OGGETTO: L'egotismo dell'America first
DATA: 28 Gennaio 2020
Gli Usa si sono sempre approcciati in modo collerico alle questioni internazionali, un modo di fare dovuto alla fusione innaturale di nazionalismo e imperialismo universalista. Mentre l'impero americano si contorce su se stesso per colpa di uno scontro tra l'entourage di Donald Trump e i neocon più conservatori, il resto del mondo è vittima della perenne aggressività a stelle e strisce.
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Make America great again, anche a costo di prendersela con tutto o quasi il resto del mondo. Osservato nella pratica, dovrebbe essere completato in questo modo lo slogan della vittoriosa campagna elettorale di Donald Trump. Negli ultimi tre anni sono rari, infatti, gli Stati che si sono sottratti alle dure reprimende del turbolento presidente Usa. Con poche distinzioni tra avversari e presunti alleati. 

Proviamo ad elencare solo le principali questioni internazionali che Trump ha affrontato a muso duro, incominciando da quelle con i “nemici”. Ovviamente, si deve partire dall’Iran per cui l’inquilino della Casa Bianca sembra nutrire un’autentica ossessione, pari solo alla venerazione che prova per Israele. L’assassinio del generale Soleimani è stato quasi un’inopinata dichiarazione di guerra e ci si inganna se si pensa che la risposta di un Paese che celebra con fervore il culto dei martiri si fermerà al solo dimostrativo lancio di missili effettuato. La vendetta arriverà quando sarà meno attesa e nel modo più imprevedibile, anche perché gli Stati Uniti, ripudiando l’accordo sul nucleare, che fu la mossa migliore della presidenza Obama, hanno tolto agli iraniani la speranza di negoziare per farsi riconoscere il proprio ruolo di potenza regionale, costringendoli così a rispondere colpo su colpo. 

Con la Russia, Trump non prevedeva di arrivare ai ferri corti, pensando di intendersi facilmente con Putin, ritenendolo un maschio alfa al suo pari, ma il risultato è stato il continuo aumento delle sanzioni e il ritiro dal trattato Inf sui missili nucleari a raggio intermedio, sottoscritto da Reagan e Gorbaciov. In questo caso, è stata decisiva la russofobia degli apparati federali che, agitando la bufala del Russiagate, hanno fatto sì che il presidente si mostrasse inflessibile con Mosca per allontanare ogni sospetto. Il duro confronto con Pechino, invece, non è stato certo inaugurato da Trump, dal momento che un po’ tutto il mondo politico e intellettuale statunitense ritiene la Cina, in prospettiva, il nemico principale, il solo Paese in grado di mettere in discussione l’egemonia Usa. Il presidente ha comunque maneggiato la questione a modo suo, scegliendo il terreno commerciale con il fine di riequilibrare la bilancia commerciale, a colpi di dazi sempre più elevati. Per ora, sembra avere ottenuto un buon risultato come dimostra il recente accordo che obbliga la Cina a comprare duecento miliardi di dollari di prodotti made in Usa per due anni consecutivi, una quantità enorme che chissà se verrà rispettata. 

Per quanto riguarda la tecnologia 5G, la Casa Bianca continua, con non poca impudenza, a pretendere dai propri alleati, soprattutto europei, di non affidarsi alle aziende private cinesi che se ne servirebbero per trasmettere informazioni allo Stato. Come se non fosse noto, almeno dal tempo delle rivelazioni dell’ex collaboratore della Nsa Edward Snowden, che le grandi compagnie internet statunitensi sono sempre molto “disponibili” con il proprio governo. Ovviamente, Trump si è schierato anche contro il regime bolivariano del Venezuela, riconoscendo fin da subito l’autoproclamato presidente Juan Guaidò ed arrivando a trasformare le sanzioni in un embargo pressoché totale. L’impressione è che lo abbia fatto, più che per “la difesa dei diritti umani”, un tema che non lo appassiona, per un automatismo provocato dalla campagna di stampa contro Nicolàs Maduro il quale, in ogni caso, rimane per il momento al suo posto, nonostante i media internazionali un anno fa ne annunciassero ad horas la defenestrazione. 

È comunque l’animosità del presidente verso “gli amici europei” a suscitare maggiore sorpresa. Dopo avere imposto dazi per 7,5 miliardi di dollari in conseguenza della vicenda Boeing-Airbus, ora minaccia di aumentarli, mentre ha già stabilito sanzioni contro le aziende che partecipano alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2. Le rappresaglie annunciate dalla Casa Bianca per la Web Tax mirata a far pagare un minimo di imposte ai colossi digitali statunitensi, sembrano, in questi giorni, aver già provocato il tremebondo arretramento da tale proposito di Francia ed Italia. Uno studio di Mediobanca ha evidenziato che le grandi aziende internet Usa ottengono nel nostro Paese ricavi per 2,4 miliardi di dollari, pagando solo 64 milioni di tasse. In realtà, i ricavi raggiungerebbero i 31 miliardi, la maggioranza dei quali viene però dichiarata in paradisi fiscali europei come Irlanda e Olanda, ma il misero 3% della progettata tassazione pare eccessivo a Google e affini. Il che la dice lunga sulla credibilità della Ue e sull’alleanza tra pari di Europa e Stati Uniti in nome dei “valori occidentali”, strombazzata di continuo dalla propaganda liberale. 

L’aggressività in campo internazionale dell’attuale presidenza Usa contrasta con l’immagine di un Trump isolazionista che molti osservatori avevano tratteggiato all’inizio del suo mandato. Il fatto è che l’intenzione annunciata dal presidente di occuparsi prima di tutto del proprio Paese, abbandonando l’interventismo globale dei suoi predecessori, in particolare dello sciagurato George W. Bush, è stata equivocata. In qualche misura, Trump sta tenendo fede alle sue promesse, evitando di coinvolgere gli Usa, soprattutto sul piano militare, in aree e conflitti che non ritiene prioritari, cercando di smarcarsi dal ruolo di assoluto garante dell’ordine internazionale. Restiamo convinti che se avesse prevalso Hillary Clinton, legata all’interventismo liberale e alla crociata ideologica dei neoconservatori, il mondo, nei tre anni passati, sarebbe stato più conflittuale e, forse, avremmo assistito in Siria a un pericolosissimo “contatto” militare diretto tra Russia e Stati Uniti. Uno Stato-nazione dedito alla difesa dei propri interessi peculiari, libero da preoccupazioni e gravami universalistici di carattere imperiale, a parte la indefettibile tutela di Israele, è il modello che Trump, confusamente e contraddittoriamente, cerca di costruire. L’autore del libro “L’arte di fare affari” ritiene che ogni negoziato si conduca positivamente assestando prima qualche colpo al proprio interlocutore (dazi, sanzioni) per poi trattare da una posizione di forza. 

Quello di Trump è un nazionalismo senza vocazione missionaria: noi dobbiamo ottenere il massimo nelle questioni che ci riguardano, voi fate quel che volete a patto di non ostacolare il nostro tornaconto. Anche l’insistente richiesta agli “alleati” europei di contribuire maggiormente alle spese della Nato, un’organizzazione, come tutte quelle multinazionali, di cui diffida, non deriva  dal desiderio di rafforzare la macchina bellica a tutela dell’ordine internazionale liberale ma dalla volontà di pagare meno per mantenere quell’ordine. Il presidente è convinto che i clientes degli Stati Uniti abbiano da decenni approfittato, a basso costo, del ruolo della potenza egemone, ricavandone sicurezza e prosperità economica. Il riequilibrio della situazione, a cominciare dalle bilance dei pagamenti tra gli Usa e gli altri Paesi, è perciò l’architrave della sua politica internazionale.   

Quello statunitense, con le sue centinaia di basi militari in ogni angolo del pianeta, è però un impero e l’America è troppo grande e troppo più potente di tutti gli altri Paesi per trasformarsi in un semplice Stato nazione. La vocazione imperiale è tutelata dagli alti gradi della burocrazia, dagli apparati federali, in particolar modo dal Pentagono, dal Dipartimento di Stato e dai macroscopici e potenti servizi segreti che non si peritano di assestare colpi bassi al presidente per condizionarne la condotta. La postura “collerica” degli Usa nasce quindi dalla fusione innaturale di nazionalismo e imperialismo universalista e da ciò sorgono pure l’incertezza e l’ambiguità nella gestione dell’egemonia. Perché, come ha scritto il sociologo e politologo Maurice Duverger:

Mentre la nazione cerca di far corrispondere popolo e Stato, esso ( l’impero, ndr) associa popoli diversi. (…) Per conservare un impero è necessario che la sua unità rechi dei vantaggi ai popoli inglobati e che ognuno mantenga la propria identità. 

 L’egotismo dell’America first si concilia male con l’ancor più rapace afflato biblico della città sulla collina alla conquista del suo destino manifesto

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