OGGETTO: Cospirazione & Messianismo
DATA: 09 Gennaio 2021
SEZIONE: inEvidenza
Ciò che è accaduto a Capitol Hill si inscrive nell’identità americana. L'impero non termina del tutto qui: sta passando dalla crisi a una fase di inerzia
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L’occupazione del Campidoglio di Washington da parte dei manifestanti trumpisti lo scorso sei gennaio segna un momento fondamentale nella storia degli Stati Uniti e del modello ideologico che hanno esportato (e cercato di esportare) globalmente. Tuttavia, lungi dall’essere arrivati alla disgregazione di una entità imperiale prettamente postmoderna ed anti-tradizionale, questo evento (utilizzando lo schema dell’antropologo russo Lev. N. Gumilev) ha segnato solo il passaggio dalla fase di crisi a quella di inerzia.

Nella prospettiva di Lev N. Gumilev (1912-1992) l’evoluzione umana e la storia sono soggette alle leggi e ai processi di evoluzione della biosfera come parte integrante della struttura materiale della terra. La caratteristica peculiare del pensiero di Gumilev è stata quella di aver adattato le idee del geochimico Vladimir I. Vernadskij (1863-1945) sulla biosfera (composta di una parte animata e di una inanimata) allo studio della storia etnica. Gumilev, così, ha sottolineato in primo luogo lo specifico ruolo dell’uomo all’interno della biosfera e la sua inseparabilità dalla natura.

I cardini del pensiero di Gumilev sono i concetti di ethnos e di etnogenesi. Se l’ethnos è la forma specifica di esistenza dell’uomo e uno dei principali fattori che forma la sua percezione del mondo; l’etnogenesi rappresenta il processo di formazione, sviluppo ed evoluzione dell’ethnos. Ogni ethnos, secondo l’antropologo russo, possiede la sua struttura interna e il suo unico stereotipo comportamentale che può modificarsi attraverso le generazioni. Esistono due tipi di ethnos: il primo tipo ha vissuto nel suo ambiente nativo in accordo ad un preciso e stabilito modo di vivere adatto a quell’ambiente; il secondo è un ethnos dinamico capace di adattamento ad un nuovo ambiente attraverso determinati cambiamenti nel proprio “stereotipo comportamentale”. La “passionarietà” è il parametro fondamentale che descrive un ethnos dinamico. I passionari sono coloro il cui impulso verso un ideale o l’ostinazione verso uno sforzo superiore sono più forti dell’istinto di autoconservazione.

Lev Gumilev, insigne etnologo e antropologo, è figlio di due poeti: Nikolaj Gumilev e Anna Achmatova

La passionarietà è l’elemento necessario di ogni processo di etnogenesi: è una forma di energia biochimica presente nella biosfera che influenza direttamente la psicologia umana ed il suo comportamento. Essa non può prescindere da un altro fattore che Gumilev chiama “complementarietà”: una sorta di forma subconscia di simpatia tra le persone che le porta ad unirsi sulla base di idee simili creando così le condizioni necessarie per la formazione di una tradizione etnica e di conseguenti istituzioni sociali.

“I passionari – afferma Gumilev – formulano gli obiettivi comuni che li uniscono e determinano il loro destino storico […] Essi sono sempre una minoranza in ogni fase dell’etnogenesi, ma riescono ad imporre alla maggioranza i loro imperativi comportamentali”. Al concetto di ethnos si associa quello di superethnos in cui ethnoi differenti si uniscono producendo un’idea di uniformità sulla base di motivazioni religiose, ideologiche, militari o una combinazione di tutti questi fattori. Ogni processo di etnogenesi si suddivide in fasi distinte: crescita, culmine, crisi (conflitto interno), fase inerziale e fase di disintegrazione.

Gumilev applica le sue teorie al processo di formazione e sviluppo del superethnos russo riconoscendo, al contempo, il notevole influsso che in questa etnogenesi hanno avuto le popolazioni turaniche che hanno abitato le steppe eurasiatiche e la fusione tra popoli e razze differenti sulla base di una naturale attrazione reciproca più forte di ogni repulsione. Secondo questo approccio, Gumilev ritiene i secoli dell’occupazione tatara della Russia come il momento specifico di formazione e crescita dell’ethnos russo. La fase di culmine è rappresentata dal raggiungimento dei confini naturali dell’Impero nel XVIII secolo, mentre la fase di crisi inizia con le rivolte decabriste degli anni ’20 del XIX secolo, a cui farebbe seguito una fase inerziale all’interno della quale rientra anche il periodo sovietico considerato da Gumilev come una sorta di microprocesso di etnogenesi all’interno della storia dell’ethnos imperiale russo.

Ora, fatta una necessaria quanto rapida presentazione di un pensiero estremamente complesso come quello dell’antropologo russo, l’obiettivo di questa analisi è comprendere come e se lo schema di Gumilev possa essere applicato alla storia degli Stati Uniti. Inutile affermare che un simile ragionamento non può prescindere anche da considerazioni di natura prettamente geopolitica.

Carl Schmitt, nel tentativo di comprendere il reale significato del termine nomos, individuò tre diverse accezioni a cui il sostantivo greco può fare riferimento: appropriazione, divisione, produzione. Il giurista tedesco, allo stesso tempo, sottolineò come la storia dei popoli, con le loro migrazioni e conquiste è una storia di appropriazione della terra. E di come questa appropriazione non debba essere intesa esclusivamente come appropriazione di terra libera (senza padrone) ma anche come conquista di terra nemica sottratta al suo precedente proprietario. A questo proposito, il racconto della conquista di Canaan da parte degli ebrei rappresenta l’archetipo biblico di questa forma di appropriazione.

In questo senso, il processo di colonizzazione delle Americhe si pone come corrispettivo moderno dell’atto di appropriazione. Il continente “scoperto” venne considerato terra di nessuno. Cosa che comportò la negazione di qualsiasi diritto alla terra, all’autodeterminazione ed alla sovranità per la popolazione indigena. Ma se la colonizzazione ispanica, pur non estranea ad episodi di brutale violenza, non volle mai formare un impero schiavistico, dato che ogni singolo indio veniva considerato un suddito del Regno, lo stesso discorso non si può fare per il modello di colonizzazione anglosassone che arrivò a descrivere la popolazione autoctona alla stregua di entità subumana meritevole di annichilimento. Per questo, come afferma il pensatore argentino Alberto Buela, non essendosi mai mischiato alla componente indigena, l’anglosassone è rimasto un trapiantato in America. La sua coscienza ha continuato a rimanere tipicamente europea. Ma questa coscienza europea era del tutto particolare. Era già profondamente impregnata del germe della modernità. Era una coscienza deviata dall’influenza del messianismo giudaico-protestante e dalla mentalità mercantilista.

Di fatto, i migranti puritani che giunsero sulle coste del Nord America nel XVII secolo, erano convinti di rivivere l’Esodo biblico e di giungere ad una Terra Promessa nella quale avrebbero costruito la Nuova Israele e la Gerusalemme celeste in terra anche a costo dello sterminio della popolazione indigena sulla falsa riga della conquista israelita delle Terre di Canaan. Questa idea puritana infarcita di messianismo e di aperta ostilità nei confronti della corrotta e illiberale Europa ha influenzato in modo determinante il processo di formazione della sovrastruttura ideologica dell’ethnos nordamericano. Essa si collega direttamente al concetto di “destino manifesto”.

Lo studioso Anders Stephanson ha esaminato approfonditamente l’idea di “destino manifesto”: l’espressione coniata da John O’Sullivan nella metà del XIX secolo per definire la missione nordamericana di espansione nel continente assegnatogli dalla Provvidenza, e successivamente utilizzata dal Presidente Wilson per sottolineare il ruolo statunitense di guida del mondo verso un futuro migliore attraverso un costante intervento di rigenerazione. Stephanson giunge alla conclusione che gli Stati Uniti, non siano stati l’unico paese ad attribuire un carattere esemplare alla propria identità nazionale. Tuttavia, se è vero che ogni Stato-nazione o gli stessi imperi del passato hanno sostenuto la propria unicità o hanno ritenuto di essere stati consacrati da un ordine superiore; è altrettanto vero che nessuno ha mai preteso che tale consacrazione dovesse imporre una trasformazione del mondo a propria immagine e somiglianza conducendo alla fine stessa della storia.

Stephanson, come già sottolineato, riconosce come questo ruolo profetico ed universale sia un prodotto dell’eredità puritana, della riproposizione della narrazione dell’Esodo e del tema ebraico dell’elezione divina attraverso il Patto con Dio. Ma ciò che in questo contesto preme sottolineare è il fatto che questo ideale di superiorità morale sia rimasto l’unico collante ideologico della società nordamericana dalla sua origine fine ad oggi. Ad onor del vero, ci sarebbe anche un altro fattore che accomuna la società nordamericana: un fattore entrato di prepotenza nell’attualità grazie all’enorme diffusione conosciuta grazie alle piattaforme sociali di teorie complottiste dall’afflato pseudoreligioso. È ciò che Richard Hofstadter definì a suo tempo come “stile paranoico” della politica americana. Lo storico nordamericano, già nei primi anni ’60 del secolo scorso, raccolse una notevole documentazione volta a dimostrare come certo “cospirazionismo”, anche grazie ad una enorme diffusione di logge massoniche e società segrete (descritta con dovizia di particolari anche da René Guénon), ha radici ben profonde all’interno della società nordamericana.

Hofstadter porta a sostegno della sua tesi diverse posizioni espresse nel corso della storia statunitense da differenti attori della politica e dell’informazione. Così, in un articolo di un giornale texano del 1855 si legge che le monarchie europee ed il Papa stanno complottando per la distruzione delle istituzioni civili, politiche e religiose degli Stati Uniti. Tesi sostenuta qualche decennio prima anche dall’inventore del telegrafo S. B. Morse che in un libro dal titolo Foreign conspiracies against liberties of the United States descrive i tentativi messi in atto dal Principe Metternich per annettere gli USA all’Impero asburgico con l’ausilio dei Gesuiti. Ancora, in un manifesto del Populist Party (Partito di “sinistra” vicino alle istanze dei contadini americani) del 1895, si afferma l’esistenza di una cabala segreta internazionale che mira a distruggere la prosperità delle persone e l’indipendenza finanziaria e commerciale degli Stati Uniti. Nel 1951, il noto senatore McCarthy dichiara di avere le prove dell’esistenza di una cospirazione dell’infamia volta a portare il Paese verso il disastro. E, più o meno nello stesso periodo, l’agitatore politico Robert H. Welch Jr. accusava Eisenhower e Foster Dulles di essere degli agenti comunisti (sic!).

Di fronte ad un paradigma “ideologico” che oscilla tra l’idea messianica dell’elezione provvidenziale e la paranoia cospirazionista, appare evidente come il fenomeno QAnon (in cui la teoria del complotto, intrisa di ispirazione evangelica, assume i connotati della pseudoreligione) abbia trovato un fertile terreno di coltura, aiutato anche dalla crisi economica, dal rapido impoverimento delle classi medie (per le quali, occorre dirlo, l’amministrazione Trump ha fatto poco e nulla), e da quelle particolari condizioni imposte dalla pandemia che hanno ulteriormente destabilizzato la psiche di una società già di per sé particolarmente ansiogena come quella “occidentale”.

Sia chiaro che non sia sta affatto negando l’esistenza ed il ruolo che ben determinati gruppi di potere politico-finanziari esercitano a livello globale (soprattutto occidentale) per indirizzare la pianificazione di precise strategie geopolitiche di lungo e breve periodo. Ciò diventa particolarmente evidente quando il già traballante sistema rappresentativo della democrazia liberale diviene ostaggio di imprenditori e interessi privati. I casi della censura sulle piattaforme sociali, oltre ad essere l’emblema della degenerazione di un sistema politico che abdica a favore di una virtualità in cui diviene difficilmente distinguibile la differenza tra realtà e finzione, sono la più evidente dimostrazione di quanto sostenuto. 

Tuttavia, è bene ricordare (con Evola ed il già citato Guénon) che davanti ad una naturale reazione di fronte all’opera distruttiva promossa dai suddetti gruppi di potere, si promuovono spesso riprese parziali di valori tradizionali (o pseudo tali come nel caso del fenomeno QAnon) facilmente ridicolizzabili per l’inadeguatezza dei loro contenuti e promotori e dimostrandosi in ciò assolutamente consustanziali al sistema e niente affatto antitetiche. Ed è altrettanto evidente che se il malcontento e le sacrosante rivendicazioni di carattere sociale ed economico vengono incanalati lungo il binario del “sentimentalismo”, della critica morale (in puro stile del protestantesimo anglosassone) ad élite “sataniche” che organizzano circoli pedofili nel retrobottega delle pizzerie di Washington, ogni forma di reale opposizione viene annegata nel turbine della follia psichica.

L’esperienza del trumpismo, dunque, dovrebbe essere interpretata alla luce di un conflitto interno al sistema e non come espressione di lotta anti-sistemica. Chi scrive l’ha spesso descritto come la forma più decadente ed aggressiva dell’imperialismo nordamericano. Di fatto, oltre ad aver fatto ben poco per gli sconfitti della globalizzazione nonostante la retorica che ha spesso accompagnato i suoi proclami propagandistici (nei quattro anni di presidenza il divario tra ricchi e poveri si è ulteriormente ingrandito, mentre i milionari non hanno pagato mai così poche tasse), in termini geopolitici si è mosso su diversi scenari in sostanziale continuità con l’amministrazione precedente: dal contenimento aggressivo alla Cina all’inasprimento delle guerre economiche, fino alla riduzione dell’opzione militare diretta (troppo costosa) già preventivata da Barack Obama nel suo celebre discorso ai cadetti di West Point nel 2014.

Ora, ritornando allo schema di Gumilev, e considerando il fatto che nella postmodernità la storia e gli eventi che la contraddistinguono assumono spesso i connotati della parodia (essendo la stessa postmodernità l’epoca della contraffazione ideologica), è facile ritenere l’attuale fase di etnogenesi nordamericana come la fase di crisi: ovvero, di conflitto interno. Una fase ulteriormente accelerata da una crisi pandemica che ha portato a galla tutte le contraddizioni etniche e sociali che hanno storicamente caratterizzato il processo di formazione dell’ethnos nordamericano.

Alla fase di crisi segue una fase di inerzia, durante la quale, con tutta probabilità, la nuova amministrazione cercherà di ricompattare il tessuto sociale puntando sull’unico tratto che realmente accomuna l’ethnos nordamericano: il già citato “destino manifesto” magari coniugato nei termini del “nazionalismo liberale”. Un approccio che, come ha sottolineato il politologo John Mearsheimer, lo stesso Trump ha cercato (fallendo) di seguire.

Dunque, ciò a cui si assiste oggi non è la fine dell’impero statunitense. È semplicemente il superamento della fase di crisi e l’ingresso nella fase inerziale. Diversi analisti hanno assecondato l’avvento del trumpismo nella speranza che questo fosse già espressione della disgregazione dell’impero. Questo evento è ancora lontano. Tuttavia, l’inesorabile accelerazione posta ai processi geopolitici dalla crisi pandemica lascia sperare (almeno per chi ha realmente a cuore la sovranità dell’Europa ed una evoluzione in termini multipolari del sistema globale) che la fase di riassestamento ed inerzia possa essere estremamente breve.

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