La tensione latente tra Israele e Iran ha conosciuto una nuova, drammatica fiammata. Ma contrariamente a quanto temuto per anni da analisti e governi occidentali, non si è trattato di una guerra totale. Nessuna truppa ha varcato confini, nessuna città è stata occupata, nessun governo è crollato. La guerra è rimasta sospesa in cielo: uno scontro dove il suolo è simbolicamente intatto, ma il cielo è teatro di fuoco.
Quella che stiamo vivendo non è una guerra convenzionale, né un conflitto cyber puro. È una guerra anapoliké – come definita da Filippo Sardella, Direttore dello IARI – sospesa, verticale, immateriale nel suo aspetto fisico ma concretissima nelle sue conseguenze psicologiche e strategiche. Non c’è occupazione, ma c’è panico. Non c’è invasione, ma c’è vulnerabilità. Non ci sono prigionieri, ma ci sono vittime selettive e messaggi mirati.
Questa nuova forma di guerra “verticale” – come alcuni teorici iniziano a chiamarla – ha almeno tre vantaggi strategici per i suoi protagonisti. Nessuna cattura, nessuna body bag: le operazioni aeree evitano il rischio politico e morale del rimpatrio di soldati caduti o catturati. Controllo chirurgico dei bersagli: droni armati, muniti di sensori ottici, consentono colpi precisi e selettivi. Elasticità politica: l’assenza di un fronte terrestre rende il conflitto facilmente arrestabile, senza dover affrontare il fardello di un’occupazione o di un ritiro.
Tuttavia, questa “pulizia” apparente nasconde un insidioso effetto collaterale: la normalizzazione della guerra. L’assuefazione all’attacco selettivo e al bombardamento a distanza rende il conflitto più facile da sostenere, più accettabile per l’opinione pubblica, e perciò più probabile.
L’attacco israeliano del 7 giugno 2025, con il bombardamento di siti petroliferi e logistici nei pressi di Teheran, è stato una chiara operazione simbolica. I bersagli – come il complesso di stoccaggio Kan – non sono stati scelti solo per la loro importanza economica, ma anche per il loro valore comunicativo. Israele ha parlato al contempo a tre destinatari: Teheran, per riaffermare la sua capacità di penetrazione militare profonda; Washington, per riaffermare il proprio ruolo centrale nella sicurezza regionale e condizionare il dibattito sulle negoziazioni nucleari; l’opinione pubblica israeliana, sempre più scettica nei confronti della classe politica, in cerca di “successi tangibili”.
La risposta iraniana è stata simmetrica nella logica, ma asimmetrica nei mezzi: oltre cento droni, diretti verso obiettivi equivalenti – infrastrutture energetiche, aeroporti, centri strategici – sono stati lanciati contro Israele. Le difese aeree israeliane hanno avuto successo, ma l’obiettivo dell’Iran non era solo la distruzione materiale. Era, soprattutto, l’effetto psicologico. Israele e Iran si muovono su una sottile linea rossa, calibrando ogni azione per non oltrepassare il punto di non ritorno. È la dottrina del “méchri tou oríou” – fino al limite. Ogni attacco è una mossa in un gioco a somma zero dove ciò che conta è mostrare capacità, non esercitare dominio.
Israele ha colpito e ucciso alti funzionari del controspionaggio iraniano, tra cui Mohammad Kazemi e Hassan Mohaqiq, confermando la profonda penetrazione del Mossad nei gangli più protetti dell’apparato di sicurezza iraniano. Ma non ha toccato installazioni nucleari con testate convenzionali, né ha violato il territorio con truppe. L’Iran ha risposto con sciami di droni, ma ha evitato di attaccare basi USA o colpire direttamente Tel Aviv. Il confronto si arresta sempre un passo prima del baratro.
Dietro i cieli infuocati si muove una guerra ancora più eterea: quella dell’intelligence algoritmica. La società americana Palantir Technologies, fondata da Peter Thiel e Alex Karp, gioca un ruolo cruciale nel fornire modelli predittivi, mappe di vulnerabilità e targeting assistito da AI. Secondo inchieste giornalistiche, tra cui quelle di Glenn Greenwald, Palantir ha contribuito in modo decisivo a preparare gli attacchi aerei israeliani, mappando preventivamente le difese iraniane e consentendo l’invio segreto di droni esplosivi in territorio iraniano. È la guerra del pre-caricamento: gli attacchi non vengono più lanciati, ma attivati in remoto, come ordigni dormienti.
Nel 1995, Israele sosteneva che l’Iran avrebbe ottenuto la bomba nucleare entro cinque anni. Trent’anni dopo, quella bomba non esiste. Eppure, la retorica sopravvive, riemerge a ogni tornante critico, come un mantra giustificazionista. Quando la minaccia nucleare vacilla, il pretesto si aggiorna: “esportare la democrazia”, “prevenire il terrorismo”, “salvare la stabilità”. La similitudine con il caso iracheno del 2003 è inquietante. L’Iran – oggi come l’Iraq allora – è il nemico necessario, il bersaglio strategico perfetto per mantenere coesa un’opinione pubblica interna, giustificare spese militari e ridefinire gli equilibri regionali.
Il confronto israelo-iraniano nel 2025 ci parla del futuro della guerra. Una guerra: senza trincee ma con algoritmi; senza soldati ma con droni; senza avanzate territoriali ma con escalation psicologiche. È una guerra di percezioni, che si gioca nella mente, nei media e nei cieli. La posta in gioco non è il dominio territoriale, ma la capacità di instillare paura, di dimostrare superiorità, di mantenere l’altro in uno stato di pressione costante. Ma quanto potrà durare questo equilibrio sospeso prima che uno dei due attori perda l’equilibrio? La storia insegna che i giochi d’equilibrio, alla lunga, si trasformano in cadute. E in Medio Oriente, ogni caduta ha un’eco globale.
Israele e Iran vivono dentro una condizione bellica permanente, dove ogni azione è preventiva, ogni difesa è attacco mascherato, ogni tregua è illusione. È una guerra postmoderna, performativa, adattiva, che si nutre di tecnologia, informazione e paura. Il vero pericolo non è l’escalation. È l’assuefazione all’escalation. La trasformazione della guerra in una routine geopolitica accettabile. Un teatro sospeso, dove la pace è solo l’intervallo tra due scene.