Confessione

Daniele Ciprì

“Calcola che eravamo totalmente fuori dal circuito cinematografico e da quello televisivo perché, mentre la tv di quegli anni urlava, noi mostravamo un’inquadratura fissa in bianco e nero su un personaggio che se gli chiedevi chi fosse, lui ti rispondeva: un pezzo di merda”. 
Daniele Ciprì
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Se Pier Polo Pasolini aveva dato scandalo con La ricotta, leggendario episodio del celebre film collettivo R.O.G.O.P.A.G., sicuramente il Totò che visse due volte di Daniele Ciprì e Franco Maresco fu condannato dalla grande inquisizione. Divenuta una pellicola leggendaria a causa della sua irriverenza, l’opera in questione divenne oggetto di strumentalizzazioni politiche, dibattiti sul senso del cinema e scontro tra libertà d’espressione cinematografica e imposizione. Lontano da ogni puerile gesto di sterile contestazione che tanto piace ai piccoli critici dalle ragnatele sui capelli e la foto del Nanni (inter)nazionale nel portafoglio, il nostro Totò si palesa come manifesto sulla morte del cinema, come un Vangelo del post-umano.

Daniele Ciprì, il regista inquisito, è l’artista su cui si è abbattuta l’ultima grande censura. Un grande autore irriverente dal grande ingegno e la freschezza fanciullesca che lo conduce a lavorare su altri set cinematografici come direttore della fotografia, è davvero quel che ogni cineasta italiano dovrebbe essere, un artista. Egli è come una sorta di mago che evoca immagini dal passato della propria coscienza, ripescando dai ricordi dei primi film visti al cinema con la famiglia, alternando idee irriverenti e poesia. Un grande regista che ha saputo mettere (o forse togliere) sulla scena un mondo fatti di deformazioni fisiche e psicologiche, corpi mangiati dalla vita e vomitati nel più buio degli inferi, dove però è possibile ridere delle proprie sciagure nonostante tutto. Il suo è un cinema decadentistico, il ritratto metafisico di una periferia che, seppur siciliana, rievoca l’impronta del primo Pasolini. Lo scorso anno, grazie alla Cineteca di Bologna è risorto in 4k Totò che visse due volte, il film per cui Ciprì e Franco Maresco vennero condannati al silenzio, riscattando quella libertà di espressione che nell’arte, quando ve ne sono tracce, dovrebbe essere sempre la colonna portante.

Totò che visse due volte

Nel 1998 esce il film da te diretto assieme a Franco Maresco, Totò che visse due volte, ma, non appena mette piede in sala, viene bandito con una censura che definisce l’opera come «degradante per dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità», nonché «offensivo del buon costume, con esplicito disprezzo verso il sentimento religioso e contenente scene blasfeme e sacrileghe, intrise di degrado morale». Cosa accadde dopo?

Praticamente siamo stati processati. Abbiamo subito un lungo processo e siamo stati costretti a pagare avvocati per una causa che nonostante siamo riusciti a vincere, in quanto non esisteva più il vilipendio alla religione di stato, non abbiamo avuto alcun risarcimento statale. Quindi ci siamo trovati con un film massacrato, calcola che nelle sale venivano i gruppi appartenenti ad Alleanza nazionale per attaccare la pellicola e addirittura una volta buttarono la merda nelle sede, cose incredibili. Diciamo che Totò ha vinto adesso grazie alla politica degli autori, anche se un film del genere oggi sarebbe impossibile immaginarlo. Il nostro era un film libero in cui c’era un forte sentimento, una rappresentazione della chiusura del mondo che avevamo creato con Cinico Tv, perché raccontava il disastro di una popolazione che è stata creata da Ciprì e Maresco come per un film fantasy. Una delle nostre ambizioni era di fare un cinema fantascientifico o meglio di fanta-coscienza, con dei personaggi che si trovano in luoghi che raccontano, come in questo caso, la crocifissione di tre vite la cui fine è piuttosto cupa. Quindi era una considerazione libera e questo ci ha dato dei problemi perché la libertà in Italia, in quel periodo specialmente, era controllata dalla censura e quindi è normale che un film come il nostro non poteva assolutamente passare. Ciò che comunque ci divertì per certi versi è che loro (la censura) ci chiamavano per tagliare delle scene, cosa che non abbiamo mai accettato e infatti il film uscì vietato ai minori di diciotto anni, cosa che già comportava una grave perdita dal punto di vista economico. Oggi mi sembrerebbe persino ridicolo pensare al visto censura con tutto quello che si vede in televisione. Quello che mi rincuora è che il tempo ci abbia riscattati, perché noi siamo stati sempre la dimostrazione di un cinema libero, indipendente e lo dimostra questo film a dispetto di un linguaggio cinematografico che si è fatto calcolatore. Noi non calcolavamo nulla, eravamo liberi da tutto, anche dalla provocazione. Non volevamo provocare nessuno se non noi stessi, perché era la chiusura di un mondo che volevamo ormai estinguere assieme ai suoi abitanti, vite degradate lasciate senza umanità in luoghi distrutti in cui non vi era alcuna traccia di femminile e quindi non si moltiplicavano, infatti sono scomparsi quasi tutti. L’ultimo episodio del film, che è quello che ci ha dato più problemi, era la conclusione di questo percorso che nel tempo avevamo conseguito con la libertà d’autore, cosa che oggi è impossibile pensare. In giro ci sono tante di quelle opere, soprattutto su Netflix, che non dico siano totalmente brutte ma non ti lasciano un cazzo. Si tratta di film perfettamente confezionati, ben fotografati ma che non possiedono alcuna potenza a livello storico, nel senso che non rimangono nel tempo, a differenza del nostro Totò che invece ha la forza di superare gli anni e per questo lo identifico come un film vecchio.

Attenzione, io e Franco non è che non volessimo arrivare al pubblico ma semplicemente non pretendevamo le grandi masse e purtroppo il film provocò una rabbia che divenne uno strumento politico perché ci tolsero il finanziamento e gettarono me e Franco in una catacomba. Il quel periodo rimanemmo fermi e con problemi dato che l’opera era autofinanziata e a tutto questo si aggiunse il fattore psicologico nel vedere tutto questo accanimento nei nostri confronti. Ad ogni modo, dopo tutto il casino che ci piombò addosso ripartimmo con Enzo, domani a Palermo e mandammo a cagare tutti coloro che avevano tentato di distruggerci. Credo che il cinema debba essere un’esigenza del regista e non un lavoro, quindi cerco attraverso i film di esorcizzare un mio malessere o, soprattutto, far riflettere il pubblico, cosa che facemmo anche attraverso il finale de Lo zio di Brooklyn. Sento che adesso non ci sia l’esigenza di raccontare qualcosa attraverso il cinema, c’è invece l’esigenza di fare dei film, storie, cazzate una dietro l’altra ed è una montagna di immondizia di cui non se ne può più e davanti a questo vuoto sono felice di rivedere Totò che visse due volte e poter dire: “cazzo! Abbiamo avuto coraggio.” Il cinema che volevo fare l’ho fatto e adesso posso fare anche minchiate.

Totò che visse due volte racconta di un mondo finito, post-apocalittico in cui gli umani escrementi si muovono tra istinti primordiali e la ferocia di un animale/bestia ma con una visione poetica. È come se il film vivesse di una disperazione nel buio più profondo, di una bestemmia che cerca la preghiera. Come hai lavorato alla pellicola?

Guarda, ti svelo il segreto di come ottenevamo tutto questo. Noi avevamo un contatto molto stretto con l’umanità che raccontavamo perché la nostra esigenza nasceva dal voler narrare questi personaggi che venivano dalla strada, ma accordandoli come strumenti musicali utilizzando le note di ognuno. Facevamo una riflessione psicologica sull’umanità, per questo parlo di fanta-coscienza, perché non ho mai fatto un film realistico. Per me il reale lo devi fingere, filtrare. Non me ne fotte una minchia di raccontare con la macchina da presa a mano un ragazzo che si sta facendo una canna. Stimo quei giovani registi che sanno fare anche questo, ma io provengo da un’altra concezione cinematografica. Sono sempre stato alla ricerca di qualcos’altro nel cinema, qualcosa che provenisse da un mio immaginario e quindi amavo evocare i miei miti, John Ford, Orson Welles. Poi sono sempre stato un appassionato del cinema di fantascienza degli anni ’50 e di film come L’invasione degli ultracorpi e quindi, quando posizionavamo la macchina da presa, la scena era già fatta, bastava che passasse uno in mutande ed avevamo il pretesto per raccontare in maniera universale la fine del mondo. Partivamo da Palermo ma parlavamo con tutti. Non abbiamo mai cercato di fare film drammatici, eravamo più interessati ad urlare una preghiera disperata, come l’ha definita Goffredo Fofi. Ridevamo con i problemi e ci siamo divertiti tantissimo nonostante avessimo un appuntamento fisso con la censura. Noi eravamo quella coscienza umana che ti dice: “ricordati che devi morire.”  

Eravamo affascianti da questi uomini finiti, questi esseri che somigliavano più figure disegnate nell’immaginario collettivo, penso a Paviglianiti che piace persino ai bambini per questo suo essere fumettistico. Goffredo Fofi ha capito subito il nostro cinema e la nostra televisione e quando lo definiva un urlo di disperazione aveva ragione. Poi voglio dire che noi più che raccontare l’immondizia, come alcuni credono, abbiamo narrato l’abbandono dei luoghi, la memoria delle macerie in cui tutto diveniva fantascientifico e degradante. Mi sono divertito tantissimo nello sperimentare attraverso le immagini per arrivare ad esprimere questi concetti di cui ti parlo e ancora adesso, puntualmente, quando lavoro come direttore della fotografia nelle pellicole di altri registi parto sempre con un punto di vista legato all’immaginario del cinema. Per questo è fondamentale guardare tanti film, perché citerai sempre ma con la purezza di colui che evoca le immagini che ha impresse nella propria memoria. Roman Polanski in un’intervista disse addirittura di non aver mai fatto un’immagine originale nei propri film, e stiamo parlando di un genio del cinema. Lo stesso discorso credo valga anche per me dato che i film che ho amato sono quelli che hanno contribuito a creare il mio immaginario e, di conseguenza, li riporto sullo schermo attraverso il mio racconto ma, attenzione, io non li cito, li evoco.

La pellicola si apre su un uomo, o quel che ne resta, mentre ha un rapporto sessuale con un asino. Poi l’inquadratura indietreggia con una carrellata e vediamo che quell’immagine è la scena di un film che viene proiettato in un cinema dei bassifondi. Quella scena è estratta da Lo zio di Brooklyn, il film diretto precedentemente da te e Maresco. Come vi è venuta in mente quest’idea, per altro molto riuscita, di fare un autocitazione?

Non è un autocitazione, bensì l’immagine di un mondo che si ripete, quindi non era un omaggio a noi stessi ma la dimostrazione che il mondo di Ciprì e Maresco girava su sé stesso e dunque anche il film veniva visto al cinema dagli stessi personaggi che albergavano in quel mondo, in quell’universo.

Allora potremmo definirlo meta-cinema ?

Si. Diciamo che era una riflessione sul mondo in sé. Quell’inizio è volutamente una sorta di analisi su noi stessi. Ci chiedevamo chi davvero fossimo io e Maresco. Calcola che eravamo totalmente fuori dal circuito cinematografico e da quello televisivo perché, mentre la tv di quegli anni urlava, noi mostravamo un’inquadratura fissa in bianco e nero su un personaggio che se gli chiedevi chi fosse, lui ti rispondeva: “un pezzo di merda.” 

Daniele Ciprì e Franco Maresco

Parliamo di una delle scene più forti del film, lo stupro dell’angelo.

Ti faccio una domanda, in un mondo così animalesco, se arriva un angelo tu ci credi? Quella figura rappresenta, secondo la religione cattolica,  la bellezza. Quindi parliamo di un immaginario fatto di visioni angeliche e di speranze verso il Paradiso che di sicuro non appartiene a questi esseri infernali, questi corpi deformi. Poi noi abbiamo sempre fatto una riflessione su ciò che è bello o brutto. Ad esempio, per noi quei personaggi erano bellissimi ed era l’umanità che ci faceva schifo, quindi volevamo completamente stravolgere il concetto di bello e sacro, volevamo ribaltare le leggi dell’uomo. Spesso ci veniva chiesto: “dove avete fatto il catechismo?” Quello stupro è di una potenza incredibile, ma solo così potevamo stupire il pubblico, ed è fondamentale se si vuole portare sul grande schermo riflessioni forti. La gente deve avere paura!

Da cattolico, trovo che in questo ci sia una visione ancestrale, probabilmente pre-cristiana, che lancia una forte critica ad un mondo distrutto e a una sacra natura ormai in decomposizione. Quindi credo che la sua spiritualità sia celata, ma è presente.

Bravo. In realtà, come dice Fofi, si vede anche dall’estetica che richiama comunque immagini sacre.  Molti cattolici ci difesero perché il film era sul non-essere e anche Gesù Cristo non era essere. Il problema è che non si è mai disposti a cambiare i cliché, per cui l’artista deve essere condizionato e invece credo che bisogna avere sogni tranquilli e incubi, come diceva Fellini, raccontando anche il male ma con una visione alternativa. Se cambi i parametri il significato acquista valore, perché ti arriva come un colpo in testa. 

Bisogna, come diceva l’immenso Carmelo Bene, essere altrove?

Esatto. Tra l’altro, quando chiesero a Carmelo cosa salvasse del cinema del novecento, lui rispose: «Lo zio di Brooklyn. Quello è l’unico film alla mia altezza». Poi ci siamo conosciuti a Palermo e per me è stata un’emozione poter sentire la sua voce dal vivo, poi per me era un mito. Tra l’altro, abbiamo utilizzato la sua voce tutta fuori campo per un cortometraggio legato al cimitero con un lungo piano-sequenza. 

Pochi anni dopo dirigete nuovamente insieme Il ritorno di Cagliostro, con un duo clownesco strepitoso, Gigi Burruano e Franco Scaldati. Un’opera che, seppur grottesca, si scosta dal mondo “cinico” da cui provenivano i vostri precedenti lavori.

Guarda, l’idea era di fare una commedia alla Billy Wilder, perché oltre la fantascienza abbiamo sempre amato le commedie alla Blake Edwards ecc. Volevamo far ridere il pubblico ma con una riflessione, cosa che diceva anche Mario Monicelli. Quindi ci venne in mente di raccontare la storia, ovviamente riscritta a modo nostro, di  una casa cinematografica siciliana che abbiamo avuto a Catania per omaggiare quel modo rocambolesco di fare film e, allo stesso tempo, omaggiare noi stessi. Così vennero fuori i fratelli La Marca, due creatori di statue di santi che riescono ad avere un rapporto di amicizia con un cardinale per farsi produrre i propri film che sono orrendi. In quel caso abbiamo raccontato, prendendo spunto da una storia vera, l’amore di qualcuno che ama il cinema ma è impotente nel saperlo fare, facendo anche una riflessione sul nostro cinema. In fondo, Scaldati e Burruano interpretarono magistralmente quei due personaggi, che rappresentavano, in realtà, una presa in giro di noi stessi, utilizzando anche la figura del nano che ci rimproverava dicendo: «questi due non hanno capito un cazzo!» 

Il ritorno di Cagliostro

So che da piccolo, grazie a tuo padre hai scoperto l’amore per il cinema. Qual è stato il primo film che hai visto? E quand’è che hai scoperto che la settima arte era la tua vita?

Guarda, mio padre era un riparatore di macchine fotografiche, amava i film e portava sempre la famiglia al cinema e ricordo che, mentre mamma dormiva nella poltrona, io, mio fratello e lui vedevamo i film. Ti confesso che, a volte, mi addormentavo anch’io, perché ero molto piccolo. Pensa che è stato il destino a decidere che io dovessi entrare nel cinema, perché la mia casa si affacciava su un’arena e la prima cosa di cui m’innamorai fu il buco dove si proiettavano i film. Mi appassionava non tanto il proiettore, ma spiare le persone che guardavano la pellicola e, quindi, quando le osservavo da quel mirino, era come se le stessi inquadrando e immaginavo le loro espressioni davanti ad ogni scena, una malattia praticamente. Con mio padre ho visto film belli e film brutti. Poi era un appassionato di western e quindi me li ha fatti vedere tutti. Quando poi arrivò nelle sale 5 dita di violenza con Bruce Lee, ricordo che rimasi davanti a quel manifesto a Palermo e dissi tra me e me: “porca troia, è finito il cinema western.” La cosa bella è che mio padre non era un culture, era uno che amava il cinema e basta, per cui qualunque film lo andava a vedere. A Maresco raccontavo sempre una cosa che lo divertiva molto ed era che grazie a papà ho visto tutti i film di fantascienza, da Godzilla a quelli cinesi fatti proprio male e ad un certo punto andammo al cinema a vedere Solaris di Tarkovskij e, dato che io ero piccolo e lui non era un cinefilo, uscimmo dalla sala senza capire una minchia. Lì ho cominciato inconsciamente ad immergermi in quella visione di cui parlavo all’inizio, la fanta-coscienza. 

Sai di essere diventato un personaggio cult su Internet?

Su Youtube si trovano tante cose che io Franco abbiamo realizzato, tra corti, lunghi, episodi e perfino mediometraggi. Poi in realtà si trovano in giro anche molte imitazioni dei nostri film e del nostro mondo Cinico, anche se non è solo la rete ad aver preso spunto dal nostro linguaggio visivo ma anche il cinema. I preti che ballano ce li hanno copiati tutti, anche Sorrentino.

Cosa ricordi delle prime esperienze fatte sui set quando ancora eri alle prime armi?

Mi viene in mente una fotografia che possiedo in cui è possibile vedere il primo carrello di Ciprì e Maresco e sai che cos’era? una panda con le ruote sgonfiate, la cinepresa messa sopra ed io e Franco che la spingevamo

Questa immagine è pazzesca. Mi ricorda quando io e mio fratello giravamo i nostri primi cortometraggi senza un soldo e senza attrezzature e quindi dovevamo crearle da zero. Ad esempio avevamo ideato il dolly umano, uno di noi due con la macchina a mano sulle spalle di un nostro amico piuttosto alto che alzandosi imitava il movimento che cercavamo. 

Pensa, l’ho anch’io, con mio padre e mio fratello che faceva l’ultimo uomo sulla Terra, girato in Super8. Avevo quindici anni. Mio padre si metteva a cavalluccio e mi forniva il movimento in stile dolly e inquadravamo mio fratello mentre barcollava in questa strada di periferia a Palermo. Anche noi adottavamo questo sistema che hai detto tu, uguale, preciso. Pensa che bello. Ripescando dai ricordi mi torna in mente anche la steadycam. Mi feci fare un mono-piede con i pesi sotto alla macchina da presa e questa io la reggevo col braccio che molleggiava e pensa che questo creava l’effetto steady che desideravo e avevo tutto il palazzo dell’Enel, i miei clienti, che rideva nel vedermi fare esperimenti con questi “giocattoli”. Ti svelo che la mia prima fotomodella è stata proprio l’Enel, un palazzo di cemento armato che riprendevo in diversi modi. Ero un ragazzetto all’epoca, avrò avuto diciassette anni probabilmente. 

Cosa intendi col dire che «il cinema è morto come linguaggio ma sarà in vita per sempre»?

In realtà lo definisco anche uno zombie, un morto-vivo. Il cinema, di fatto, non morirà mai per chi lo vede come intrattenimento. Bisogna fare film per la gente, che però dev’essere condizionata da te regista, non può esserci il contrario. Invece, oggi credo che venga fatto soltanto un cinema con la gente e, di conseguenza, muore all’istante perché, se bisogna fare delle opere in base al gusto del momento, allora che cinema è? L’artista deve condizionare il pubblico a vedere un immaginario, una malattia, e questo noto che accade di più all’estero, un esempio su tutti è Il sacrificio del cervo sacro di Lanthimos. Ricorda, quando farai un film cerca di immaginare tutti quei grandi uomini che hanno lottato per avere la libertà di fare un’opera come desideravano ed è una cosa che non avrai mai. Ci sarà sempre qualcuno che ti dirà di cambiare tante cose e lì dovrai essere in grado di farti valere, anche perché la cosa più giusta da fare, in realtà, sarebbe quella di sputargli in un occhio, alla Totò.

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