I premi non basta rifiutarli, occorre non meritarseli. A dirlo era Leo Longanesi, uno dei più grandi giornalisti e scrittori italiani di sempre. Non per snobismo, modestia, o superiorità morale, bensì per tutelare un’opera, che sia teatrale, letteraria o cinematografica, dallo spirito del tempo. Che tutto assimila, assorbe, inghiotte e poi sputa nel presente, senza lasciare traccia nel futuro. Dovrebbe saperlo bene Pietro Castellitto, autore e regista del film I Predatori, nonché cultore di Friedrich Nietzsche. Il filosofo tedesco pubblicava i libri a sue spese. Quello che oggi chiamiamo self-publishing. Come ogni avanguardia culturale autentica era “nato postumo” e oggi, dopo aver contaminato il pensiero del Novecento, Così parlò Zarathustra è diventato, dopo la Bibbia, il libro più venduto nel mondo.
Nei templi del cinema italiano che tutto celebrano e tutto incensano, Pietro Castellitto i suoi premi gli ha vinti eccome: Miglior sceneggiatura al Festival di Venezia e miglior regista emergente ai David di Donatello. Oltre ad esserseli meritati, è andato pure a prenderseli sul palco. Con la consapevolezza e l’auto-ironia di chi conosce il proprio talento artistico ma resta padrone delle sue idee e custode dei suoi vizi. “Soltanto gli infami e i traditori sono bravi nei ringraziamenti” esordisce a Venezia. Poi ringrazia la sua famiglia che lo ha aiutato a essere sincero con sé stesso, e lo dedica a tutti quelli che la pensano diversamente: “solo legittimando chi non la pensa come noi che riusciremo ad avere un nuovo scontro culturale, che è fondamentale per creare delle nuove metafore e dei nuovi simboli in grado di reinventare la modernità. Dobbiamo stare in competizione con la storia non col nostro tempo”.
Modernità, storia e tempo. Sono gli stessi tre elementi che fanno de I Predatori una miscelazione nuova, audace, ambiziosa, che agita gli spettatori, rompe col pedagogismo cinematografico ma soprattutto disarticola l’ideologia del Bene. A trionfare è la libertà di scrittura, di espressione, di interpretazione, di realizzazione, di imperfezione. I protagonisti (cioè noi) sono tutti figli del secolo, aldilà del bene e del male. Due famiglie, una, i Pavone, alto-borghese, intellettualoide, benestante, che vive tra il centro storico di Roma e la Toscana, prigioniera di uno psicodramma familiare, dove dietro le belle apparenze si nascondono demoni perversi che si affacciano per la prima volta in rima, a cena, in un ristorante di lusso; l’altra, i Vismara, proletaria, di Ostia Lido, vicina al crimine organizzato, col culto delle armi, ma che accanto alle pose fascistoidi “dell’Illinois” vive di ingenui e romantici sentimenti. Speculari, violente allo stesso modo, entrambe figlie della modernità, la prima nell’essere al mondo, la seconda nello stare al mondo, unite da una bomba che Pietro Castellitto (in veste di attore, stravagante studente di filosofia e intreprete grottesco del superomismo), membro della famiglia Pavone acquista dai Vismara, per far esplodere la tomba di Friedrich Nietzsche, quasi con l’intenzione di farlo rivoltare nel sottosuolo, come a voler reinterpretare, reinventare appunto, una modernità tradita dal principio. Ora e sempre.
C’è un substrato filosofico che prima di tutto è morale (e mai moralista). I Predatori non vuole consolare, assecondare o rassicurare l’opinione pubblica bensì metterla davanti alla radice comune “del bene e del male”, per riportarla in lotta con la storia , non con il proprio tempo, senza pregiudizi. Prima di provare orrore per gli altri occorre avere orrore di sé. Perché anche i vincitori in fondo non sono nient’altro che dei vinti. Ci voleva un regista all’esordio per dirci chi siamo (prede), o ancora chi ci fingiamo di essere (predatori).