà anni Cinquanta. Ma anche così saremmo troppo distanti da quegli anni Cinquanta in cui un trentenne aveva desiderato diventare ministro della Chiesa riformata olandese, aveva servito in guerra nella Royal Navy ricollegata per tradizione da fine Ottocento coi Servizi esteri, e infine era stato appointed in Nord Corea perché il russo ormai era un’acquisizione di Cambridge.
Al netto della connessione globale e delle distanze annichilite dai social, siamo ancora troppo distanti da questo scenario di gente che si muoveva da un continente all’altro con tranquillità. Eppure è una storia interessante da ripercorrere . Il padre di Blake era ebreo egiziano risiedente a Rotterdam, un Behar.
Il nostro George nasce nel 1922 e ha questo nome in onore di re Giorgio V d’Inghilterra. In seguito all’occupazione tedesca dell’Olanda espatria in Inghilterra. La madre si risposerà cambiando il cognome suo e quello dei figli in onore del nuovo marito, Blake.
Qui c’è il passaggio obbligato, lo studio delle lingue. Il russo è la frontiera naturale e dopo Cambridge Blake è a Seoul come doppio agente: non si tratta più di interrogare i tedeschi come aveva fatto ad Amburgo, tra un corso e l’altro. Questa volta la storia è più coinvolgente perché un doppio agente si divide interamente tra una parte e l’altra. Ma non come la levetta della luce ON/OFF. La sua situazione personale ricorda più un’onda: ecco la prima, è inglese e assale la spiaggia-Blake, poi c’è un vortice poco sotto la superficie e l’onda successiva parla russo. In questo contesto Blake ha poco più di trent’anni, cede alla tentazione: non è abbastanza inglese per credere alla madrepatria fino in fondo. Se si chiede quanto a lungo posso difendere una democrazia che valga la pena difendere? non può più darsi tempo. Passa all’URSS.
Per l’Inghilterra che lo manda da Seoul a Berlino Blake è ancora un doppio agente, per i Russi è triplo agente. La guerra di Corea l’ha cambiato profondamente e quando , nel 1955, esce L’americano tranquillo di Graham Greene, che esprime ombre e miserie del capitalismo esportato nel sudest asiatico dieci anni prima del Vietnam, Blake non può lasciarsene impressionare. Ha già visto di che cosa scrive il romanziere. A questo punto incomincia il gioco al massacro, perché quando passa le identità degli agenti inglesi ai russi sotto il Muro i fogli crescono in pila sul tavolo dei sovietici. Questo fino al 1961: scoperto da un informatore polacco, gli viene comminata una pena al carcere di 42 anni. Ma dopo cinque anni riesce a evadere con l’aiuto di una cosiddetta organizzazione inglese di diritti umani, chiaramente un baratto interessante coi gemelli di oltre-cortina.
Da allora è calato il sipario sulla vita in Unione Sovietica di Blake: sporadiche, lunghe interviste con emittenti inglesi o americane fino a vent’anni fa. Una foto lo mostra, decisamente sovrappensiero, nel cortile di una dacia insieme a Philby, il suo degno precursore. Segue un silenzio remoto dalla Russia sino allo scorso 26 dicembre quando se n’andato, boia cieco, centenario, tra l’inconsistenza e il disinteresse del mondo. I riconoscimenti di Putin hanno rimarcato soltanto il distacco tra l’uomo e un mito che non esisteva più. A volte penso che la fantasia faccia la sua parte nelle vite delle persone.
In un lavoro modesto ma utile sul traditore inglese per antonomasia, Kim Philby, si legge che Guy Burgess, uno dei suoi sodali del Cambridge Five, si rifugiò in URSS lasciando nell’appartamento londinese il più completo disordine: fuga precipitosa, non ci fu tempo per niente. C’era, aperto, un libro di Auden. La notizia nuda e cruda si trova ne Il caso Philby di Page, Leitch e Knightley. E se incominciate a leggere Auden troverete questa tra le sue poesie giovanili:
Un controllo dei pass era, lo vide, la chiave
A questo nuovo distretto, ma chi ci sarebbe arrivato?
Lui, la spia addestrata, era entrato nella trappola
Per una guida smaliziata, sedotto dai vecchi trucchi.
A Greenhearth c’era un posto carino con una diga
E dell’energia a buon mercato, se solo avessero portato
La ferrovia un po’ più vicino. Non conoscevano la sua rete senza fili:
I ponti non ancora costruiti e il pericolo imminente.
La musica in strada sembrava carina adesso a uno
Che per settimane erano stato nel deserto. Svegliato dall’acqua
Che scorreva nel buio, spesso aveva punito la notte
Per una compagnia che riusciva solo a sognare. Avrebbero sparato, certo,
separando con facilità due che mai furono uniti.
Nella prima stesura Auden aveva calibrato l’ultimo verso in modo assoluto: separando con facilità chi non fu mai unito (Parting easily who were never joined). Suonava letterario, un rifacimento di Byron che danteggia: Questi, che mai da me non fia diviso diventato He, who from me can be divided ne’er. Allora Auden svirgola, semplifica e diventa se stesso: semplice e profondo. La soluzione finale è Parting easily two that were never joined. È il destino comune a tutti, non solo al Secret agent di una vecchia poesia giovanile: nessuno sente lo sparo, la spia muore ufficialmente da sola.