OGGETTO: Arashi: sangue su Guadalcanal
DATA: 14 Luglio 2020
SEZIONE: inEvidenza
Dopo le Midway, lo scontro tra americani e Sol Levante è ad una svolta. L'inarrestabile marea a stelle e strisce comincia a prendere forza nell'umida giungla australe. L'inferno in terra, questa volta, è nel cuore di Guadalcanal.
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C’è un bellissimo film del 1998 diretto dal regista Terrence Malick che s’intitola La Sottile Linea Rossa ambientato durante la campagna delle Isole Salomone nel 1942. La pellicola è un capolavoro della cinematografia di genere storico-bellico che narra le drammatiche azioni di una compagnia di fucilieri americani nell’inferno verde di Guadalcanal durante le battaglie terrestri contro i giapponesi. Il film racconta molto bene la follia, l’angoscia e la violenza della guerra; a chi non l’avesse visto lo consiglio con sincera passione. 

Campagna di Guadalcanal: agosto 1942 – febbraio 1943. Dopo l’epico scontro aeronavale di Midway, di cui ci siamo occupati nella precedente puntata di Arashi, la nostra attenzione si sposta sul Globo di qualche migliaio di chilometri a sud. Raggiungiamo quindi l’arcipelago delle Salomone in Oceania. Si tratta di una costellazione di oltre mille isole. Si chiamano così perché il navigatore spagnolo Álvaro de Mendaña de Neira quando le scoprì nel XVI secolo pensava di aver trovato il luogo biblico delle miniere di re Salomone. Fantasie: laggiù c’è solo giungla, un mostro verde scuro che tutto copre e che tutto divora. L’isola più grande ed importante è Guadalcanal, il cui terreno montagnoso è ricoperto quasi per intero da foreste alquanto fitte e intricate. Non immaginiamoci la tipica cartolina oceanica da Polinesia paradisiaca con acqua cristallina, palme, cocktail con ombrellini colorati. Guadalcanal è un posto infame, una grossa escrescenza pacifica dove l’aria asfissiante è cotta al vapore. Umidità vischiosa, insetti preistorici, serpenti mitologici, acquazzoni da diluvio universale, zanzare assetate più di Nosferatu, malaria. La natura australe qui domina mai addomesticata, potentissima. Non è un posto per gli uomini civilizzati ed è giusto che sia così. Però gli uomini civilizzati ci vanno per fare la guerra. Prima del conflitto chi conosceva questa isola e la sua perfida giungla? Praticamente nessuno, non c’è nulla da depredare. Ma i giapponesi hanno costruito un aeroporto sul litorale nord-occidentale e questo nel ’42 cambia tutto. Gli aerei del Sole Rosso sono una minaccia serissima a tutto il traffico navale nel Mar dei Coralli. 

Come abbiamo visto nella precedente puntata di Arashi, la grande battaglia di Midway è stata lo spartiacque storico, la svolta decisiva dell’intera guerra. Il prestigio militare di Tokyo inizia il suo lento e straziante cammino verso il tramonto. Il Sole Rosso non acceca più gli Alleati. Non saranno più i giapponesi a condurre i giochi da attaccanti, da adesso in poi l’iniziativa è americana e toccherà ai samurai tentare di arginare la grande onda. L’inarrestabile marea americana, dopo Midway, ha il suo travolgente inizio sull’isola di Guadalcanal e nel mare attorno ad essa. Il comando americano agli inizi di agosto decide per un’invasione simultanea delle isole di Guadalcanal, Tulagi, Gavutu e Tanambogo. Per i giapponesi è una brutta sorpresa. Non se l’aspettavano, ma reagiranno tempestivi e con rabbia. 

A Tulagi e Gavutu gli americani assaggiano l’inferno che poi incontreranno per lunghe settimane a Guadalcanal. I primi a sbarcare sono i duri delle compagnie commandos dei marines, i Raiders, assaltatori d’élite. Ad opporsi ad essi c’è un’altra formazione scelta: la KTR – Kaigun Tokubetsu Rikusentai, composta da unità di fanti di marina giapponesi. Forze speciali contro forze speciali. 

Massima espansione giapponese nel Pacifico occidentale tra maggio e agosto 1942. Guadalcanal è situata nel quadrante in basso a destra della mappa

I Raiders corrono sulle spiagge, penetrano nella giungla, salgono sulle alture. Nervosissimi con dito sul grilletto: non c’è ombra del nemico, ma dove si sono cacciati? I marines avanzano in un terreno inquietante, così ricco di dirupi, gole oscure, grotte. I giapponesi adottano una tattica astuta. Invece di combattere gli assalitori sulla battigia durante lo sbarco, si sono nascosti per far passare le ondate d’assalto americane. Al momento opportuno li attaccano alle spalle, in mille azioni singole. È una tipica tattica terrestre che verrà utilizzata in tutto il corso della guerra. Accogliere il nemico con il silenzio e poi quando procede vulnerabile in colonne spaventate e lontano dai cannoni delle navi a protezione degli sbarchi, colpirlo con tutto quello che si ha a disposizione. A Tulagi, ogni anfratto, albero, cespuglio può essere una postazione di un cecchino. Bisogna spazzare il terreno fino al più recondito buco e le perdite sono pesanti. Gli americani, loro malgrado, scoprono quale sia un’altra tattica amata dal soldato giapponese.

Cala la notte tropicale alle Salomone, i marines si accovacciano nelle loro buche, insonni. Viene giù un violento temporale che fa un gran baccano di acqua e tuoni. Notte da incubo: come serpenti velenosi i fanti KTR strisciano nel fango verso le postazioni yankee impugnando pistole, granate e baionette. Negli stessi istanti altri plotoni KTR corrono indemoniati con urla stridule, non di questo mondo, verso la prima trincea nemica. Pazzi assassini suicidi. Non si curano delle proprie perdite, la cosa importante è uccidere prima di morire. La resa è l’infamia più miserabile; la possibilità di cadere in prigionia è una blasfemia che non deve essere nemmeno pensata. Sembra quasi una gioia crudele nel massacro. È il famoso attacco Banzai, una tipica carica di morte che sarà una costante per tutta la guerra. E quando si scatenano i furiosi corpo a corpo, e le ondate vengono falciate una dietro l’altra, ecco i fanti striscianti invisibili spuntare di colpo dal terreno nero, per alzarsi e mordere. Si spara davanti, dietro, in alto sugli alberi dove crescono i cecchini come frutti maturi. E poi la notte fradicia e caotica aiuta tutta una serie di terribili astuzie: i giapponesi sparano in aria cosicché gli americani rispondendo al fuoco svelano le loro posizioni, oppure urlano come ossessi nevrastenici affinché i nemici sparino in quella direzione mentre altri, quatti e invisibili, si avvicinano con le bombe a mano dal fianco opposto. Alle isole Salomone non si dorme più. 

La mattina del 7 agosto 1942 le navi al largo di Guadalcanal inaugurano la campagna con un massiccio tiro di artiglieria, coordinato con i bombardamenti aerei. Dopo la tempesta, un silenzio angosciante. Colonne di fumo nero si alzano dall’entroterra. Sbarcano i marines. Non un solo colpo di fucile. Nessuna resistenza; non c’è alcuna opera di difesa, solo una vegetazione fitta e attorcigliata. Ma dall’aeroporto di Rabaul in Nuova Guinea si sono già alzati in volo i Mitsubishi Zero e i bombardieri Betty. Non riescono però a recar nessun danno alla flotta nemica ma ingaggiano battaglia con i caccia Wildcat. L’aeronautica imperiale di certo non molla l’osso, e continua imperterrita a disturbare le operazioni di sbarco, aiutata in acqua dai sommergibili. 

A Guadalcanal non si combatte una sola battaglia, ma un nutrito insieme di grandi scontri in mare e in terra, il che ci porta a considerare il momento storico come una campagna. Per capire la totalità degli eventi è importante avere un’ampia visione delle azioni belliche che si susseguono tra loro, e per rendere il panorama semplice e comprensibile al lettore, farò una rassegna delle sfide principali lungo il periodo in esame (agosto 1942 – febbraio 1943). 

I marines sbarcano sulla spiaggia di Guadalcanal il 7 agosto 1942

Battaglia dell’isola di Savo

Accade in una notte buia e tempestosa. Il viceammiraglio Gun’ichi Mikawa salpa di gran carriera coi suoi incrociatori pesanti dalla base di Rabaul, per guastare la festa allo sbarco alleato. L’abile Mikawa balza sulla preda di mare, nella notte di temporale australe tra l’8 e il 9 agosto 1942. Tra i fulmini della tempesta che si tuffavano in acqua volano gli idrovolanti di ricognizione giapponesi e illuminano la scena con i razzi bengala. Né i marinai australiani né gli americani sono abituati a combattere nelle tenebre. Per loro è una novità. Mikawa lo sa e ne approfitta. Sotto la superficie dell’acqua schizzano i siluri, in aria fioccano le cannonate. Colpiti e affondati gli incrociatori Canberra, Quincy, Astoria e Vincennes. Immense torce galleggianti, dove ardono centinaia di uomini, prima di venire inghiottiti dal Pacifico. La nave Chicago e altri due cacciatorpediniere sono ridotti a rottami, si ritirano mezzi rotti. Per Mikawa e la marina imperiale è una grande vittoria. Yamamoto ne è felice. Per gli alleati è invece una sconfitta bruciante. Il comandante della nave Chicago addirittura si toglierà la vita. Il senso del disonore nella disfatta non è esclusiva giapponese … Ma, attenzione! Subito è chiaro che l’esito tattico è tutto dalla parte del Giappone, certamente, ma d’altro canto, in un’ottica strategica più ampia la flotta punitiva di Mikawa non ha raggiunto l’obiettivo della sua vera missione che era quello di annientare le navi da trasporto alleate, cioè quelle dei rifornimenti essenziali per le operazioni terrestri a Guadalcanal. L’euforia della vittoria per aver ficcato una bella batosta alla flotta nemica ha distolto l’attenzione dalla vera opportunità mancata: si è colpita la formazione a protezione della forza di sbarco, e non viceversa, come sarebbe dovuto essere, cioè si è ammazzata la guardia del corpo e non il corpo vero e proprio. 

L’USS Quincy affonda dopo essere stato colpito da colpi di cannoni e siluri partiti dagli incrociatori giapponesi. Le fiamme all’estrema sinistra sono probabilmente dell’USS Vincennes, anch’esso colpito dalle navi giapponesi

La pista aerea di Henderson Field

Il generale dei marines Alexander Vandegrift, comandante in capo della spedizione di Guadalcanal, è seriamente preoccupato. La disfatta della flotta alleata ha provocato una ritirata delle navi da trasporto essenziali. I rifornimenti sono vitali, e ora i marines sono abbandonati a loro stessi. Razionamento per 11.000 uomini sulla difensiva. Nel frattempo a Tokyo, al Gran Quartiere Generale Imperiale Dai Honei viene convocato d’urgenza il tenente generale Haruyoshi Hyakutake comandante della 17° armata con responsabilità per le operazioni in Oceania. Per i Giapponesi Guadalcanal è fondamentale per tutti i movimenti presenti e futuri nel settore dell’Australia. Dunque per proteggere le Salomone dagli americani, a Hyakutake viene affidata una forza offensiva davvero notevole: 50.000 uomini tra cui le temibili truppe veterane del corpo scelto della seconda divisione Sendai. Il contingente è sì poderoso, ma il morale di quei soldati è viziato dalla propaganda. Vanno a combattere sottovalutando in modo grossolano il nemico. Ecco, i giapponesi commettono lo stesso identico errore psicologico che avevano commesso i loro avversari nelle prime fasi della guerra. Considerano gli americani dei buffoni, dei palloni gonfiati, codardi, deboli, razzialmente inferiori. Probabilmente è l’effetto di un’antica mentalità nipponica unita ad una propaganda nazionalista pianificata dal gabinetto del generale Tōjō e strillata in continuazione, martellante, nonché come conseguenza delle straordinarie vittorie dei primi mesi che hanno offuscato il raziocinio con un delirio di onnipotenza. Ma a Guadalcanal non ci sono soldatini impigriti dal clima tropicale e da anni di pace, c’è il Corpo dei Marines, insomma, sappiamo bene che non scherzano mica. 

Intanto, gli americani si asserragliano lungo un perimetro difensivo attorno a quello che diventerà l’aeroporto di Henderson Field. I giapponesi iniziano a molestarli conducendo operazioni mordi e fuggi nella giungla condotte da piccoli gruppi autonomi e ricorrendo a dozzine di cecchini solitari sparsi ovunque. Per ambedue gli schieramenti quel terreno è un incubo: c’è questa giungla carnivora, appestata, bollente, che rende debole chi vi entra. Uscire di pattuglia per andare a caccia di cecchini in quell’inferno verde, con la sensazione di essere spiati di continuo e di essere sotto tiro di un nemico invisibile è causa di angoscia collettiva. E per gli americani non esiste riposo perché nel cuore della notte i cannoni delle navi nipponiche martellano per non farli dormire, per terrorizzarli e per spaccare i nervi. Ciononostante i genieri lavorano senza sosta per completare la pista aerea che il 17 agosto è pronta. Grazie all’aeroporto di Henderson Field (così battezzato in onore di un pilota marines caduto a Midway) gli americani hanno un grande vantaggio sul nemico. 

Nella notte tra il 18 e il 19 di agosto arrivano i rinforzi giapponesi. Le prime truppe a sbarcare sono quelle del reggimento del colonnello Kiyanao Ichiki che a torto pensa di dover compiere una semplice operazione di rastrellamento. Notte del 20 agosto. La giungla mostro verde è adesso massa scura dove animali sconosciuti innervosiscono le sentinelle insonni con versi primitivi. I fanti di Ichiki avanzano nella foresta a passi felpati, zitti, avvolti dalla massa nera. Alle 3.10 strilla una voce dal buio profondo. Luce rossa di razzo segnalatore. Dopo mezzo secondo ufficiali soffiano nei fischietti. Dopo un altro mezzo secondo i cannoni, i mortai, e le mitragliatrici pesanti fanno fuoco tutte assieme. Dalla quiete al pandemonio in uno schiocco di dita: i traccianti disegnano linee rette tra il fogliame, i bengala ingialliscono gli alberi, le granate alzano la terra in bagliori accecanti. In tutto quel chiasso spaccatimpani, i marines odono un terribile grido di mille voci: 

Banzai!

Immaginiamo l’estrema adrenalina di quel momento, che scorre nelle vene dei soldati di ambedue gli schieramenti. L’urto terrificante successivo tra attaccanti e attaccati ricorda uno scontro medievale. A balzi, i fanti nipponici riescono a passare la primissima linea nemica avanzata ma subito dopo vengono intrappolati e sbrindellati dai reticolati di filo spinato, e le mitragliatrici dei marines li massacrano. L’artiglieria yankee, con sangue freddo, cadenza il tiro con traiettoria crudelmente precisa. I reparti di Ichiki sono fatti a pezzi. All’alba i marines passano al contrattacco, e rastrellano la zona palmo a palmo. I giapponesi da attaccanti ora sono rintanati nelle buche a difendersi con la loro solita ostinata disperazione. Nel primo pomeriggio intervengono i carri armati che schiacciano i superstiti – letteralmente. Il colonnello Ichiki, da solo, si rifugia in un cratere di un proiettile di mortaio, brucia la bandiera del reggimento, si inginocchia, estrae dalla fondina la propria pistola Nambu, e si spara alla tempia. 

Henderson Field a Guadalcanal nel tardo agosto 1942, poco dopo l’inizio delle operazioni degli aeronautica alleata

Battaglia delle Salomone orientali

I giapponesi, viola di rabbia, meditano una spedizione punitiva. Pianificano un’offensiva da condurre in modo simultaneo per terra e per mare. Vogliono buttarsi su Henderson Field con migliaia di uomini e nel frattempo scagliare fuoco e fulmini dal mare sulle posizioni dei marines. Occorre una sortita di navi da battaglia in grande stile, con il consueto appoggio aereo. Gli ammiragli Yamamoto, Nagumo, Kondo, tornano alla guerra con le due portaerei Shokaku e Zuikaku, due corazzate, tre incrociatori pesanti, una sfilza di cacciatorpediniere e un branco di sommergibili. Una flotta di certo temibile. Ai giapponesi piace congegnare le trappole. A far da esca per attirare la US Navy nella rete è designata la piccola portaerei Ryujo, mandata al martirio insieme ad un altro gruppo di navi. La forza dell’ammiraglio Fletcher ci casca e attacca l’esca, mentre lo squalo nemico si avvicina per mordere. La Ryujo come da cinici piani, brucia, si capovolge e cola a picco. Nagumo pregusta il grosso boccone. Dalle sue due portaerei si alzano le due ondate di attacco. Come già visto in precedenti scontri aeronavali, il cielo diviene scenografia di scoppi, duelli, comete artificiali. Ma dopo Midway, le forze aeree giapponesi hanno perso grinta, mezzi importanti, e validi piloti. Gli americani, d’altra parte, dispongono di un gran numero di velivoli e di aviatori temprati. Le sorti della battaglia vengono presto rovesciate a favore degli yankee che prendono l’iniziativa contro il grosso convoglio di trasporto truppe che avrebbe dovuto far sbarcare forze ingenti a Guadalcanal, mettendolo in fuga. 

Chūichi Nagumo

Tokyo express

Certamente il generale Hyakutake non desiste e nemmeno i colleghi di marina demordono. Puntuale come per una maledizione notturna, alla mezzanotte, vengono lanciati razzi illuminanti sopra le posizioni dei marines e subito dopo ecco scatenarsi il consueto concerto di cannonate. I nervi degli americani a Henderson Field sono a pezzi. Poi, sfacciati e insolenti, fanno la loro solita spola i Tokyo express: così vengono chiamati i convogli sottomarini e di cacciatorpediniere durante la campagna dell’isola di Guadalcanal. Sono convogli di rifornimento, che portano truppe fresche nel carnaio, puntuali, giornalieri, sfiancanti. I Tokyo express arrivano in orario come i treni espresso. Sono motivo di grande frustrazione per il nemico, perché non riescono a fermarli. Impasse alle Salomone: il dominio del mare appartiene per le dodici ore diurne agli americani e al calar del sole, cambio della guardia, l’acqua è tutta per i giapponesi. Il giorno agli USA, la notte all’Impero, si sono divisi il tempo così. Logoramento. 

La sera del 12 settembre, gli scalmanati del generale Kawaguchi attaccano urlando le compagnie Raiders trinceratesi su una cresta a sud dell’aeroporto. Per una notte intera si consuma un’orrenda carneficina corpo a corpo. I giapponesi urlanti riescono a conquistare una posizione favorevole sull’altura sopra Henderson Field ed è da lì che Kawaguchi vuole fare il balzo decisivo verso la pista. Questa volta fanno uso di granate al magnesio accecanti, così da rendere ancora più allucinante la loro classica carica a rullo compressore. Ma gli attacchi sono fermati da un precisissimo e spietato tiro di artiglieria. La selva di reticolati e i nidi di mitragliatrice finiscono il lavoro. I battaglioni d’assalto sono Zemetsu – annientati. 

Truppe giapponesi si imbarcano su un cacciatorpediniere che le porterà a Guadalcanal; gli statunitensi soprannominarono Tokyo Express tali operazioni anfibie

Il delta di Metanikau

Ormai per Tokyo, l’aeroporto di Henderson Field è una vera ossessione a cui dedicare tutti gli sforzi possibili, senza curarsi delle perdite. Le cose si complicano perché nonostante un piano di attacco sottomarino studiato da Yamamoto, i tanto attesi rifornimenti via nave giungono alla base dei marines. La copertura aerea americana è ora indiscussa. Il generale Vandegrift capisce che il delta del fiume Matanikau, a tre chilometri dall’estremità orientale del proprio perimetro di difesa, è per il nemico un punto essenziale per i propri rifornimenti nonché una solida base per i ripetuti attacchi ai danni dell’aeroporto. Agli inizi di ottobre, si consumano, giorno e notte, violentissimi combattimenti – anche all’arma bianca – nei pressi del delta del fiume. I giapponesi, grazie alla forza aerea della base di Rabaul, insistono con pesanti bombardamenti, e dal mare sbarcano i reggimenti della seconda divisione Sendai a dar manforte ai soldati fortemente provati dalla fatica e dalla malattia. 

Carri armati distrutti e corpi di soldati giapponesi della 17ª armata giacciono alla foce del fiume Matanikau dopo un assalto fallito alle posizioni difensive statunitensi il 23 – 24 ottobre 1942

L’ostinazione samurai

I giapponesi insistono per terra, per aria, per mare, ma è un accanimento che sembra essere dettato da una furia cieca, dall’isteria. I Tokyo Express vengono caricati con artiglieria pesante, per risolvere la partita con i grandi botti. Il viceammiraglio Mikawa si dirige a tutta forza con il suo convoglio di rifornimento mentre l’ammiraglio Aritomo Gotō con incrociatori e cacciatorpediniere dal largo prende di mira Henderson Field. Ora però, la US Navy si è addestrata al combattimento nelle tenebre, e nella notte tra l’11 e il 12 ottobre, le navi dell’ammiraglio Scott intercettano il nemico, e lo battono. Gotō muore in combattimento. Centinaia di marinai giapponesi finiscono in acqua e si rifiutano di venir ripescati dagli americani. Preferiscono gli squali. Comunque, il Tokyo Express di Mikawa riesce nell’obiettivo di far sbarcare a Guadalcanal uomini e cannoni. Gli stati maggiori imperiali di marina e esercito si preparano ad una grande offensiva. Sforzo massimo. Un nuovo contingente navale nipponico si avvicina alle coste di Guadalcanal. Alla mezzanotte in punto del 14 ottobre, un aereo da ricognizione ronza sopra le teste dei marines per segnalare le posizioni alle corazzate al largo. All’una di notte, si scatena un vero e proprio terremoto di cannonate. Henderson Field è ridotto ad un paesaggio marziano di crateri e lamiere fumanti. Il bombardamento è stato devastante, cinquanta aerei andati perduti sulla pista, quasi tutte le costruzioni polverizzate, morti e feriti ovunque. La notte dopo si replica con un diluvio di 1500 proiettili. 

Il generale Hyakutake lancia la grande offensiva terrestre nella sera del 21 ottobre, con attacchi simultanei del perimetro americano. Il primo tentativo è condotto con un cuneo corazzato di carri armati leggeri. Sfortunatamente per gli attaccanti, un buon colpo di artiglieri centra in pieno il primo carro della formazione, afflosciando lo slancio iniziale. Gli artiglieri yankee hanno una mira infallibile e distruggono un gran numero di batterie nemiche. I giapponesi ci provano ancora con i carri nello spaventoso assalto del 23 ottobre, ma il mezzo capofila è preso in pieno, e gli altri che seguono sono bloccati e uno dopo l’altro finiscono in fiamme. I fanti in corsa nelle linee nemiche non hanno più la protezione d’acciaio e sono massacrati. Nelle due sere e notti successive, i giapponesi testardi si riversano in massa contro le difese dei marines, senza sosta, senza indugio, verso la morte. Onde umane che si infrangono nella grande carneficina di Guadalcanal. Vincere o perire: senza retorica, quella è la strategia suprema del comando imperiale, e su quell’isola maledetta di inferno verde, periscono a migliaia. Il Sol Levante getta nella mischia carnivora reggimenti, navi, aerei, piloti … già i piloti: i migliori cadono a Midway e a Guadalcanal, per rimpolpare i ranghi tocca andare a prenderli direttamente nei corsi non ancora ultimati delle accademie; via via che il conflitto continua nei suoi ritmi crudeli la famosa perizia dei piloti giapponesi perde terreno, e al contrario, gli avieri americani si fanno più bravi e spietati. Un dato a conferma di quanto appena detto: tra il 22 e il 27 ottobre 1942, in concomitanza con le azioni di terra, gli squadroni aerei non danno tregua a Henderson Field, ma il bilancio è drammatico. I giapponesi perdono ben 113 apparecchi contro soltanto 14 americani. Guadalcanal è ormai un’ossessione che offusca la ragione strategica. Chiodo fisso: si sono impuntati. 

Gun’ichi Mikawa

Il duello di Santa Cruz e l’ultima portaerei americana

Yamamoto è deciso ad impedire i convogli di rifornimento americani. Gli ammiragli americani vogliono togliere di mezzo la flotta nemica dalle isole Salomone. I due comandanti nemici, Kondō e Kinkaid sembrano due sfidanti durante un duello mortale alla pistola: gli aerei sono i proiettili. La mattina del 26 ottobre, in simultanea, le ondate aeree nipponiche e yankee si alzano in volo dalle portaerei e si incrociano a metà strada. È mischia furibonda in aria, caccia Zero e Wildcat sono schiere di destrieri delle nuvole che piroettano tra scariche di mitragliatrice. Ma i piloti giapponesi in quest’occasione tornano a compiere una grande impresa e affondano il prodigio della US Navy, ovvero la moderna portaerei Hornet, quella che aveva compiuto il raid su Tokyo dell’aprile precedente. È davvero un duro colpo per gli americani: in quelle settimane di guerra, in attesa di vari futuri, dispongono solo più di una portaerei, l’Enterprise. Questa vittoria però, al di là del valore propagandistico, non è sufficiente a far cambiare l’ago della bilancia a favore del Sol Levante perché i rifornimenti americani verso Guadalcanal non cessano, e Henderson Field rimane saldamente in mano dei marines. 

Una bomba giapponese esplode sul ponte della USS Enterprise

“Piero il pistolero”

Così i marines hanno ribattezzato le batterie d’artiglieria nemica. “Piero il pistolero” che puntuale ogni giorno e ogni notte spara senza parsimonia di proiettili e fa tremare la terra di Henderson Field. Il primo novembre si tenta la sortita e unità di marines partono all’assalto delle batterie nemiche verso il delta di Metanikau e devono prenderle una ad una, in una serie di combattimenti durissimi, anche alla baionetta. Gli scontri nel settore si susseguono fino al 4 di novembre, in una dimensione crudele di paludi, zanzare, serpenti e corpo a corpo. Numerose bocche da fuoco sono per sempre messe in silenzio e un intero reggimento di fanteria nipponica sparisce dalla faccia della terra, divorato dalla battaglia. 

La decisiva battaglia navale di Guadalcanal

I giapponesi non desistono, guerrieri testoni. Yamamoto decide per un’ennesima grande operazione di mare, con l’obiettivo di proteggere un grosso convoglio di rinforzi, e al contempo dare nuovamente battaglia alla flotta yankee. Nella notte tra il 12 e il 13 novembre la forza d’incursione del viceammiraglio Hiroaki Abe viene a contatto con la flotta dell’ammiraglio Daniel Callaghan. Ma è una notte alquanto strana: oscurità profonda, tempesta, la luna è rintanata. Non si vede nulla. Quando le due flotte si avvistano l’un con l’altra, sono davvero vicine. Ambedue gli schieramenti, americani e giapponesi, rimangono sbigottiti. Tutti e due esitano a fare fuoco. È una situazione alquanto bizzarra. In quei momenti convulsi, le navi di ambo le parti iniziano a incrociarsi tra loro, in un assurdo ingorgo tra nemici. Riflettori accesi! Fuoco, fuoco a volontà a dritta, a babordo, a poppa, a prua! Qualcuno ricorda: 

È una rissa da bar dopo che le luci sono state spente. 

La situazione diviene episodio singolare, unico nella guerra navale del secondo conflitto mondiale: un traffico aggrovigliato di scafi, vampe di bocche da fuoco impazzite, le scie di siluri s’incrociano sotto la superficie dell’acqua. Che caos. E il fuoco amico di certo non è meno pericoloso di quello nemico. Il contrammiraglio Scott e tutto il suo stato maggiore sul ponte dell’incrociatore Atlanta viene polverizzato dalle salve ravvicinate della nave ammiraglia San Francisco del comandante Callaghan. È una sorta di sanguinaria danza marina tra cacciatorpediniere e incrociatori che manovrano in spazi ristretti, rischiano collisioni, si sparano a distanza ravvicinata con inaudita violenza. Ricorda una battaglia navale dell’epoca napoleonica, quando i grandi velieri si cannoneggiavano fianco a fianco, vicini, e coi marinai pronti all’arrembaggio pugnale fra i denti. La mischia è estremamente confusa. Le sagome delle navi appaiono a tratti per via dei continui incessanti lampi artificiali d’artiglieria; il mare di Guadalcanal pare pista da ballo illuminata da luci strobo. 

La corazzata Hiei con a bordo il viceammiraglio Koki Abe, complici i suoi riflettori accesi, diviene bersaglio prediletto delle navi americane. La Hiei, vecchia solida gloria della marina imperiale (varata nel lontano 1912), ha una fisionomia molto particolare, con la sua alta torre che ricorda una fortificazione del Giappone feudale. La San Francisco dirige il tiro sulla Hiei non accorgendosi che un cacciatorpediniere nemico, insidiatosi spavaldo tra la formazione americana sta scivolando silenzioso e vicinissimo al suo scafo, e da questa fortunata posizione apre il fuoco a mitraglia. Callaghan e ufficiali vengono fatti a brandelli. La rissa navale nella notte senza luna continua brutale e caotica tra scafi spezzati e rovesciati, tuffi nel mare corretto nafta, navi incendiate che si trascinano lentissime via dagli scontri, completamente avvolte dalle fiamme come vascelli infernali. In quella totale confusione capita che gli incrociatori si fermino l’uno davanti all’altro, senza fare fuoco, perché si chiedono chi diavolo si trovi davanti, se amici o nemici, in una tragicommedia da cardiopalma. Tutti gli ordini di battaglia dei rispettivi schieramenti sono andati a farsi benedire, le navi sono ormai prive di comunicazione radio, ogni comandante pensa per sé. Mentre in superfice c’è tempesta di cannonate, sotto l’acqua i sommergibili giapponesi cercano prede appetitose. Trovano l’incrociatore Juneau. Un siluro lo colpisce a prua e lo fa esplodere in un’eruzione marina e apocalittica di spruzzi, rottami, fumo. Quando la nuvola svanisce non rimane niente. Come se un incrociatore con a bordo 700 uomini fosse svanito nel nulla per una perfida magia. Solo dieci i superstiti. 

Quando sorge il sole gli aerei di Henderson Field decollano e si dedicano incattiviti alla corazzata Hiei. Il vecchio arnese della marina nipponica sembra non volere affondare. Un anziano pachiderma d’acciaio che nonostante bombe e siluri non ha intenzione di morire. Gli americani riusciranno a mandarla giù solo dopo diversi sforzi, quando rimarrà della Hiei solo una grande chiazza di nafta: la lapide nera, “qui giace la gloriosa Hiei (1912-1943) dalla torre che sembrava un castello medievale”. Ma le parti in lotta non ne hanno abbastanza. Il 14 novembre Yamamoto fa intervenire la squadra navale dell’ammiraglio Mikawa per proteggere il convoglio da sbarco del contrammiraglio Tanaka, mentre il contrammiraglio Kondo raduna tutte le forze ancora valide al largo di Guadalcanal, per avvicinarsi a Henderson Field e annientare una volta per tutte, e a suon di obici, quel maledetto aeroporto che non fa dormire la notte né americani né giapponesi. In questa seconda fase della battaglia (14-15 novembre 1942) sono di nuovo botte da orbi. La corazzata Kirishima viene devastata dai colpi della Washington, il timone non risponde più, la nave, diventata tizzone ardente, inizia a piroettare su se stessa, fino a sparire nei flutti, sabotata dal suo stesso equipaggio, come consueto e pietoso colpo di grazia. Alle 4 della mattina del 15, quattro cargo con a bordo truppe e materiale essenziali per le operazioni di terra, si arenano a punta Tassafaronga ma non fanno tempo ad ultimare lo sbarco perché piombano aerei e cannonate dalle batterie costiere di Henderson Field. È come sparare a pesci in un barile con bombe incendiarie. I soldati giapponesi tentano terrorizzati tra gli elementi acqua e fuoco di raggiungere la riva ma è una decimazione orribile. Cadono a migliaia sulla risacca e la maggior parte del materiale indispensabile per continuare l’offensiva contro l’aeroporto rimane tra le lamiere abbrustolite delle navi. È un disastro; l’ossessione per Guadalcanal è stata fatale. 

La USS Washington apre il fuoco contro la corazzata Kirishima

Ultimi fuochi

Sull’isola i reparti giapponesi sono messi male. La malattia falcia gli uomini quanto le mitragliatrici americane. Le squallide razioni di riso vengono ulteriormente ridotte. I ranghi si indeboliscono. Le divise sono a brandelli e non c’è cambio. Poche le munizioni, rare le medicine, l’acqua potabile scarseggia. I Tokyo Express sono meno spavaldi di un tempo e giungono a singhiozzo, scaricando barili di rifornimenti direttamente in mare, in prossimità della spiaggia, senza però potersi fermare perché artiglieria e aerei nemici sono in agguato costante. Per racimolare quelle misere scorte, i soldati sono costretti a tuffarsi in acqua. 

A dicembre, dopo l’ultimo importante scontro navale di Tassafaronga condotto dal tenace contrammiraglio Tanaka, i giapponesi cominciano ad evacuare. Feriti e ansimanti per la lunga lotta, mollano l’osso. Henderson Field non può essere preso. Persino il duro Tōjō dopo accesi litigi con la marina, è costretto ad ammettere che la costosa ostinazione di Guadalcanal non ha più senso. In Patria gli speaker alla radio mentono spudorati, raccontando al popolo che esercito e marina hanno riportato una grandiosa vittoria alle Salomone e che ora sono in corso particolari “movimenti strategici” di truppe. 

Durante le prime settimane dell’anno di guerra 1943, alle unità dell’US Army che hanno sostituito gli stravolti marines nella campagna, tocca l’ingrato compito di spazzare via i crinali fortificati e le sacche di resistenza ancora presenti sull’isola, lasciate lì per coprire la ritirata al grosso delle forze giapponesi. Sono scontri finali a Guadalcanal ma per questo non meno feroci. Gli americani ormai conoscono quale fanatismo contraddistingue i guerrieri del Sol Levante, e il bel film La Sottile Linea Rossa, di cui accennavamo all’inizio dell’articolo, ricostruisce bene quelle atmosfere disperate, di guerra putrida, fanatica, incancrenita nelle umide voragini dell’inferno verde. I giapponesi, orgogliose belve ferite, combattono e si fanno abbattere fino all’ultimo uomo. Non sarà la prima volta, né di certo l’ultima. 

La campagna di Guadalcanal è durata dal 7 agosto 1942 al 9 febbraio 1943. È un arco temporale molto significativo. Sulla mappa del Mondo, spostandoci con il dito di migliaia di chilometri ad ovest, arriviamo ad indicare un altro luogo storico, uno dei più importanti di tutto il Novecento: Stalingrado, dove si è combattuto pressoché nello stesso periodo, da luglio ’42 al febbraio ’43, quando le ultime resistenze tedesche si spengono nel quartiere delle fabbriche. Precedentemente, quando ci siamo occupati di Midway, abbiamo fatto il parallelismo tra le due grandi battaglie della seconda guerra mondiale, che simboleggiano il cambio di rotta del destino tra forze dell’Asse e Alleati. Con la frenetica successione di battaglie di Guadalcanal invece, seppur meno incisive dell’incredibile giorno di Midway, si hanno altre caratteristiche simili con Stalingrado: il già citato arco temporale, l’accanimento dei contendenti oltre alla ragione strategica, l’importanza simbolica del luogo per la propaganda, l’ostilità del clima (di là neve e freddo boia, di qua infida giungla e caldo soffocante e malarico). Da febbraio 1943 e a livello globale dunque, per l’Asse inizia la dolorosa marcia verso la catastrofe.

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