Il 30 aprile 2025 non verrà ricordato come il giorno della pace in Ucraina. Non sono state firmate tregue, né è stato raggiunto un cessate il fuoco. Ma è stato posto un mattone – uno pesante – sul progetto di ricostruzione postbellica di Kiev. Il Fondo di Investimento per la Ricostruzione, finanziato dagli Stati Uniti, è formalmente un’iniziativa di cooperazione paritaria. Ma a uno sguardo attento, è molto di più: è la manifestazione concreta del “prezzo” che Washington ha chiesto e ottenuto per mantenere vivo il proprio supporto, non più gratuito, al governo ucraino.
A colpire immediatamente è l’assenza di un tema che negli anni passati aveva incendiato i rapporti tra Kiev e la Casa Bianca: le garanzie di sicurezza. Quelle che Zelensky aveva chiesto a gran voce, arrivando a uno scontro diretto con Donald Trump, e che avevano generato l’intervento dell’intero blocco occidentale a sua difesa. Oggi, quelle garanzie sembrano archiviate, forse superate da una realtà più dura: la guerra ha dimostrato che nessuno garantisce nulla per sempre. Nemmeno gli americani.
L’incontro con Donald Trump in Vaticano – un luogo simbolicamente potente, scelto forse proprio per spogliare la politica del suo alone cinico – ha avuto il sapore del compromesso obbligato. Zelensky ha firmato ciò che per anni aveva tentato di evitare: un canale privilegiato di sfruttamento delle risorse naturali ucraine, terre rare in testa, in favore degli Stati Uniti. Non tutte, ma quelle che non sono ancora oggetto di concessione. Un dettaglio? No: una clausola chiave.
Washington, da parte sua, ha riaperto i rubinetti. Nuovi pacchetti di aiuti finanziario-militari saranno erogati, ma a condizioni precise: non più elargizioni unilaterali, bensì investimenti nel contesto di un fondo misto. Traduzione: l’Ucraina paga con le sue risorse. E in cambio ottiene denaro, tecnologia, visibilità internazionale e – si spera – un futuro industriale più strutturato. Ma anche una nuova forma di dipendenza.
Chi si aspetta un’escalation militare come effetto di questo accordo potrebbe restare deluso. Perché, paradossalmente, la firma sancisce la necessità di pace. Una pace negoziata, certo, non paritaria, ma indispensabile per avviare in sicurezza l’estrazione, il trasporto e la lavorazione delle materie prime. Le guerre si combattono per il potere. Ma una volta ottenuto il controllo delle leve strategiche, la guerra diventa un ostacolo.
Il punto di equilibrio da raggiungere è chiaro: una pace “imperfetta” ma funzionale, che cristallizzi lo status quo territoriale. Crimea e Donbass sotto influenza russa. Resto dell’Ucraina legato a doppio filo all’Occidente. In mezzo, una zona grigia dove la diplomazia sostituirà le granate.
Ecco allora che l’accordo sulle terre rare si rivela per ciò che è: una clausola geopolitica incastonata dentro un patto economico. Washington ha messo un piede pesante nel sottosuolo ucraino. Un piede che pesa quanto l’intero progetto di indipendenza energetica e tecnologica dall’Asia. E se la guerra ha offerto agli Stati Uniti un’opportunità unica, Trump l’ha sfruttata con precisione chirurgica.
Mosca osserva, irritata ma non sorpresa. Il Cremlino ha colto immediatamente il significato dell’accordo: non è una provocazione militare, ma un blocco diplomatico. Il messaggio è chiaro: Washington non punta più alla vittoria totale di Kiev, ma alla gestione razionale del territorio ucraino. Territorio che sarà parzialmente integrato nell’economia occidentale, mentre una sua fetta resterà sotto controllo russo.
In cambio, Mosca potrebbe ottenere ciò che le interessa davvero: l’Ucraina fuori dalla NATO, la permanenza dei territori conquistati e, se le condizioni internazionali lo consentiranno, un riconoscimento de facto della nuova configurazione regionale.
Ma c’è un ostacolo: il tempo. Putin ha bisogno di chiudere prima del logoramento interno. Trump, invece, ha fretta. La sua amministrazione, pur essendo aggressiva nel tono, è pragmatica negli obiettivi. E il vero obiettivo non è la distruzione della Russia, bensì la sua cooptazione condizionata nel nuovo ordine multipolare a guida occidentale. Un ordine in cui anche Mosca avrà un posto – seppur subordinato – a patto che ceda parte della sua assertività imperiale.
Nel grande baratto USA-Ucraina, l’Europa è rimasta spettatrice. Bruxelles ha sempre sostenuto Kiev, ma non ha mai avuto la forza o la coesione per guidarne la ricostruzione. Ora che il gioco si fa economico – e che i settori strategici sono in palio – l’Europa rischia di perdere l’influenza conquistata con tanto sforzo. Gli americani gestiranno le miniere, investiranno nell’energia, porteranno le tecnologie. L’UE resterà cliente.
Eppure, proprio questo accordo dovrebbe risvegliare le cancellerie europee. Perché non si tratta solo dell’Ucraina: si tratta della proiezione americana nell’Europa orientale. Una proiezione stabile, profonda, legata a infrastrutture, rotte commerciali, trattati economici. E, come sempre, chi costruisce le infrastrutture, definisce le regole del gioco.
Dalla polvere del Donbass alla diplomazia del sottosuolo, la guerra in Ucraina è entrata in una nuova fase. Le armi continueranno a parlare, ma il destino del Paese sarà deciso altrove: tra studi legali, ministeri dell’Energia, board di investitori internazionali e trattative riservate tra grandi potenze.
E al centro di questa metamorfosi c’è un dato che vale più di qualsiasi trattato: chi controlla le risorse, controlla il futuro. Gli Stati Uniti lo hanno capito, e hanno agito. L’Ucraina lo ha accettato. La Russia lo teme. L’Europa, per ora, guarda. Ma la terra – quella sotto i nostri piedi – si sta muovendo.