Il ritorno prepotente dell’intelligenza artificiale nel dibattito pubblico è merito di ChatGPT, sperimentale metodo per la comunicazione uomo-macchina, progettata da OpenAI, organizzazione che raccoglie alcune delle menti più brillanti della Silicon Valley, e finanziata da Microsoft e Bedrock Capital, per citarne un paio. Quello che i modelli resi pubblici sinora riescono a fare hanno impressionato parecchio sia il pubblico occasionale, sia quello più avvezzo. Da settimane, infatti, rimbalzano storie di colloqui lavorativi per posizioni iper-specializzate brillantemente superati, come di tesi universitarie scritte in poche ore, passando per il racconto dei pregiudizi politici che anche GPT sembra incorporare. Un segnale utile a ricordare che, a conti fatti, sebbene l’idea di un essere capace di apprendere in autonomia, distanziandosi dai binari imposti dal suo creatore, possa affascinare, occorre tenere a freno le velleità da scrittore fantascientifico e imporsi di rimanere coi piedi ben saldi a terra.
Nella realtà dei fatti ChatGPT entrerà nell’uso quotidiano tramite i motori di ricerca, che già usiamo quotidianamente. Microsoft, per bocca del suo CEO Satya Nadella, ha annunciato tutte le nuove funzionalità che verranno integrate sul suo browser, Edge, e sul suo motore di ricerca, Bing. Circa il 40% delle ricerche online, sostiene Nadella, non danno i risultati cercati, tanto che gli utenti sono costretti a effettuare una nuova ricerca con keyword diverse. Integrando ChatGPT sarà possibile porre domande e ottenere risposte esaustive, confrontarsi con l’intelligenza artificiale in un’apposita sezione “chat”, e addirittura ottenere riassunti di lunghi Pdf nello spazio di poche righe. La presentazione di Microsoft ha talmente colpito che Alphabet, proprietaria del motore di ricerca più usato al mondo, è stata costretta a organizzarne una propria, per dare prova di non essere indietro rispetto alla concorrenza. I risultati sono stati opposti rispetto a quelli desiderati: è apparso subito evidente che non vi fosse un piano per integrare l’AI alle ricerche Google paragonabile a quello previsto per Bing. Così non sembra più utopica la realizzazione di una prospettiva dove il re dei motori di ricerca viene finalmente spodestato da qualcuno. Una concorrenza interna, si capisce.
Dall’altra parte del mondo si recepiscono le novità e si reagisce. È notizia delle ultime ore la decisione del Governo della Repubblica Popolare di rendere pubblici i propri progetti in materia di AI. Difficile pensare che un Paese avanzato come quello che ospita entro i propri confini la città di Shenzhen non fosse al lavoro già da anni su un progetto simile. Il primo passo della Silicon Valley era quello che Baidu (l’Alphabet di Cina) e Alibaba (l’Amazon di Cina) aspettavano per annunciare che entro breve mostreranno al mondo le loro risposte. Difficile fare previsioni, ma gli elementi per rendere il 2023 l’anno del ritorno di una nuova corsa tecnologica fra Washington e Pechino ci sono tutti.
È la corsa all’artificiale, dove l’obiettivo è quello di imporre caratteristiche e ideali propri all’entità che nascerà. Perché, a prescindere dalle fattezze che assumerà entro pochi anni, ci sono alcuni elementi di cui si può star certi. Essa non sarà neutrale: è lecito infatti attendersi che i Paesi atlantici avranno la loro AI a stelle e strisce, mentre la Cina avrà la propria che risponderà in maniera diversa e che baserà i propri risultati su big data raccolti in altri luoghi (esatto, anche grazie ai gusti dei milioni di utenti occidentali di TikTok). Al netto, dunque, delle chiacchiere su un’intelligenza artificiale “universale”, che servono unicamente a ricordare che ogni appello all’universalismo è necessariamente di parte, siamo nuovamente di fronte a uno spartiacque della storia. Un’epoca prima e dopo il pubblico utilizzo di AI. Se in Cina già da tempo vengono impiegati software intelligenti per prevenire minacce all’ordine (altro che Asimov), negli Stati Uniti come al solito si parte dal basso, dandoli in pasto al pubblico utilizzo e lasciando che dall’unione fra uomo e macchina nasca la nuova sintesi. Non è importante quale sintesi uscirà, l’importante è che sia nuova. Il sacrificio di un costante mutamento di forma è necessario per chi pone le libertà individuali come presupposto politico della propria ragione d’essere. Così, mentre gli utenti utilizzeranno i prodigi della tecnologia per paragonare decine fra possibili televisori da piazzare nel proprio salotto, o per confrontare le qualità di questo smartphone rispetto a quell’altro, Washington potrà usare il progresso per giustificare e reimporre la propria egemonia, proprio mentre il trend sembrava favorevole alle potenze emergenti, o appena affermatesi.
Se dunque l’AI rappresenta l’estremo tentativo di porre ordine a un mondo che, dal nostro punto di vista, sembra impazzito, essa potrà troverà la propria affermazione unicamente riproponendo la vecchia base su cui ogni ordine si poggia: la violenza. Come le scimmie kubrickiane che escono dallo stato di natura tramite la sua scoperta, ogni razionale progresso tecnologico non potrà che trovare la propria utilità nel mondo – irrazionale – umano se non tramite di essa. Tutto il resto è unicamente comunicazione accelerata, nuovi linguaggi, tesi che si scrivono da sole. Il progresso dà velocità, ma non cambia gli impliciti stilemi sui quali la geopolitica si fonda, l’imprevedibilità delle azioni. Ci avevano già provato i sovietici a rendere più razionale un sistema in decadimento, lasciando che l’allocazione delle risorse venisse decisa da un supercomputer invece che da burocrati tendenti alla corruzione. Pochi mesi dopo l’URSS è esplosa.
L’AI contemporanea, sicuramente più avanzata di quella sovietica, sarebbe stata in grado di prevedere l’invasione in Ucraina, o il vincitore dell’ultimo mondiale di calcio? La risposta è intuibile e non richiede l’intervento di nessuna tecnologia.