«Questo è mio padre! Aveva appena comprato un autosalone e non aveva ancora finito di pagarlo! Voi l’avete ucciso… È questa la democrazia? ». È un interrogativo elementare messo in bocca a un ragazzo iracheno sconvolto di fronte al corpo esanime e al cervello fracassato del proprio genitore. Il 19 novembre del 2005, per ritorsione contro un attentato subito, la Compagnia Kilo, terza divisione dei marines, guidata dal giovane colonnello Lucas Mc Connell, garantita da ambigue regole d’ingaggio, fredda due famiglie di civili abitanti ad Al Hadita, nella regione di Al Ambar. La storia è raccolta in un piccolo e prezioso testo, da poco anche in versione e-book, nuova edizione italiana firmata Adelphi, dell’opera del reporter William Langewiesche, intitolata Regole d’ingaggio.
Riproposte nel panorama odierno, queste pagine corrodono i colori sgargianti delle riaggiornate tinte uniche belliciste e, a distanza di oltre cinque lustri, mostrano l’attualità di un Occidente in panne, perennemente goffo nel perseguire grandezze tramontate, e candidamente umanitario mentre gabella grami bazaar tecnocratici per dirittifici di massa a gettone da esportare ad ogni latitudine, tronfio dell’etica muscolare d’uno sviluppo che si autocelebra come religione del progresso e della morale discesa al rango di categoria merceologica, con l’esplosiva eloquenza delle armi. Nel lucido resoconto di questa storia cruenta e drammatica s’indaga la filigrana di una mentalità militare supinamente adagiata su un’interpretazione fanatica e ossessiva delle virtù marziali frammista a un confuso messianesimo religioso e praticata da commilitoni non ancora ventenni alle prese con i brufoli e l’esuberanza ormonale.
Con questo libello discusso e contestato, Langewiesche indugia sulle conseguenze ufficiali del disastro dell’11 settembre, offrendoci una scrittura piana, sobria, dotata di un’ironia che sembra calamitare sul dato cronachistico genuine qualità letterarie. Sul tragico ritratto che egli abbozza, venato di sottilissime sfumature, sembra di riconoscere le tirate antiretoriche di Celine, quando, da sarcastico elogiatore della partecipazione equina alle guerre, constatava che: «Almeno i cavalli non hanno l’aria di crederci». I marines descritti da Langewiesche, invece hanno impressa nelle pupille una ferina vigoria, un’animalità più impermeabile ai dubbi di quella luccicante sulle pupille di un quadrupede. Distruggono e ammazzano con la convinzione che gli altri se la siano cercata.
Il furore di uomini «più portati a credere che a ragionare» fa da sfondo alla corsa incauta di un fuoristrada con, a bordo, i soldati Miguel Terrazes, James Crossman e Salvador Guzman, ed esplode quando l’autovettura salta in aria, provocando la morte di Terrazes e il ferimento degli altri due. Il caposquadra Wuterich e i suoi nerboruti e annoiati uomini scatenano, da subito, una cruda reazione. Fin da quella stessa mattina e poi ancora sino all’ora di pranzo, graduati e reclute statunitensi imbracciano i fucili e procedono a un rastrellamento, casa per casa, che provoca la morte di ventiquattro Iracheni. Cinque vittime occupavano una macchina capitata per caso nei pressi della compagnia armata. Le altre diciannove, nove uomini, quattro donne e sei bambini tra i tre e i quindici anni, erano abitanti del quartiere, scovati e uccisi tra le stanze e i cortili delle loro case, due a nord e due a sud della strada. Alcuni stavano dormendo, altri non avevano avuto il tempo di togliersi il pigiama.
L’irruzione nelle abitazioni era stata annunciata da un lancio di granata. Un vecchio, paralizzato, non è stato risparmiato, tradito dalle sue urla, benchè protetto da una coltre di fumo e dal buio d’un territorio ormai privo di corrente elettrica. Wuterich, per nascondere misfatti divenuti politicamente spinosi dopo la “caccia grossa” di due anni prima a Falluja e le pressioni del deputato Murtha sul ritiro dell’esercito americano giudicato in panne, ha parlato di un coinvolgimento involontario dei suoi uomini in una sparatoria premeditata dal nemico. D’altro canto, gli inquirenti hanno replicato che segni di spari provenienti “da ogni direzione”, non erano stati mai rinvenuti nelle case violate dall’assalto di quei rifulgenti eroi a stelle e strisce. Intanto al quartier generale della compagnia Kilo tra le regole destinate a rimanere lettera morta scritte su un cartello affisso alla parete, si legge la seguente: “primo non nuocere”. Nella base si consuma un vociare denso di discorsi, lamentele, pornografia esibita e deliri mossi dal ciarliero e rude cicaleggio d’incompresi e democratici liberatori affezionati allo stesso, ridondante, intercalare: «Col cazzo che gli andava di restare in Iraq… del resto mica avevano fatto domanda per stare in quel cazzo di posto…e certo che no… di quella cazzo di cultura irachena non gliene fregava un cazzo». In una simile opacità senza norme richiamata per paradossale contrasto dal titolo dell’opera, una via d’uscita, da questa barbarie costante imbellettata dalla pacchiana cosmesi della retorica, può essere l’ombra di un dubbio, oggi ancora più fuori moda di quando si svolsero i fatti narrati: «È questa la democrazia?».