In questo pezzo intendo mostrare:
a) un esempio di repubblica di scrittori che non gioca al cerchiobottismo dei reciproci elogi e si impegna invece a salvare un diplomatico dalla pena capitale;
b) un esempio vero di poesia civile, dopo lo scempio che è toccato sentire all’insediamento di Biden.
Andiamo con ordine. La petizione in questione è firmata da 39 autori nel 1916 quando si trattava dell’imminente impiccagione del diplomatico irlandese Roger Casement. L’uomo aveva una carriera onorata alle spalle: da cinquantenne poteva vantare di aver risanato la situazione di sfruttamento in Congo e Perù, oltre a una certa attività da agente provocatore in Germania nel 1915. Non era precisamente l’anno migliore per chiedere l’appoggio tedesco in funzione dell’indipendenza irlandese. Ecco, Casement fu giustiziato per tradimento in quanto irlandese agente ai danni dell’Impero che pure aveva servito. Come contromossa, la repubblica dei letterati per una volta si unisce sotto Conan Doyle e racimola l’ebreo Zangwill, un altro scozzese – James Frazer padre dell’antropologia – e poi altri del calibro di Chesterton, Bennet e Galsworthy. Il testo della lettera aperta indirizzata al primo ministro di allora si trova qui.
Come prima mossa retorica, Conan Doyle chiede scusa per le confessioni tardive di tradimento da parte di Casement, adducendo a pretesto gli spossanti interrogatori che ha subito. In seconda battuta, fa notare che l’esecuzione di Casement farebbe il gioco della Germania gettando una luce sfavorevole sul Regno Unito agli occhi degli Stati Uniti (ormai indispensabili in quel giro d’anni). E di qui si infila a indicare gli Stati Uniti come modello da seguire. Conan Doyle scatta con un passaggio notevole prima di chiudere: “Con rispetto vorremmo farle notare la lezione che ci hanno dato gli Stati Uniti alla conclusione della loro Guerra Civile. I leader del Sud furono interamente tra le mani di quelli del Nord. Molti di loro erano ufficiali politici e dell’esercito che avevano giurato fedeltà alle leggi degli Stati Uniti e in seguito avevano imbracciato le armi infliggendo enormi danni alla madrepatria. Nondimeno nessuno di costoro fu giustiziato e questa politica di clemenza ottenne risultati così lieti che una ferita che poteva sembrare irreparabile si è in seguito rimarginata. Sentendoci noi stessi convinti della saggezza di questa politica ci troviamo obbligati ad avvicinarci a lei con questa petizione, sperando che vi possiate trovare d’accordo con le considerazioni che vi abbiamo porto”.
Non c’è che dire, una volta si facevano le cose a modo. Anche se poi il risultato finale non cambia, e la politica asfalta tutto. O quasi. Perché Casement non è mai scomparso definitivamente: per Yeats si meritava almeno una poesia in cui appare come fantasma, e un’altra bellissima che traduco qui sotto.
Nell’anno della sua esecuzione, in quel 1916, scorre sangue per le strade di Dublino. Yeats scrive una poesia dove appare tra altri martiri che conversano da ossa ad ossa anche Casement. Vent’ anni dopo gli dedica ancora tre poesie: una straniante, Il fantasma di Casement, dove il martire compare come spettro a bussare alla porta di John Bull, cioè del gradasso inglese per antonomasia. È una danza funebre e ironica. Poi c’è la poesia sentimentale, La galleria municipale rivisitata:
Intorno a me le immagini di trent’anni:
Un’imboscata; pellegrini in riva al fiume;
Casement a giudizio mezzo coperto dalle sbarre,
Sorvegliato (….) Questa non è dico
La morta Irlanda della mia gioventù, ma un’Irlanda
Che i poeti hanno immaginato, terribile e felice.
Davanti a un ritratto di signora mi fermo all’improvviso,
Meravigliosa e gentile in un modo veneziano.
La incontrai appena cinquant’anni fa
Per venti minuti in un qualche studio.
È molto buona, quasi eccellente con quelle sue rime alternate nell’originale. E poi l’incrocio di piani, tra elegia privata e collettiva… Poi c’è forse la più toccante, perché più trattenuta e civile. L’ego del poeta qui si asciuga e scompare, risultando tanto più pervasivo. Yeats la lesse nella trasmissione radio dalla BBC nel 1937. Ecco il testo:
Dico che Roger Casement
Fece quel che doveva fare.
Morì sul patibolo,
Vecchia storia, non vi pare.
Timorosi di non farcela
Mentre stavano lì a far la consulenza,
Hanno fatto col falso un trucco
Sbarrando in nero il suo nome.
C’era uno spergiuro già pronto,
Sul falso come autentico doveva giurare;
Lo diedero in pasto al mondo,
Vecchia storia, non vi pare.
Ché Spring Rice doveva
Solo fare un sussurro, come ambasciatore,
E poi era il turno degli speaker per radio
E degli scrittori il tormentone.
Venite Tom e ***, venite truppa
Che piangevate in lungo e in largo,
Venite via dal falsario e dal suo tavolo,
Allo spergiuro non mostrate il fianco;
Venite a dire il poco che sapete in pubblico,
Andrà pur elogiato
Il più galante dei gentiluomini
Che nella calce è stato affossato.
Ora si capisce perché nemmeno l’autore del testo riusciva a trasmetterlo emotivamente per radio, e scriveva sconfortato agli amici che dopo l’esperienza in BBC “è possibile che tutto quel che ritengo nobile e commovente nel discorso è in realtà impossibile. Forse il mio pacchetto da mago poeta è tutto inutile”. C’è troppo di se stesso lì dentro. Va riconosciuto che Yeats non dice quelle parole da pusillanime, da giovane baldanzoso che sa di valere e fa finta di no: lo dice da settantenne, due anni prima di morire.
A proposito di popoli. In un resoconto parlamentare inglese del 1961, quando si discuteva sulla possibilità di dare una nuova e degna sepoltura a Casement, un gallese laburista fece notare che il gesto andava compiuto come concessione agli irlandesi che sono “religiosi, pii, sentimentali e a modo loro romantici”. Anche qui si tratta di oratoria coi controfiocchi e Casement viene paragonato ad altri traditori come George Washington che “non fu giustiziato per alto tradimento semplicemente perché le forze di re Giorgio non riuscirono a catturarlo; e oggi siamo molto lieti di ciò”. Niente da fare, tutta classe. Solo nel 1965 Casement ebbe i suoi funerali patriottici.
Chi vuole avvicinarsi a Casement col cuore in mano e grondante miele umanitario può leggere il suo Rapporto sul Congo mentre chi preferisce lasciarsi turbare dagli avvenimenti dovrebbe vedere il romanzo nobelistico di Vargas Llosa (Il sogno del Celta). È un romanzo epico, a tratti poetico al modo latinoamericano, sulla vita di Casement: un ritratto autentico o, almeno, a tutto tondo dell’uomo e della sua vita interiore. Era un Vargas Llosa del 2010, molto onesto e più godibile rispetto a quello che da Crocevia in poi tornerà a giocare con le spie e i colpi di stato sudamericani.
Quasi dimenticavo. Tra gli scrittori che non firmarono la petizione per Casement c’era un certo Joseph Conrad. Eppure i due si erano incontrati amichevolmente in Congo. Si possono trovare cause psicologiche per spiegare il rifiuto di Conrad, ad esempio il fatto che il suo primo figlio stava combattendo sul fronte contro i tedeschi e il tradimento dell’irlandese era ingiustificabile. Ma in fondo Conrad non riusciva a capire come ci si potesse battere per il Congo, come faceva Casement. Le lettere private di Conrad sono lì a dimostrarlo: “L’idea democratica è un fantasma molto grazioso e l’inseguirla può essere un bello sport, ma confesso di non vedere quali mali sia destinata a riparare… Francamente, che ne direste del tentativo di promuovere la fraternità fra persone che abitano nella medesima strada, per non parlare nemmeno di due strade adiacenti? Le due estremità della medesima strada” (8 febbraio 1899).
Qui c’è tutto Conrad: l’uomo che ha scrutato il cuore di tenebra non crede più possibile stare in piedi tra le macerie prodotte dall’impero inglese, e se si può giustiziare una spia – uno in meno.
Andrea Bianchi