OGGETTO: La leva umanitaria
DATA: 01 Maggio 2021
SEZIONE: inEvidenza
Con Biden, i diritti umani sono tornati ad essere il terreno di scontro per rinsaldare l'alleanza euro-americana.
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Ormai più di un mese è trascorso da quando Biden, fresco dell’approvazione del suo American Rescue Plan, annuì senza remore al giornalista che gli domandava se considerasse Putin un assassino. Da quel momento, la linea estera della nuova amministrazione democratica si è attenuta ad un metodo ben preciso: trascinare i principali rivali strategici sul terreno dei diritti umani e accusarli di fronte ad una platea più vasta possibile. È ciò che accadde al summit di Anchorage, quando la delegazione cinese cadde nella trappola orchestrata da quella americana, guidata da Antony Blinken. Il Segretario di Stato americano inchiodò l’omonimo cinese sui violenti abusi perpetrati nello Xinjiang e ad Hong Kong, nonché sui cyber-attacchi orditi dalla Repubblica Popolare e sulle pressioni esercitate su Taiwan, il tutto in mondovisione. Dopo quattro anni di amministrazione Trump, l’America sembrava tornata a far valere il suo ruolo globale di guardiano della democrazia, serrando i ranghi contro le maggiori potenze revisioniste. Se questo poteva essere prevedibile già al momento dell’insediamento di Joe Biden con il suo mantra “America is back”, è invece la risposta cinese al tranello ordito dagli americani che segnala con quali mezzi e scopi si giocherà la nuova stagione politica sulla scena internazionale. Il Consiglio di Stato cinese, infatti, rilascia prontamente un report nel quale contrattacca duramente i rivali americani sulle stesse note umanitarie, evidenziando la portata delle discriminazioni razziali che infiammano l’opinione pubblica americana, nonché le profonde disparità sociali fra la fascia di popolazione più ricca e quella più povera. L’intento è quello di tratteggiare una situazione di caos che, stando al report, minerebbe irrimediabilmente le basi della democrazia americana. Insomma, la Cina non si tira indietro, non invoca più il proprio diritto all’autodeterminazione sugli affari interni, ma contesta alla nazione americana il ruolo di cui si fregia, quasi a dire che, se non può ergersi a campione mondiale dei diritti umani, allora non ne ha il diritto neanche il rivale. Scelta che cela la consapevolezza che il soft power americano ha molto risentito della gestione della pandemia e degli ultimi disordini innescati dalle violenze esercitate dalla polizia.

Se Biden è riuscito a far calare il gelo sulle relazioni tra gli stati occidentali e le potenze asiatiche, sa bene che non può calcare troppo la mano: pena il rischio di restare intrappolato nel ruolo di colui che, mentre scopre il segreto di pulcinella sugli abusi compiuti al di fuori del mondo occidentale, prepara l’artiglieria dello Zio Sam. Per questo, ogni attacco è seguito da una pronta mano tesa. Ed ecco Biden proporre alla Cina un summit sul clima, svoltosi proprio nella Giornata Mondiale della Terra, sfizio unipolare al quale il vecchio continente, specie le fasce più giovani della popolazione, crede irrimediabilmente. Impossibile rifiutare. Le mosse verso la Federazione Russa ricalcano la stessa linea: dopo l’entrata irruente con l’ormai celeberrima intervista, Biden si preoccupa dello stato di salute del prigioniero politico Navalny, nonché della sovranità nazionale ucraina, prendendo parte all’escalation nel Donbass. In seguito alle reciproche espulsioni di diplomatici, il Presidente americano tenta comunque la mediazione, invitando Putin al dialogo sulle frizioni correnti, ribadendo di lavorare per la preservazione della pace. Insomma, America is back, ma in una versione più aggressiva e felpata allo stesso tempo, conscia dei limiti strutturali del mito americano forgiato nell’idealismo democratico post-bellico, e molto più restia che in passato ad entrare in conflitti che non siano strettamente funzionali al mantenimento dell’egemonia mondiale. L’annuncio della ritirata delle truppe dall’Afghanistan, se realmente accadrà, segnala la volontà di cessare il più longevo conflitto della storia americana, costato più di 700 miliardi di dollari all’anno. I conflitti per i quali spendersi sono identificati in altri teatri globali: non solo il Mar Cinese Meridionale, dove si giocherà (e si sta giocando) lo scontro con la Repubblica Popolare, ma anche il Mediterraneo assume un profondo valore strategico. Si tratta dello scenario dove gli americani sanno bene di dover fermare l’espansione russa e turca, pur senza entrare in conflitto con questi ultimi, alleati NATO ambigui ma estremamente funzionali all’accerchiamento della Federazione Russa sul Mar Nero. Fatto che Erdoğan ha capito bene, e che lo ha spinto a lanciare il progetto di un nuovo canale alle porte di Istanbul, con il quale sarà in grado di eludere la Convenzione di Montreux e di offrire agli Stati Uniti un nuovo passaggio personale. Lo stato americano però, data l’ambiguità turca, interessata a mantenersi in bilico fra russi e occidente, è ben lucido nel ritenere che il nuovo canale sarà a vantaggio di russi e statunitensi a seconda degli interessi della Repubblica Turca. Ed ecco allora Biden rincarare la dose, annunciando il suo proposito di riconoscere finalmente il genocidio perpetrato sugli armeni, con profonda ira di Erdoğan. Manovre che non sfuggono al Governo Draghi, totalmente interessato a scacciare i vicini anatolici dalla sfera mediterranea. Il Premier italiano, infatti, non manca di definire Erdoğan un dittatore, conseguenza del chiacchieratissimo Sofagate, la cui matrice sessista è stata enfatizzata nella grancassa della stampa europea.

https://twitter.com/intdissidente/status/1350129510486781952?s=21

Questi i fatti, accolti e analizzati dall’opinione pubblica del vecchio continente come l’agognato ritorno degli Stati Uniti al modello di sviluppo umano di cui l’Unione Europea si fa promotrice. Nella dimensione post-storica entro la quale vive il nostro continente, le dinamiche fra potenze non sono quasi mai comprese, e si tende molto spesso a pensare che esistano problemi, come il cambiamento climatico o i diritti umani, sui quali il mondo intero dovrà neutralmente convergere. Eventuali scelte strategiche non in linea con questa visione del mondo sono considerate alla stregua di rigurgiti della Grande Storia, di quando ancora i popoli si gettavano alle armi e morivano per “futili” motivi. Per inciso, queste “cose del passato” sono il presente in tutto il resto del mondo. Gli Stati Uniti sanno bene che le nazioni europee guardano il mondo da un presunto punto di arrivo dell’evoluzione umana, da leggersi come adesione ad uno status di subordinazione che preclude la totale autonomia strategica. E non sono minimamente interessati a redimerli. Attaccando i loro rivali sul terreno dei diritti umani, Biden punta a rinsaldare l’alleanza atlantica, da leggersi come dominio americano sul continente europeo. Sanno bene di non godere di una reputazione così immacolata come poteva esserlo nel dopoguerra, ma toccando i nervi scoperti degli europei (diritti umani, cambiamento climatico, libertà individuali); propongono una visione del mondo che è da loro punto di vista preferibile a quella propagata dagli attori d’Asia. Chi controlla l’Europa controlla il mondo, parafrasando Halford Mackinder. Ne è consapevole la Cina che, con la Belt and Road Initiative, mira a dar luce ad opere infrastrutturali su vasta scala, collegando la Repubblica Popolare ai principali paesi europei. Sulla stessa linea si muove nondimeno la Russia, impegnata ad amplificare la dipendenza europea alle risorse naturali che arricchiscono lo stato eurasiatico, di qui il raddoppiamento del già esistente gasdotto Nord Stream con la Germania. E lo sanno, naturalmente, gli Stati Uniti, pronti a tutto pur di impedire un eventuale asse fra la Russia e i paesi europei. Ne sono un esempio le basi militari in via di installazione in Romania, Polonia e Ucraina, cenno muscolare verso i russi, strangolabili in ogni momento. Al contempo, il summit di Anchorage è servito a ricordare alle nazioni europee, Germania in testa, che non si può flirtare a cuor leggero con i cinesi, e così con i turchi. L’eventuale nascita di un soggetto egemone nell’Eurasia è la paura storica degli americani, e impedirne in ogni modo la nascita è il perno della loro strategia naturale. Gli interventi sul continente durante le due guerre mondiali avevano questo obiettivo. Molti avranno gioito per la rinata alleanza umanitaria, altri avranno lamentato l’ingombrante attivismo americano, come se in sua assenza fosse possibile l’autonomia strategica europea brandita da Macron. L’Europa è fondamentale per chi è mosso da aspirazioni globali, e le grandi potenze non ci pensano proprio a svegliarla dal suo torpore, piuttosto ne lusingano le velleità.


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