È abbastanza curioso dover constatare come in questi anni sia addirittura necessario ricorrere ad un intellettuale cinese per dover interpretare il senso del pensiero gesuita. Liu Xiaofeng è professore all’Università Renmin di Pechino. Profondo conoscitore di Carl Schmitt, Xiaofeng, nella sua raccolta di saggi Sino-Teologia, riconosce come nel bene e nel male il cristianesimo sia riuscito ad influenzare in modo significativo il pensiero cinese. Tuttavia, nonostante la famosa stele nestoriana di Xian risalga addirittura al IX secolo d. C., è solo nella tarda Dinastia Ming, con l’arrivo delle missioni gesuite, che il pensiero cinese comincia a confrontarsi realmente con il Cristianesimo. Questo primo impatto con una religione “occidentale” completamente estranea non fu particolarmente traumatico per la Cina. I Gesuiti, infatti, erano portatori di uno spirito profondamente conservatore che non si discostava più di tanto dai modelli altrettanto conservatori confuciani. Essi introdussero nella Cina della tarda Era Ming non l’appena nato spirito della rampante borghesia mercantilista europea ma una dottrina puramente cattolica.
Xiaofeng, in questo senso, definisce il “gesuitismo” come la prima vera risposta alla sofferenza dell’anima europea di fronte alla Modernità. I Gesuiti cercavano in Oriente ciò che, con la Modernità, si era guastato e perduto in Occidente. Di fatto, secondo il pensatore cinese, è solo con lo spirito della “seconda ondata” delle missioni cristiane (quello già profondamente segnato dall’idea capitalistica e dallo scientismo razionalista protestante) che lo scontro tra l’Impero di mezzo e l’Occidente diviene inevitabile. L’idea del “gesuitismo” come risposta alla sofferenza dell’anima europea di fronte alla Modernità non è impropria se si considera che l’Ordine venne soppresso da Papa Clemente XIV nel momento in cui le Monarchie del Vecchio Continente iniziarono a considerarlo di intralcio ai propri piani di espansione mercantilistico-coloniale. Da allora in poi, e prima e dopo la sua ricostituzione, l’Ordine dei Gesuiti è divenuto protagonista di svariate teorie cospirative (definite a suo tempo come fantasie pseudostoriche da parte del metafisico francese René Guénon), spesso prodotto di sette e gruppi politici anti-tradizionali di origine anglo-americana, che indicavano nel suo oscurantismo il maggiore ostacolo alla diffusione delle loro dottrine.
Oggi, non deve sorprendere il fatto che le maggiori critiche al Pontificato del gesuita Jorge Bergoglio arrivino più o meno dagli stessi ambienti anglo-americani o da personaggi da questi profondamente influenzati. A questo proposito, infatti, appare evidente come l’azione del Vaticano, sotto Francesco, abbia dimostrato una sostanziale indipendenza rispetto ai desideri di Washington. Di fatto, che piaccia o meno, il Vaticano rimane l’unica istituzione europea che è riuscita a mantenere ed elaborare una visione geopolitica di lungo periodo che non coincide in toto con i piani imperiali d’Oltreoceano (siano essi di natura “globalista” o “sovranista”). Ora, è bene fare una distinzione tra le dichiarazioni politiche (le istanze temporali) del Pontefice e le istanze prettamente spirituali. Se le prime possono essere criticabili (e lo sono sempre state nella storia della Cristianità cattolica), e Francesco non ha fatto nulla per attirarsi le simpatie di una certa area politica, le seconde, anche oggi, non si discostano affatto da quella che è la dottrina tradizionale e sociale della Chiesa e dall’insegnamento dei Vangeli, anche se taluni continuano a muovere accuse fondate su un presunto “tradimento” della sua missione. A questo punto, per corroborare la tesi fin qui sostenuta, si rende necessario ricorrere alle parole dello stesso Francesco che, spesso per mera propaganda, vengono apertamente travisate quando non completamente ignorate. Così, nel “Documento sulla fratellanza umana” firmato il 4 febbraio del 2019 ad Abu Dhabi dal Papa e dall’Imam dell’Università di al-Azhar (una della più alte autorità spirituali dell’Islam), si legge:
“L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo”.
Una tesi che nella prima metà del XX secolo venne fatta propria anche dal già citato pensatore della Tradizione René Guénon, e che rispecchia in pieno la secolare modalità d’azione gesuita. Tale documento, nato secondo il Pontefice dalla fede in Dio che è “Padre di tutti”, oltre a costituire un sincero invito alla costruzione della pace tramite la cultura del rispetto reciproco, della redistribuzione della ricchezza e della lotta all’ingiustizia, si pone anche come necessario preludio all’enciclica “Fratelli tutti”. In esso non solo viene sottolineata la centralità della famiglia come nucleo centrale della società, non solo vengono sottolineati i rischi dell’individualismo e della distruzione terroristica, ma si cerca anche di sottolineare le similitudini, annegate sotto fiumi di propaganda islamofoba negli ultimi decenni, tra la dottrina sociale della Chiesa e la giustizia sociale propugnata dall’Islam. Il dialogo e non lo scontro tra le religioni è centrale nell’idea di fratellanza di Francesco. Essa scaturisce da un afflato puramente spirituale, evangelico e cattolico (nel senso proprio del termine). Dunque, appartenendo ad un livello ad essa differente, non si può in alcun caso accusare di mancanza di contatto con la realtà contingente. Tuttavia, non è priva di quella aspirazione alla giustizia sociale a cui si è fatto riferimento e che la politica laica ignora volutamente. L’enciclica “Fratelli tutti” inizia con il racconto del viaggio di San Francesco in Egitto. L’esempio del Santo di Assisi è fondamentale perché la sua figura ed il suo insegnamento sono stati capaci di superare i confini del mondo cattolico. Egli, nella prospettiva del Pontefice, si è reso capace di andare oltre le distanze dovute all’origine, alla nazionalità ed alla religione. Recandosi in visita al Sultano Malik al-Kamil, Francesco d’Assisi ha dimostrato la vastità del suo sentimento nei confronti dell’umanità invitando i suoi discepoli a evitare sempre ogni forma di lite o aggressione pur trovandosi in terra straniera. Egli ha incarnato il sogno di una società fraterna perché:
“Solo l’uomo che accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per trattenerle nel proprio, ma per aiutarle ad essere maggiormente se stesse si fa realmente padre”.
Questa idea di fratellanza si discosta non poco dal messaggio “globalista” che spesso si cerca di attribuire al Papa. Infatti, sempre nell’enciclica si legge:
“‘Aprirsi al mondo’ è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone”.
Il rigetto dell’individualismo (il male per eccellenza dell’Occidente) e della massificazione che rigetta lo spirito comunitario in favore dell’uniformazione degli stili di vita vengono ripetutamente apostrofati in senso negativo all’interno di uno scritto pervaso di teologia della liberazione.
“L’avanzare di questo globalismo – prosegue il Pontefice – favorisce normalmente l’identità dei più forti […] ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere […] In tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il divide et impera”.
In questo contesto, citando il Cardinale cileno Raul Silva Henriquez (noto per la sua dura opposizione al regime di Pinochet), Francesco fa notare come i popoli che si alienano la propria tradizione per mania imitativa o violenza impositiva, per imperdonabile negligenza o apatia, perdono, insieme alla propria fisionomia spirituale, anche la propria consistenza morale, ideologica, economica e politica. Guerre, attentati e soprusi contro la dignità umana, in queste condizioni, è naturale che vengano giudicati in modi diversi a seconda del fatto che convengano o meno a determinati poteri e interessi. Quegli stessi poteri che dalla crisi del 2007/2008 hanno imparato ben poco, visto che hanno semplicemente rinsaldato le loro rendite di posizione e favorito maggiore dispersione sociale e individualismo.
Appare evidente come simili affermazioni non possano essere gradite a chi sull’uniformazione tecnico-culturale-economica ha costruito il suo impero ed ai suoi ascari ideologici: ovvero, a chi pretende beni illimitati per sé e li nega agli altri, a chi cerca di mantenere inalterato tale sistema e, dunque, a chi si è fatto giudice ed esecutore sul mondo intero. Specie se tale “critica” arriva da un’istituzione interna allo stesso “Occidente” che possiede ancora una (assai limitata rispetto al passato) capacità di influenzare gli orientamenti dei singoli e dei popoli. La stessa accusa di “immigrazionismo” decade una volta che nell’enciclica si legge a chiare lettere che il “diritto a non emigrare” debba essere riaffermato con forza. E che solo fintanto che non ci saranno seri progressi nella possibilità di concedere a tutti un’esistenza degna, l’accoglienza e la protezione dovranno essere un dovere cristiano.
Alla luce di quanto affermato finora, il Viaggio Apostolico di Francesco in Iraq assume maggiore rilievo non solo perché è il luogo di origine delle tre religioni abramitiche: ovvero, quel punto di origine dal quale si può ricostruire un mondo incentrato sull’idea di fratellanza religiosa. L’Iraq è anche il luogo in cui negli ultimi anni i poteri sopraccitati hanno compiuto danni maggiori. Nel 2003, in Iraq vivevano oltre un milione e mezzo di cristiani. Oggi, sono ridotti a trecentomila. Dall’inizio dell’aggressione nordamericana sono morte più di un milione di persone, ed un altro milione e mezzo vivono come rifugiati nel loro stesso Paese. Tali dati di fatto vengono spesso tralasciati o dimenticati dalla propaganda occidentale. Ed anche in questo caso si è scelto di dare particolare risalto al potenziale carattere “anti-iraniano” della visita del Pontefice al Grande Ayatollah al-Sistani: massima autorità religiosa dello sciismo in Iraq che ha rifiutato l’interpretazione rivoluzionaria khomeinista del “governo islamico del giureconsulto”.
Questo punto merita una particolare riflessione. È noto che la rivoluzione iraniana venne influenzata in modo determinante non solo dalla teoria di Ruhollah Khomeini ma anche dal pensiero di Ali Shariati e di altri intellettuali iraniani come Ahmad Fardid e Jalal Al-e-Ahmad. Soprattutto Shariati elaborò una distinzione tra sciismo nero (orientato al quietismo) e sciismo rosso (orientato alla trasformazione sociale) che ha segnato in modo determinante il percorso della rivoluzione islamica. L’Imam Khomeini, appartenendo ad una scuola di pensiero secondo la quale esiste un legame profondo tra misticismo, filosofia ed azione sociale, non poteva che incarnare appieno i caratteri dello sciismo rosso. Egli, infatti, riteneva che di fronte all’oppressione non poteva esistere alcun tipo di dissimulazione (taqiyya) per l’autorità religiosa. Di conseguenza, in una condizione di negazione non solo dell’Islam ma della stessa cultura e sovranità nazionali, il ruolo del dottore della legge era quello ribellarsi al potere e di farsene carico per il bene del popolo nel periodo dell’occultamento dell’Imam del Tempo.
Nella prospettiva di Khomeini, tale idea non aveva nulla di particolarmente originale. La questione del governo del dottore della legge, infatti, esiste sin dal principio dell’Islam. Dunque, attribuire patentini di “ortodossia” ad una delle due correnti sopra descritte dello sciismo imamita è semplicemente una pratica tutta occidentale. Ora, è cosa nota che i rapporti tra il Vaticano e la Repubblica Islamica abbiano storicamente conosciuto degli alti e bassi. Lo stesso Khomeini, a seguito di una lettera di Giovanni Paolo II in cui si chiedeva il rilascio degli ostaggi dopo l’assalto all’ambasciata statunitense di Teheran, domandò all’allora Pontefice come mai avesse così a cuore gli ostaggi nordamericani e non si fosse mai preoccupato per il destino del popolo iraniano oppresso dal regime filo-occidentale dello Scià. Tuttavia, la scelta di Francesco nasce essenzialmente dal rifiuto che la religione, anche sotto impulsi esterni, possa continuare ad essere utilizzata come strumento di scontro tra potenze regionali e non.
In conclusione, se si vuole muovere una critica reale, la visione di Francesco, nonostante si ponga in sostanziale antitesi come una sovrastruttura ideologica che per decenni è stata costruita sul modello dello scontro tra civiltà, rimane ancora imprigionata nella tela dell’“Occidente” (da intendersi in questo caso come costruzione ideologica e non geografico-spaziale). È conscia del suo tramonto ma appartiene spiritualmente al mondo che critica, essendo ancora pervasa del moralismo di matrice protestante che a partire dall’Età moderna ha irrimediabilmente inquinato il Cattolicesimo. Essa è capace di indicare il male, ma manca ancora della forza per assumere le posizioni radicali che dovrebbe sostenere per ridare vigore ad una istituzione da troppo tempo privata di legittimità.
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