Predicatore, agitatore, rivoluzionario, abilissimo oratore, Malcolm X è un’icona molto più complessa di quanto si creda, in fondo estranea a ogni cliché, sicuramente lontana dall’immagine “pop” che l’industria dell’intrattenimento ha cucito addosso alla sua salma post-mortem. È con gli anni ’90, infatti, grazie al lungometraggio di Spike Lee che ne consacra il nome a livello planetario, che Malcolm X subisce un processo di mercificazione simile a quello patito da Che Guevara. Si tratta di una vera e propria Malcolmania che ha trasformato la sua eredità in un brand. Dalla musica alla moda, dal cinema alle serie Tv, pensiamo alla coreografia di Beyoncé (che ha formato una X di ballerine sul campo del SuperBowl, durante l’intervallo) o ai tanti riferimenti che compaiono nella musica rap, fino alle magliette: Malcolm X è diventato un’icona facilmente accessibile quanto fraintesa, e tanto più fraintesa quanto più accessibile, quando la fruibilità spesso coincide con la semplificazione. Estraneo a ogni cliché politico, nondimeno, Malcolm X di semplice ha ben poco, se pensiamo che a destra è sempre stato ignorato e a sinistra nessuno è stato in grado di maneggiarlo fino in fondo, come è accaduto invece al suo rivale Martin Luther King, l’apostolo della nonviolenza beatificato sia in patria che oltreoceano, presso tutto il nostro gotha progressista ed ex-sessantottino che invece ha liquidato Malcolm X nel giro di pochi anni come una breve passione adolescenziale, dismessa insieme alle borse di tolfa e agli eskimo. Eppure Martin Luther King è il meno “proletario” tra i due: cresce nelle zone borghesi di Atlanta, frequenta le scuole private, si diploma al College dove si fidanza con una ragazza bianca di origini tedesche, si interessa alla condizione degli afroamericani a causa di qualche situazione spiacevole, poi per il tramite delle sue letture, soprattutto grazie all’influenza di Gandhi. Forse proprio per questo Martin Luther King non riuscirà mai ad intercettare il consenso tra le fasce più deboli della comunità nera, mentre Malcolm viene temprato sin dalla nascita dai problemi relativi alla segregazione – appartiene alle masse povere, i cosiddetti cats in the streets – e una volta iniziata la carriera di attivista infiammerà i ghetti e i sobborghi di Harlem, uno dei quartieri con il tasso più alto di disoccupazione e di criminalità di tutta la città di New York.
Malcolm X ha avuto un percorso intellettuale travagliato, alle volte contraddittorio, sicuramente visionario: a metà tra un Che Guevara metropolitano in giacca e cravatta, e un Sant’Agostino di Ippona a mano armata – proprio come il Santo con una vita da copione: il prima da peccatore (lo spaccio di droga, il racket, le rapine) e un dopo da convertito (la prigione, lo studio, l’avvicinamento all’Islam e l’attivismo politico). Ad ogni modo ciò che leggiamo nei suoi ultimi discorsi riesce ancora a raccontare le contraddizioni irrisolte di una società permanently unfinished (dal punto di vista demografico e sociale) come quella americana. Oltre ai timori per l’avvento di una guerra razziale, uno spettro che attualmente si aggira in tutte le società multietniche, dalla Francia alla Gran Bretagna, Malcolm X ha parlato di corruzione, brutalità poliziesca, degli eccessi del capitalismo ma soprattutto della distorsione dei fatti da parte della grande stampa, e ha tentato di formulare una soluzione al problema afroamericano in termini del tutto radicali. A differenza di Martin Luther King, ma più in generale dei Grandi Sei, quei “leader negri” che secondo Malcolm X lavoravano per sedare la ribellione dei neri, l’attivista non contempla tra i suoi strumenti rivoluzionari le marcette per la pace, i picnic sui prati, le manifestazioni, i piagnistei, i canti e le pagliacciate varie: «Durante una rivoluzione non si fanno queste cose: non si canta, perché si è troppo occupati a sparare».
Malcolm X pretende la libertà per gli afroamericani «con ogni mezzo necessario», persino con le armi, ribaltando completamente la massima cristiana del porgi l’altra guancia. Alle dimostrazioni, Malcolm preferiva le rivoluzioni: non integrarsi al sistema, ma ribaltare il sistema. Nei suoi discorsi infatti non c’è traccia dei toni della vittima, quei toni che oggi fanno parte di un vero e proprio “dispositivo” di conquista del consenso. Nessuno vittimismo, quindi, nessuna resistenza passiva, né tantomeno strategie riformiste e rivendicazioni puramente formali: «Quella dei negri – avrà modo di dire riferendosi all’approccio dei leader neri collusi con l’establishment bianco – è l’unica rivoluzione che abbia come scopo quello di eliminare la segregazione nelle tavole calde, nei teatri, nei parchi pubblici e nei gabinetti! Questa non è rivoluzione». Ecco perché a sinistra si è poi avuta tanta difficoltà nell’addomesticarlo, e lo stesso Obama, nella sua autobiografia, non fa in tempo a definire Malcolm X un punto di riferimento politico che subito si sente costretto ad abbandonarlo, attribuendo la sua “rabbia” a vicissitudini familiari, in particolare allo stupro da parte di un uomo bianco da cui è nata la madre. Anche oggi sul Detroit Red, qui in Italia, dopo qualche edizione degli anni Settanta, a parte la biografia di Haley, non si trova praticamente niente. Questa emarginazione culturale possiamo imputarla al fatto che Malcolm X non parteggia per l’“integrazione”, una parola ambigua, annacquata dagli attuali dibattiti e che ha fatto il paio con quella di immigrazione nei tempi più recenti. Malcolm X non voleva essere integrato nella società americana, tantomeno nel suo sistema capitalistico. Il “sogno americano”, lo stesso sogno a cui invece voleva prendere parte Martin Luther King, per Malcolm era un incubo: «No, io non sono americano. Sono uno dei ventidue milioni di neri che sono vittime dell’americanismo, uno dei ventidue milioni di neri che sono vittime della democrazia che non è altro che un’ipocrisia sotto mentite spoglie. Non vengo qui a parlarvi da americano, da patriota, non sono uno che saluta la bandiera o che la sventola a ogni occasione, no!». L’integrazione è una soluzione «falsa ed ingannevole [che] implica l’esistenza di alcune superiorità ed inferiorità implicite». Questo perché, sempre secondo Malcolm
«L’uomo bianco ha più paura della separazione che dell’integrazione. La segregazione vi tiene a distanza, ma non troppo lontano da esser fuori della sua giurisdizione, mentre se siete separati non avete più niente a che fare con lui. L’uomo bianco è disposto a integrarvi più di quanto non sia disposto a consentirvi di separarvi da lui».
Malcolm X, “Nessuno può darti la libertà”
Eppure, per Malcolm, la soluzione non poteva essere neanche la separazione, almeno non nell’immediato. A differenza di Elijah Muhammad, a capo della Nation of Islam, che incoraggiava la creazione di un etno-stato nero separato all’interno degli Stati Uniti (in attesa di riportare gli afroamericani in Africa), Malcolm auspicava – quasi in termini marxisti, da qui l’elogio alla Cina e la vicinanza ai Peasi filo-comunisti – una più equa redistribuzione delle ricchezze. Se la Nation of Islam era un’istituzione suprematista nera ma infin dei conti conservatrice e pro-capitalistica, che si limitava a fare introiti, a ordinare ai templi di vendere più giornali e a rispettare la legge senza grandi coinvolgimenti politici, Malcolm non reputava realistica la possibilità di costruire una ricchezza nera attraverso enti separati, né aveva simpatie per il welfare state, e quindi per quell’assistenzialismo umanitario che perpetuava la segregazione con altri mezzi. L’orgoglio nero, patrocinato da Malcolm X con dei toni anti-bianchi molto accesi in una prima fase, infine più moderati dopo l’allontanamento dalla NoI e il viaggio alla Mecca, aveva come scopo quello di spingere gli afroamericani ad aprire negozi, a fare carriera, a lottare anche nella sfera privata per migliorare la propria posizione sociale. Se la soluzione per lui era sempre la separazione e il “ritorno a casa”, si trattava però di un progetto a lungo termine, forse più retorico che non esecutivo: «la separazione che ci riporterà in Africa è un programma a lungo termine e, nell’attesa che si realizzi, ci sono ventidue milioni di afroamericani qui in America che hanno bisogno di cibo migliore, di vestiti migliori, di alloggi migliori, di un’istruzione migliore e di un lavoro migliore. E ne hanno bisogno adesso». Il dilemma tra separazione e integrazione, nel pensiero di Malcolm X, rimane quindi un’incognita di volta in volta “rimodulata” strategicamente per scopi politici. Anche negli ultimi discorsi pronunciati la sua posizione non è mai chiara, e quest’ambiguità gli consente spesso una più ampia mobilità retorica. Ad ogni modo per Malcolm il miglioramento della condizione degli afroamericani non corrisponde con la loro integrazione, o almeno non nella versione “assimilazionista” del concetto, ma nel senso di un riconoscimento immediato dei loro diritti umani, prima ancora che civili, senza che questo comporti una rinuncia alla propria identità africana: «Sangue africano, origine africana, cultura africana, legami africani. E vi sorprenderebbe sapere che abbiamo scoperto che nelle profondità del suo subconscio, l’uomo nero di questo Paese è tuttora più africano di quanto sia americano. Crede di essere più americano che africano, perché l’uomo [bianco] lo sta ingannando, gli sta facendo il lavaggio del cervello ogni giorno». L’integrazione perciò, quando orchestrata dai bianchi, rischia di espropriare l’afroamericano del suo patrimonio etnico e spirituale, generando uno sfasamento nella percezione di sé stesso: «Solo perché siete in questo Paese non significa che siete americani. No, dovete fare molta più strada per diventare americani. Dovreste godere dei frutti dell’americanismo e non ne avete mai goduto. Avete goduto delle spine, dei cardi, ma non dei frutti, no signori». Lui che da ragazzo si era sottoposto alla pratica della striatura dei capelli, invitava adesso i suoi conterranei a non disprezzare le proprie origini:
«Nell’odiare l’Africa e gli africani, abbiamo finito con l’odiare noi stessi, senza rendercene conto. Perché non si possono odiare le radici dell’albero e non odiare l’albero. Non potete odiare le vostre origini e non arrivare a odiare voi stessi. Non potete odiare l’Africa e non odiare voi stessi […]. Conoscete voi stessi e sapete quanto abbiamo odiato le nostre caratteristiche africane. Abbiamo odiato la nostra testa, abbiamo odiato la forma del nostro naso – volevamo uno di quei nasi lunghi da cane, sapete – abbiamo odiato il colore della nostra pelle e abbiamo odiato il sangue dell’Africa che abbiamo nelle nostre vene. E nell’odiare il nostro aspetto, la nostra pelle e il nostro sangue, abbiamo finito con l’odiare noi stessi. Il nostro colore è diventato per noi una catena – sentivamo tutti i vincoli che comportava – il nostro colore è diventato per noi come una prigione che sentivamo ci stesse confinando e che non ci permetteva di andare in questa o in quella direzione».
Malcolm X, “Nessuno può darti la libertà”
Il pensiero di Malcolm X, che possiamo rileggere nella sua ultima fase, quella più lucida benché su certi aspetti anche più ambigua, ci permette di capire come sia possibile che ancora oggi l’America, nonostante tutte le leggi emanate, a partire dal Civil Rights Act (1964) e il Voting Rights Act (1965), sia ancora una polveriera pronta a esplodere. Un laboratorio dove il melting-pot e il salad bowl sembrano avere fallito, dove da un lato si può avere un presidente nero, ma dove nelle carceri il 60% dei detenuti è di origine afroamericana. Dove gli Oscar impongono alle produzioni la clausola dell’inclusione forzata delle minoranze nei cast per poter concorrere, e allo stesso tempo dove il suprematismo bianco e l’Alt-right guadagnano sempre più consensi (sono 917 i gruppi organizzati che inneggiano all’odio razziale). Un Paese dove le istituzioni educative fanno a gara per dimostrarsi anti-razziste, ma finiscono per reclutare i neri, come nel caso di Yale, «a prescindere dai loro risultati nei test e da altri obiettivi accademici», e dove si dedicano programmi didattici, club, seminari, corsi, alloggi, perfino cerimonie di laurea esclusive per gli afroamericani, generando così una sorta di apartheid volontaria, in cui si incoraggiano gli studenti neri a guardarsi «come vittime o vittime potenziali, e come eredi di antichi soprusi». Un Paese in cui un sondaggio d’opinione pubblicato nel maggio del 1991 dal «Wall Street Journal» riportava che il 56% dei bianchi e il 66% dei neri erano convinti che le violenze razziali degli anni Sessanta potessero ripetersi in qualsiasi momento e per le stesse identiche ragioni. Un Paese in cui il movimento Black Lives Matter, subito dopo la morte di George Floyd, viene salutato positivamente dall’establishment democratico in un’ottica anti-trumpiana (per usarlo come comodity in vista delle elezioni, probabilmente, benché non abbia agevolato più di tanto Biden) ma che finalmente era nato proprio sotto la presidenza del democratico Obama, nel 2014. Insomma Malcolm X, una volta capito che non tutti «i bianchi sono diavoli» e che non tutti i neri sono santi, che né l’integrazione né la separazione avrebbero risolto il problema afroamericano, così come non lo avrebbero fatto la violenza e la nonviolenza, è riuscito a mettere a fuoco non solo le contraddizioni della White America, nel suo duplice volto di carnefice, quello umanitario e quello suprematista, ma anche di una cultura afroamericana che quando non è rivoluzionaria finisce spesso per essere complice, investendo il ruolo di Zio Tom e dando adito a banali politiche di tokenism all’interno di un sistema capitalista, prima ancora che democratico o repubblicano, che per mantenere il suo american dream può fare grandi concessioni simboliche e inclusive, ma non cambiare realmente la condizione degli afroamericani: un dilemma nel quale rischia di arenarsi anche il movimento BLM se prima di chiedere più integrazione, non si chiede a quale modello di società tenta di integrarsi. «L’integrazione in America – scrive Malcolm X – è un’ipocrisia nella forma più cruda. E il mondo intero può vederlo. Tutti questi privilegi di facciata vengono propinati al negro per poi dirgli: “Guarda cosa stiamo facendo per te, Tom”».