OGGETTO: Fine del sogno universalista
DATA: 04 Giugno 2025
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
La contemporaneità sta assumendo i tratti di un campo di battaglia dove si fronteggiano concezioni antropologiche e valoriali in aperto contrasto, patrimonio collettivo di diversi popoli e paesi. Per orientarci in questa ennesima tensione fra moderno e antimoderno, viene in soccorso il contributo intellettuale della filosofa francese, membro dell’Academiè des Sciences morales et politiques dell’Institut de France, Chantal Delsol, e del suo ultimo saggio, "Il crepuscolo dell'universale" (Cantagalli, 2025).
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Il conflitto delle visioni del mondo, la detonazione delle differenze socioculturali, l’esplodere della miccia degli scontri di matrice religiosa per effetto del fenomeno terroristico esprimono molto più di quanto ci raccontano superficialmente gli elzeviri patinati dei nostri quotidiani mainstream. In gioco, difatti, abbiamo a che fare con un revival dell’organicismo sociale e con la resistenza delle culture locali alle spinte modernizzanti del Nord globale, secondo il saggio stimolante di Chantal Delsol del 2020 “Il crepuscolo dell’universale”, da poco pubblicato per Cantagalli. 

Se la mentalità occidentale, forte dei successi di controllo coloniale e ideologico dei paesi capitalisti europei e nordamericani, era stata abituata pigramente ad aspettarsi di essere inseguita nei suoi valori e disvalori dalle potenze emergenti in una spirale a chi emulava meglio il modello vincente, d’un tratto le cose paiono essere cambiate drasticamente. Mentre i paesi occidentali più opulenti sono catturati nella morsa della crisi delle proprie istituzioni democratiche, con populismi rampanti all’orizzonte, il depauperamento della classe media e il collasso della fiducia degli elettori, ovunque assistiamo all’ostentazione orgogliosa delle differenze culturali e di modelli antropologico-politici “altri” rispetto alla ragione eurocentrica. Tanto la repubblica popolare cinese, i paesi arabi, Singapore o la Federazione russa, infatti, non fanno più niente per nascondere la propria ostilità nei confronti del diritto umanitario occidentale sbandierato come l’ultimo gradino del progresso sociale. Regimi politici tanto diversi danno voce all’unisono all’esigenza di ripensare quello che Serge Latouche in “La fine del sogno occidentale. Saggio sull’americanizzazione del mondo” chiamava il “rullo compressore” dei costumi moderni e occidentalisti che schiaccia le specificità culturali in favore dell’economicismo predatorio, di una disincantata ragione calcolante e dell’antropologia da homo oeconomicus. Al cuore di questo rifiuto dell’assiologia e dello stile di vita moderno sta la consapevolezza, a parere dell’autrice, della degenerescenza nel postmodernismo individualistico e materialista di quel modello di civiltà, legato a doppio filo all’intellettualismo, alla sovraestensione della morale nella vita pubblica, all’esaltazione della libertà atomistica sopra le istituzioni sociali. 

In altri termini, tanto più si strilla in difesa dei diritti umani maggiori sono le reazioni di sfida al modello dominante percepito come esterno e intrusivo, contrapponendo alla ricerca morale “enciclopedica” (universale, ecc.) una visione del bene “tradizionale” (radicata in precise forme culturali aventi ognuna delle virtù da far valere senza dicotomie tra teoria e prassi morali come fu per il tomismo), per dirla col pensatore Alasdair MacIntyre. Questo diventa particolarmente evidente se analizziamo le carte dei diritti elaborate nel corso della loro storia dai vari paesi: come commenta l’autrice, se la carta di Parigi del ’48 è assiomatica e apodittica mettendo tra parentesi le radici culturali che ne informano il testo, le carte islamiche, africane ecc. sacrificano i diritti-crediti e la libertà agli organismi comunitari che ne contestualizzano i margini d’azione. Ovunque, continua la Delsol, possiamo osservare il confronto titanico tra la catastrofe del progresso inesorabile che travolge tutto nella sua strada (torna alla mente l’angelo di Klee nella lettura di Walter Benjamin) e le controrisposte delle culture riottose al cambiamento che escogitano soluzioni impraticabili per restaurazioni fuori tempo massimo. Neocorporativismo, integralismo religioso, anti-occidentalismo nativista e remigrazione rappresentano, pertanto, feedback e campanelli d’allarme di sistemi sociali al collasso che si abbarbicano al passato appena tramontato facendone un totem. Un ricorso storico precedentemente sperimentato, a detta della filosofa francese, dalla Germania del III Reich, dove l’ipostatizzazione del patrimonio germanico in funzione antimoderna ha condotto fatalmente alla cancellazione dei diritti sociali e allo sprofondamento nell’autocrazia tirannica. Al veleno della modernizzazione a tutti i costi con i propri effetti sradicanti si rispose così invocando la mitologia neoromantica di “tradizioni inventate” per rinvigorire la Gemeinschaft destinata all’oblio dallo sviluppo economico e dall’individualizzazione degli stili di vita. Si potrebbe evocare qui il saggista dell’ultradestra francese Maurice Bardèche che aveva letto il fenomeno dei fascismi come una reazione tanto ai principi del 1789 quanto al liberalismo e al comunismo stigmatizzati come dissolutori del legame sociale. Anche storici quali Zeev Sternhell che retrodata il fascismo al milieu culturale francese di fine ‘800 con l’ibridazione del sindacalismo rivoluzionario soreliano con il nazionalismo, l’antisemitismo e lo sciovinismo al servizio di una destra rivoluzionaria “socialista nazionale” in lotta contro la massificazione moderna e a vantaggio di una rivoluzione spirituale che non intacchi il sistema economico. In tutti questi casi per dirla alla Massimo Fini “la ragione aveva torto” e le reazioni alla modernizzazione partorivano dei mostri.   

Seguono nel saggio delle pagine dedicate alla morfogenesi dello spirito filantropico illuminista nell’umanitarismo parareligioso postmoderno che trova espressione, potremmo dire noi, nel “capitalismo woke” di cui parla Carl Rhodes e nella “cultura del piagnisteo” di Robert Hughes. Qui nel mirino della Delsol finiscono le ideologie salvifiche e le false promesse di miglioramento attraverso l’indottrinamento passivo e la destoricizzazione degli imperativi etici, oltre al il pervertimento secolarizzante dei valori cristiani rendendoli caricaturali, come scriveva Gilbert Chesterton nel 1908. Sotto attacco, in breve, finiscono le visioni disincarnate di marca razionalistica che dimenticano le “radici dell’io” cui accennava il pensatore Charles Taylor, diagnosticando alla civiltà moderna il malessere di aver finito per abbandonare la promessa di senso e di finalità consustanziali alla forma di vita umana. Riallacciandosi alla speculazione di Ratzinger, Solov’ev, Croce, Dugin, come agli scritti del romanziere Benson, viene ricordato che proprio la tracotanza di ambire all’imposizione di universali assuma nella tradizione cristiana caratteri anticristiani, di rovesciamento parodistico del messaggio evangelico. A farne le spese il senso del tragico, inteso qui come già in René Girard alla stregua di un conflitto violento e simmetrico tra le parti in lotta, dove non sussiste una chiarificazione razionale delle sue antinomie: il figlio tipo della modernità come genialmente aveva intuito Nietzsche fa della tragedia un dramma addomesticabile razionalmente. Parlare di valori presuntivamente universali implica, dunque, la disattivazione dei conflitti reali tra visioni non perfettamente compatibili sul bene, il giusto, ecc. appiattendo e livellando i dissidi in campo etico che scuotono rendendo vitali e dinamici i regimi politici. In linea con questo processo di indebolimento della conflittualità si situa anche l’affermarsi del modello materno di stato, tutto teso alla moltiplicazione della dolcezza, della compassione di derivazione greca (in linea con la lettura della filologa Jacqueline de Romilly) e poi cristiana culminante con l’apologia della mitezza fatta da Tocqueville per la democrazia americana. In controcanto rispetto a questa moralizzazione radicale dei propri costumi emergono ostentazioni populistiche di cinismo, esaltazioni della forza e del virilismo in analogo al clima anticipatore del nazismo studiato da George Mosse che denunciano l’ipocrisia delle buone maniere nella stanza dei bottoni. Prende piede un fenomeno di “brutalizzazione politica” come scrive la filosofa, che fa tutt’uno con l’esacerbazione del modello universalista che lascia dietro di sé i non contemporanei, deprivandoli del porto sicuro di istituzioni e quadri assiologici stabili con cui orientare la propria esistenza, annichiliti dal cambiamento avveniristico.

Esplode la guerra civile tra tensioni al radicamento più estremo che mitizzano le origini e spinte sovranazionali altrettanto decise che trovano espressione nelle élite maggiormente avanzate. Gli strati popolari abbandonano i progetti di emancipazione sociale delle sinistre per finire all’amo dei populismi, tanto di sinistra quando di destra, interpretabili come dinamiche regressive nei confronti della globalizzazione e degli eccessi del liberalismo per conservare i brandelli rimasti di welfare. A salvarci, dovendo trovare un nuovo San Benedetto sulle ceneri degli ordini sociopolitici che hanno smesso di funzionare come scriveva Alasdair MacIntyre nella sua opera più famosa, la messa in discussione dell’utopismo umanitarista e il rinnovamento dell’autentico umanismo cristiano personalista, il recupero del bisogno di fare comunità accettando la modernità cum grano salis. Solo dall’adozione di modernizzazioni che l’autrice denomina “plurali”, in osmosi e armonia con le radici culturali dei vari paesi sarà pensabile avvicinare anziché separare e disunire l’Altro evitandone un’assimilazione imperialista. 

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