Nel numero di Famiglia Cristiana del 23 febbraio scorso, all’interno dello spazio solitamente riservato alla posta, una lettrice confessava al direttore Don Stefano Stimamiglio di essere turbata da “1-2-3… Stella”, il famoso gioco a cui da piccoli ognuno di noi ha dedicato ore e ore del proprio tempo, tentando di stanare il minimo movimento dei propri compagni e impedire loro di fare ‘tana’ o ‘stellone”.
A preoccuparla, però, non era il gioco in sé. Semmai il fatto che nella scuola primaria del marito, insegnante di religione, i bambini erano entusiasti di giocarvi nella modalità vista in Squid Game, la serie coreana campione di incassi, trasmessa su Netflix, ormai giunta alla seconda stagione. Dove in ballo, com’è noto, è l’eliminazione stessa dei concorrenti. I quali, stritolati dai debiti contratti nel mondo reale, per poterli saldare cercano di scampare in tutti i modi la morte in un gioco a eliminazione, offrendo l’unica (l’ultima) cosa che possiedono: la propria vita. A fronte dello sconcerto della lettrice, il direttore, preso atto della pericolosità di questa diffusa banalizzazione e spettacolarizzazione della violenza, concludeva che scene del genere si «depositano in modo caotico e privo di significati nella mente dei bambini» e, questo, «non li aiuta a crescere in modo sano». Da qui la difficoltà delle ‘agenzie’ naturalmente preposte all’educazione dei giovani: famiglia e scuola in testa. Ecco, sintetizzando, si potrebbe dire che il problema, come emerge chiaramente dalle parole e dal tono di questo botta e risposta, è il nostro eterno rapporto con il male, o per meglio dire con la rappresentazione del male, declinato innanzitutto in violenza manifesta – spesso brutale e gratuita, tipica della specie homo cui apparteniamo -, seppure questa non rappresenti l’unica forma in grado di influenzare le nostre coscienze e i nostri comportamenti.
«Il viaggio nella crudeltà umana non ci consente di sfuggire a noi stessi», dice la filosofa Lucrezia Ercoli nel saggio Lo spettacolo del male. Da Squid Game al true crime: perché abbiamo bisogno di mostri (Ponte delle Grazie, 2024), dunque è più che mai necessario «mettere a fuoco le contraddizioni che ci costituiscono», «guardare in faccia il volto della Medusa, affrontando il rischio di rimanere pietrificati». Per farlo, l’autrice ha utilizzato diversi strumenti d’indagine quali arte, fotografia, letteratura, psicanalisi, ma soprattutto cinema e serie Tv, con l’intento non di fornire «una risposta tranquillizzante né una ricetta definitiva», ma per «riflettere senza alibi sulle nostre responsabilità» e, così, riuscire «a essere un po’ meno passivi di fronte al macabro show del quale siamo interpreti e spettatori, vittime e carnefici». Il cuore oscuro della disamina di Ercoli – ideatrice e direttrice artistica del festival PopSophia e Docente di storia dello spettacolo all’Accademia di Belle Arti di Bologna – risiede proprio nella nostra condizione di spettatori o troppo sensibili ed empatici o, al contrario, voyeuristicamente impegnati a cogliere ogni dettaglio della sofferenza altrui (in uno dei capitoli, si parla non a caso di “violenza dello sguardo”). In tal senso, l’arte dell’audiovisivo, grazie alla potenza dell’immagine, alla sua capacità di rappresentare la realtà in modo diretto e immediato, ha riconfigurato i codici espressivi con cui la violenza ci viene raccontata. Si pensi ai vari serial killer – ad esempio Jeffrey Dahmer, il mostro di Milwaukee al centro della serie Tv omonima, artefice tra il 1978 e il 1991 di diciassette omicidi, cui l’autrice dedica pagine molto dense -, protagonisti di un genere, il true crime, diventato ormai mainstream grazie alla consistente produzione di film, serie, documentari, podcast e programmi tematici. Antieroi che, per la loro natura ferina, eppure molto umana – esemplare il ‘caso’ nella serie Tv I Soprano del capofamiglia Tony, interpretato dall’attore scomparso James Gandolfini, al contempo mafioso senza scrupoli e uomo in analisi alle prese con le sue fragilità -, sono diventati, da una parte, mostri necessari e utili a soddisfare la nostra voglia insaziabile di ‘consumatori di malvagità’ e, dall’altra, capri espiatori contro cui scagliarsi senza la minima indulgenza. Difatti il male, che in sé non esiste, e non pertiene solo ai ‘cattivi’ di professione, è un comportamento potenziale che riguarda tutti, persino lo Stato: specie nel momento in cui esso, con l’intento bonario di preservare l’integrità sociale, sottopone il singolo «a una costante censura delle proprie pulsioni».
Come nel caso di Arancia Meccanica – scandaloso romanzo distopico di Anthony Burgess trasposto al cinema nel 1971 da Stanley Kubrick -, dove la ferocia del singolo, perpetrata dal protagonista Alex (a-lex, senza legge), «si ribalta nella crudeltà potenziata dello stato». Quella della terapia di rieducazione coercitiva denominata cura Ludovico, che prevede l’obbligo di visione di immagini violente per eliminare nel paziente ogni impulso aggressivo. Ma in questo caso, «il bombardamento di immagini […] toglie ad Alex perfino il libero arbitrio, la possibilità di scelta, lo trasforma in qualcosa di non più umano, in una ‘arancia meccanica’ appunto». Ecco perché, secondo Renè Girard, citato dall’autrice, porre fine alla violenza con altra violenza rende la violenza stessa «interminabile». Nonostante la rivoluzione del cristianesimo – di cui colpevolmente in questa disamina non vi è traccia -, abbia introdotto, più di duemila anni fa, il perdono quale unica vera occasione per spezzare questa catena infinita.
La condizione di Alex – mutato il contesto, s’intende – è pertanto la più rappresentativa di una società, la nostra, così patologicamente incline alla crudeltà. Ed è, in un certo senso, la medesima, venendo ai giorni nostri, del moderatore di contenuti dei social network. Il quale visualizza, sostiene Ercoli, «i contenuti segnalati come offensivi o violenti – fake news complottiste, foto pedopornografiche, violenze reali o simulate su animali, persone, bambini – per valutare se debbano o no essere rimossi dalla piattaforma social su cui sono stati postati». Innescando un pericoloso cortocircuito pure per gli utenti social. Infatti, così come il moderatore sperimenta una sorta di versione aggiornata della cura Ludovico, allo stesso modo anche noi fruitori, senza averne contezza, veniamo sottoposti ad un trattamento simile. Attraverso l’utilizzo di un filtro, sia esso opera dell’intelligenza artificiale o di una persona in carne e ossa, che seleziona al posto nostro cosa è bene e che cosa è male, cosa sia moralmente accettabile e cosa no. Eccoci, allora, tornati al punto di partenza, al problema di una rappresentazione del male che, in ogni caso, appare distorta, manipolata, falsa. Con l’aggiunta drammatica della nostra inconsapevolezza. Giacché se il protagonista di Arancia meccanica aveva la camicia di forza e le palpebre aperte da un divaricatore, nell’odierna società post-disciplinare, invece, in cui il controllo (che è l’altra faccia della violenza) si declina in forme meno evidenti ma più capillari, quali sono gli indizi che segnalano esattamente lo stato in cui versiamo?