OGGETTO: Dopo la globalizzazione
DATA: 09 Maggio 2025
SEZIONE: Economia
E se sotto il caos voluto del Presidente americano si celasse una certa chiarezza, dimostrata dalle ultime iniziative dell’Amministrazione, sulla metamorfosi indispensabile nella strategia e sul divario tecnologico americano che in un futuro più o meno prossimo possa garantire l’egemonia? La politica americana spasima di capire cosa avverrà dopo la globalizzazione classica. E il mondo con essa. Cercare di fare un bilancio di questi primi mesi di nuova amministrazione statunitense, dunque, non è solo utile, è anche fondamentale per capire dove andrà l'Italia.
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Il Presidente degli Stati Uniti, per voce di Truth (il proprio social network), ha detto qualche giorno fa di pretendere, con la solita superbia, la gratuità di transito dei propri mercantili nei canali di Panama e Suez. «Alle navi americane sia militari sia commerciali, dovrebbe essere permesso di navigare gratuitamente lungo il Canale di Panama e quello di Suez. Quei canali non esisterebbero senza gli Stati Uniti d’America. Ho chiesto al segretario di Stato Marco Rubio di occuparsene immediatamente». Il mare ha sempre rappresentato l’elemento di discernimento fra potenze che aspirano, almeno, all’estensione globale. Con l’apprendistato della Prima guerra mondiale e poi con l’esame ampiamente e brillantemente superato della Seconda, gli Stati Uniti hanno partorito e imposto la propria globalizzazione grazie alle proprie Marine Militare e mercantile.

Il celebre Ammiraglio Alfred Thayer Mahan, nel saggio L’interesse degli Stati Uniti rispetto al dominio del mare presente e futuro (Anteo Edizioni), con largo anticipo sugli esiti delle due guerre mondiali, a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, lamentava e prevedeva per Washington: il disinteresse per le rotte marittime e per la dominazione dei traffici del resto del mondo e l’estrema importanza di vigilare la catena da Gibilterra al golfo di Aden, fino all’India, al pari dell’espansione pacifica. Di recente l’ufficio per la responsabilità governativa degli Stati Uniti ha esposto una circolare in merito alla grave decadenza della cantieristica navale, soprattutto militare: «Malgrado l’aumento fino a quasi il doppio del denaro destinato per la costruzione navale, negli ultimi vent’anni la Marina Militare non ha accresciuto il numero di navi della sua flotta. Le pratiche di acquisizione si traducono costantemente in elevati costi e ritardi nelle consegne. Ad esempio, il programma riguardante le fregate ha iniziato la costruzione anzitempo la progettazione e si prevede che il primo battello venga consegnato con almeno tre anni di ritardo».

La classe di fregate Constellation comincerà l’attività con tre anni di ritardo, mentre le recenti operazioni sulla guardia costiera (Littoral Combat Ship) ed il cacciatorpediniere classe Zumwalt, hanno promesso capacità eccessive rispetto a quelle che la Marina Militare avrebbe poi potuto offrire. Le due classi, infine, hanno generato un esborso di decine di miliardi in più rispetto al preventivato. Non basta, il richiamo dell’ufficio evidenzia poi la necessità di Washington d’avvalersi della conoscenza delle «aziende di tutto il mondo», di punta nel settore.

Il 9 aprile scorso la Casa Bianca ha pubblicato il piano per la riorganizzazione della cantieristica navale e la movimentazione commerciale portuale: il Maritime Action Plan. Anche sulla scorta della circolare precedentemente citata, lo scopo è chiaro: quello di rigenerare l’industria marittima americana. D’altronde: «dati recenti mostrano che gli Stati Uniti costruiscono meno dell’un per cento delle navi commerciali a livello mondiale, mentre la Repubblica Popolare Cinese (RPC) è responsabile della produzione di circa la metà». 

Oltre le riforme burocratico-amministrative, gli articoli cinque, sei, sette e otto del Map si concentrano sul rapporto con la Cina e gli alleati di Washington. L’intenzione della Casa Bianca è quella di mantenere indiscussa la superiorità marittima nei confronti di Pechino: sia nella produzione navale, sia nella gestione delle merci. Il comunicato d’intenti è chiaro e risoluto: «coordinarsi con il Procuratore generale e il Segretario della sicurezza nazionale per adottare misure appropriate al fine di far rispettare qualsiasi restrizione, tassa, sanzione o dazio imposto in conformità a tali azioni». «Indagini sulle attività dalla RPC nei confronti dei settori marittimo, logistico e cantieristico», inoltre il Rappresentante commerciale degli Stati Uniti avrà il compito di adottare «tutte le misure necessarie consentite dalla legge: tariffe sulle gru nave-terra prodotte, assemblate o realizzate utilizzando componenti di origine cinese o prodotte in qualsiasi parte del mondo da una società posseduta, controllata o sostanzialmente influenzata da un cittadino cinese e tariffe su altre attrezzature per la movimentazione delle merci (art. 5, commi I-II)».

Per quanto concerne il rapporto con gli alleati, il documento si presenta alla “vecchia maniera bushana”, con toni da coalizione dei volenterosi: «Entro 90 giorni dalla data del presente ordine, il Rappresentante commerciale degli Stati Uniti, in consultazione con il Segretario di Stato e il Segretario al Commercio, coinvolgerà gli alleati, i partner e altri Paesi con idee simili in tutto il mondo in merito alla loro potenziale imposizione di azioni intraprese ai sensi degli articoli 5 e 6 del presente ordine (art. 7 comma I)». E in chiusura di questa sezione, ascoltando forse le raccomandazioni dell’ufficio per la responsabilità governativa degli Stati Uniti, all’art. 8: «Entro 90 giorni dalla data del presente ordine […] includere nel MAP tutti gli incentivi disponibili per aiutare i costruttori navali domiciliati in nazioni alleate a intraprendere investimenti di capitale negli Stati Uniti al fine di contribuire a rafforzare la capacità cantieristica statunitense».

L’entusiasmo di Presidente e sodali è alto, manifestato chiaramente in occasione della “celebrazione dei cento giorni” d’insediamento, ma, tuttavia, alcune cifre economiche mostrano perturbazioni all’orizzonte. Le proiezioni del Fondo monetario internazionale vedono un calo dell’un per cento del PIL per l’anno 2025, allo stesso modo gli scambi americani assisteranno, si stima, ad una contrazione del dodici per cento nelle esportazioni e del nove per cento nelle importazioni. L’incertezza, però, che negli Stati Uniti comincia a diffondersi, come riporta il bollettino della Federal Reserve per quanto concerne le sensazioni finanziarie, è l’elemento più rilevante. Se la finanza non è strategia, ma tattica di un’egemonia, l’America deve comunque prestare attenzione a tirar eccessivamente la corda con dichiarazioni scomposte, quasi più influenti in questo segmento rispetto alle attività governative “protezionistiche” in merito: pena la supremazia del dollaro, anche se ancora inscalfibile da eventuali avversari come lo Yuan, ma soprattutto il riflesso interno sulla produzione domestica, millantata in chiave autarchica durante la campagna elettorale, e dunque allo scollamento proprio di quello zoccolo duro dell’elettorato.

E in merito s’approssima un ulteriore percorso più carsico e ancora non del tutto definito, quello della tecnologia che surrogherebbe la base umana nelle capitali dello sviluppo, rispetto ai popoli che ancora puntano sulla massa. 

Il recente accordo firmato tra Washington e Kiev sull’ipoteca americana riguardo le “terre rare”, è altresì di natura principalmente strategica. Fondo d’investimento per il sostegno alla ricostruzione del Paese, in cambio dell’esclusiva sull’estrazione dei materiali, mentre la proprietà di suolo e sottosuolo rimane ucraina. L’approvvigionamento del quale l’America potrà beneficiare è minimo, quasi impercettibile, come esposto dal rapporto dell’Ukraine Geological Survey. Per gli Stati Uniti continuare e blindare la propria ufficiosa presenza in Ucraina è necessario per chiarire con la Russia che oltre la linea del Trimarium ucraino non si va. Inoltre, la “questione ucraina” va chiusa (andrebbe, viste le recenti dichiarazioni di Trump in merito alla pacificazione) per concentrare le forze verso Pechino che al contrario di Mosca rappresenta una minaccia vitale; similmente a quanto accadde all’inizio del secolo scorso con la precipitosa “conclusione” (momentanea) della rivalità anglo-russa da parte inglese per darsi al contrasto dell’ascesa tedesca.

La questione delle “terre rare” che da un po’ di tempo è protagonista nell’agenda governativa degli Stati Uniti, staglierebbe all’orizzonte, come alcuni osservatori sostengono e come s’è accennato, un’altra chiave di lettura: una versione alternativa che renderebbe minore l’importanza della globalizzazione, quindi le rotte d’approvvigionamento, nella strategia imperiale americana: l’ultratecnologia. E che celerebbe sotto il cosmetico propagandistico “di riportare la manifattura e l’operaiato al regime massimo di produzione– che ha convinto l’“elettorato del Midwest” – la sostituzione tramite l’Intelligenza Artificiale.

Decisamente fine e arguta in questo senso la riflessione pubblicata sul Sole 24ore dell’Amministratore Delegato di Amundi, Giovanni Federico Di Corato:

«I dazi americani non vanno letti semplicemente come una scelta di politica economica volta a difendere il lavoro domestico, ma come grimaldello strategico per forzare un riequilibrio […] Automazione, intelligenza artificiale, piattaforme, potere computazionale: il capitale non ha più bisogno di rincorrere forza-lavoro a basso costo, né di supply chain planetarie».

E in effetti il viatico verso il conflitto armato sino-americano combattuto o scongiurato, potrebbe necessitare d’una metamorfosi strutturale, una torsione certamente rischiosa e probabilmente dolorosa, al fine d’affrontarlo. La disponibilità d’impiegare risorse durante una mobilitazione, dipende ovviamente dalla capacità di produzione industriale che sostenga: l’impegno militare e quello civile nel medesimo tempo. Il Colonnello dell’Aeronautica Militare statunitense Matthew C. Gaetke, in un approfondimento per il Joint Forces Quarterly del 2020, scrive: «Confrontiamo la forza economica della Repubblica Popolare con quella dei nostri avversari durante la seconda guerra mondiale. In termini di parità di potere d’acquisto attuale, la Cina ha una quota più ampia del Pil mondiale (18,8%) rispetto a quella degli Stati Uniti (15,8%). Al contrario, gli Stati Uniti erano economicamente molto più potenti di Germania e Giappone: alla fine degli anni Trenta, il Pil americano era pari a quasi 1,3 trilioni di dollari, circa il doppio di quelli di Germania (478 miliardi) e Giappone (234 miliardi) messi insieme».

Se «la vera posta in gioco è oggi il controllo delle tecnologie critiche, quelle che determineranno le gerarchie produttive e militari dei prossimi decenni: semiconduttori,intelligenza artificiale, quantum computing, bioingegneria, batterie» – ancora Di Corato –la polverizzazione della linea produttiva interna data dalla globalizzazione, voluta negli ultimi due decenni del Novecento da Washington, tuttavia aggrava la contingenza americana. Un effetto ancor più inibente dei blocchi navali nella Prima e nella Seconda guerra mondiale, sulle materie prime e i prodotti alimentari.

Le ultime notizie sull’embrionale, ma ufficiale città muskiana nel Texas, Starbase, costruita attorno alla base di lancio di SpaceX, dà un’istantanea anche mitopoietica più chiara sulla direzione strutturale del Governo. Già nel gennaio 2025, fra gli ordini esecutivi mediaticamente firmati dal nuovo Presidente, figurava quello sulla rimozione di tutte le barriere per la supremazia americana nell’Intelligenza Artificiale.

Come sottolinea in un recente articolo la rivista specialistica Cybersecurity360, il decreto apre ad una misura più larga sui confini dell’iniziativa e sperimentazione nel comparto. Forte della concessione governativa, la pressione da parte dei giganti del settore è aumentata: «Oltre a suggerire di “modernizzare” il processo di verifica e di concessione di permessi alle aziende di IA secondo le norme di sicurezza federali, OpenAI ha infine ribadito l’esigenza di adottare una “strategia di copyright che promuova la libertà di apprendimento” e di “preservare la capacità dei modelli di IA americani di apprendere da materiale protetto da copyright”».

Il 23 aprile scorso la Casa Bianca s’è pronunciata nuovamente sull’argomento istituendo la White House Task Force on Artificial Intelligence Education, guidata dall’Office of Science and Technology Policy che ha nei propri obiettivi: l’alfabetizzazione sull’Ia per qualsiasi percorso scolastico fino all’università; la formazione professionale continua per i lavoratori adulti; lo sviluppo di programmi di certificazione e apprendistato registrato in ambito AI e infine la collaborazione strutturata tra pubblico e privato, accademia e industria. Il programma è ambizioso, ma al di là delle ricadute sociali, soltanto eventuali al momento, sulla vita quotidiana scolastica e professionale dei cittadini, dominata dall’Intelligenza Artificiale a discapito di tutto il resto, davvero sarà possibile mantenere un livello consono in tutti i percorsi scolastici considerata la diversa portata delle scuole negli Stati Uniti? E soprattutto: davvero sarà possibile preparare tutti gli adulti di oggi e a che cosa?

Al momento è difficile prevedere e il mare nella declinazione geopolitica degli stretti, anche dalle dichiarazioni e dagli aggiustamenti governativi come s’è visto in precedenza, rimane di fondamentale importanza nella strategia americana. Ciò che è abbastanza chiaro nella testa dell’Amministrazione, al di là d’interventi maldestri e di spettacolo da rotocalco, è la consapevolezza del vertiginoso avvicinamento cinese, se non nello sviluppo tecnologico, senz’altro nel dominio dell’estrazione e distribuzione e soprattutto gestione delle materie.

La produzione americana prevista di magneti da terre rare è di circa mille tonnellate, meno dell’1% della domanda globale e soprattutto circa quattrocento volte inferiore rispetto alla capacità cinese. Washington deve però prestare attenzione ad una nuova “revolutionary military affair” estesa allo sviluppo anche civile tramite ultratecnologia. Nonostante l’avanzamento tecnologico, la cittadinanza potrebbe, sensazione apparsa già in alcuni sondaggi che danno smarrimento come quello del Pew Research Center, non seguirne le logiche e certamente non accettarle nel momento in cui il processo di disvelamento dovesse concludersi. La geopolitica e l’azione per soddisfare la strategia è probabile rimanga collettiva anche nell’era “tecnocratica”.

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