OGGETTO: Un braccio di ferro nucleare
DATA: 17 Aprile 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Scenari
Washington e Teheran non possono fare a meno di stuzzicarsi, come una vecchia coppia, dopo colpi di stato, accordi infranti, proxy war e sanzioni. Ma la posta in gioco è altissima, dagli Houthi in Yemen alla minaccia del conflitto nucleare, passando per il futuro del conflitto israelo-palestinese e il Libano. Ora come non mai il rapporto tra le due potenze è cruciale per determinare l’equilibrio geopolitico del futuro ordine mondiale.
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4 febbraio 2025. Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump afferma che l’Iran dovrà essere “obliterato” in caso di un suo assassinio. La dichiarazione trova una sua prima giustificazione nel presunto complotto sventato l’8 ottobre 2024 dal Dipartimento di Giustizia USA secondo il quale l’ex-cittadino statunitense di origini afghane Fahrad Shakeri, ora residente a Teheran, avrebbe telefonato all’FBI nel tentativo di negoziare uno sconto di pena per un concittadino iraniano in carcere negli Stati Uniti, dicendo di essere stato incaricato dalla Guardia Rivoluzionaria iraniana di escogitare un piano per uccidere Trump, oltre ad alcuni cittadini iraniano-americani accusati dal regime degli Ayatollah di essere spie filo-americane; complici di Shakeri sarebbero dovuti essere Carlisle Rivera e Johnatan Loadholt, due cittadini newyorkesi successivamente posti sotto custodia dall’FBI.

In seguito alla vicenda, secondo il Times, su richiesta degli iraniani, il magnate e fedelissimo di Trump Elon Musk riceve l’ambasciatore ONU dell’Iran, Amir Saeid Iravani: i due si incontrano presso località segreta l’11 novembre e discutono per un’ora sul programma nucleare, sulla situazione in Palestina e sul presunto piano per eliminare Trump. Iravani nega ogni veridicità, prima di congedarsi. Curiosamente, pochi giorni dopo il Ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi negherà che l’incontro sia mai avvenuto. In ogni caso, riporta il Wall Street Journal, resta il fatto che l’Iran abbia informato nel mese precedente l’amministrazione Biden che non avrebbe in alcun modo pianificato l’eliminazione di Trump, allora candidato, dopo che egli aveva già a settembre dipinto il regime iraniano come la principale minaccia per gli USA e prefiguratosi che in seguito a tale affermazione avrebbero cercato di sabotarlo e perfino eliminarlo.

Poco dopo l’affermazione bellicistica, il 9 febbraio, Donald corregge il tiro, o almeno ci prova, affermando che in realtà non vorrebbe altro che “un accordo con l’Iran sulla rinuncia al nucleare, piuttosto che raderlo al suolo”, e che preferirebbe “un programma di anti-nuclearizzazione verificato che consenta all’Iran di prosperare in pace”; Araghchi risponderà dicendo che l’Iran non si pone il problema, non essendo propenso all’uso di armi di distruzione di massa (frecciatina all’uso di armi chimiche da parte degli iracheni sostenuti dagli statunitensi durante il conflitto contro la Persia negli anni ‘80). I toni tornano a scaldarsi quando un mese dopo, il 15 marzo, Trump conduce un attacco contro gli Houthi in Yemen in seguito a un mese di incursioni da parte di questi verso obiettivi statunitensi e britannici nel Mar Rosso, particolarmente importanti gli attacchi verso una nave britannica e un caccia americano, e accusa gli iraniani di essere i promotori di tali azioni commissionate ai ribelli yemeniti; l’Iran controbatte minacciando una risposta “decisiva e devastante” in caso di offese dirette alle forze iraniane e negando qualsiasi coinvolgimento nelle manovre militari perpetrate dagli Houthi, i quali a loro volta chiariscono che si vendicheranno e che proseguiranno nelle loro azioni fino a che Gaza sarà sotto assedio. Trump ribatte sulla risposta dell’Iran, definendola menzognera, dichiarando che da lì in poi qualunque attacco degli Houthi sarebbe stato imputato alla Persia, e il 26 marzo schiera 2 portaerei, 7 aerei-cargo e 7 bombardieri stealth B2 nei pressi dell’Atollo Diego Garcia, Oceano Indiano, in un punto strategico equidistante da Yemen e Iran: un messaggio chiaro e minaccioso.

La risposta iraniana stavolta non è più rassicurante: il consigliere Ali Larijani afferma l’1 aprile in diretta televisiva che a fronte di futuri bombardamenti sul loro suolo gli iraniani si troveranno costretti a infrangere gli accordi stipulati precedentemente con l’AIEA riguardo al nucleare e a riarmarsi in tale senso. E forse la voce forte ha aiutato Teheran poiché 2 giorni dopo Trump affermerà di essere sicuro che l’Iran “non vuole più comunicare tramite epistole e intermediari, credo che vogliano colloqui diretti”: una riapertura al dialogo? Probabilmente sì, in quanto il 12 aprile sono iniziati i colloqui di pace nucleare tra le due nazioni, che si sono tenuti finora a Muscat, in Oman, e si protrarranno entro la settimana corrente a Mosca e anche nella nostra capitale, Roma: i rappresentati dei due Paesi sono l’inviato speciale dalla Casa Bianca Steve Witkoff e il già citato Abbas Araghchi per l’Iran, con la mediazione del suo equivalente dell’Oman, il Ministro degli Esteri Badr Al Busaidi.

Da quello che è stato detto, permane la politica di massima pressione intrapresa da Trump (con lo zampino di Nethanyahu), per cui è stato ribadito che in caso di mancato raggiungimento di un accordo a loro favorevole (una promessa dell’Iran di non armarsi a livello nucleare), gli Stati Uniti procederanno con un’azione militare; di contro l’Iran si è detto finora soddisfatto e geopoliticamente fortificato dalla decisione di Trump di prestarsi a colloqui diretti (nonostante la politica della Repubblica Islamica li avesse in realtà vietati categoricamente dal 1988), e ha dichiarato che finché non verrà chiesto lo smantellamento degli stabilimenti civili di energia atomica non vi sarà problema. Nell’attesa di sapere di più al termine della terza settimana del mese di aprile, per capire meglio il significato e il peso dell’attuale situazione, una breve cronistoria del complicato rapporto Iran-USA.

Roma, Aprile 2025. XXVI Martedì di Dissipatio

Nel corso della storia recente gli Stati Uniti d’America si sono intromessi, spesso in modo poco pacato, negli affari iraniani. Nel 1953 con il sostegno degli Stati Uniti e delle intelligence francese e britannica la monarchia filoccidentale dello Shia Mohammad Reza Pahlavi si impone con un colpo di stato sul democraticamente eletto presidente Mohammad Mossadeq; la gratitudine di Pahlavi (o forse il motore dell’azione occidentale a priori) si quantifica in un accordo della durata di 5 anni con le compagne petrolifere di USA, Francia e Regno Unito per la fornitura di petrolio a un prezzo a loro conveniente per un quantitativo pari al 40% della produzione iraniana. Un accordo fruttuoso per gli Yankees, in quanto nel 1972 il monarca sciita i proventi del petrolio li rinvestirà in armamenti bellici americani di avanzata tecnologia, e con lo stesso arsenale si preparerà a fiancheggiare lo zio Sam contro gli iracheni in funzione anti-URSS. Ma nel 1979 il primo intoppo. Gli studenti radicali fondamentalisti sciiti a Teheran protestano per mesi contro l’occidentalizzazione dell’Iran e per cessare di essere un satellite USA; vengono sequestrati centinaia di studenti americani presso l’ambasciata statunitense, nel frattempo che l’ayatollah Ruollah Khomeyni, in esilio da 12 anni, ritorna in Iran e grazie ai sostenitori diventa il nuovo leader del Paese, dando inizio alla Repubblica Islamica che oggi conosciamo. L’allora Presidente USA Jimmy Carter decide di congelare 12 miliardi di dollari di asset iraniani. Da allora ad oggi, i due Paesi cessano di comunicare diplomaticamente a livello formale: sul suolo statunitense è infatti l’ambasciata pakistana a curare gli interessi iraniani, e in Iran è invece l’ambasciata svizzera a curare gli interessi statunitensi. Nel 1980 inizia la guerra tra Iran e Iraq sunnita, che vede gli Stati Uniti cambiare sponda e supportate quest’ultimo in conseguenza degli ultimi sviluppi iraniani; ciononostante gli USA si ritrovarono nuovamente a vendere, stavolta sottobanco, armamenti bellici all’Iran, alimentando così il massacro di entrambe le fazioni: è il famoso Iran-Contras affair, dal quale Washington ottenne il rilascio dei prigionieri di guerra in Libano da parte di Hezbollah e le risorse per il finanziamento dei Contras in Nicaragua (la famosa operazione Condor della CIA che diede i natali a molti dei cartelli della droga che conosciamo oggi). La guerra finirà otto anni e un milione di morti dopo grazie a un prolungato intervento ONU.

Nello stesso 1988 un incidente diplomatico rende la situazione tra i due Stati ancora più sgradevole: una nave da guerra americana abbatte sul Golfo Arabo un aereo civile iraniano diretto alla Mecca, uccidendo 290 persone. Nel corso degli anni 2000 viene ripreso il dialogo tra le due nazioni, cominciando dal  dispiegamento alleato di forze contro i talebani afghani e nonostante nell’invasione USA dell’Iraq le truppe irachene sciite supportate dalla Persia avessero in più occasioni attaccato le truppe a stelle e strisce (nel 2002 Bush aveva inoltre definito “Asse del male” l’Iran affibbiandolo a Nord Corea e Iraq), e nonostante gli americani si riconoscano foraggiatori del PEJAK, il partito di resistenza antigovernativa curda in Iran, e di Jundullah, gruppo terroristico wahabita pakistano dichiaratamente anti-iraniano. Addirittura nel 2015 l’Iran entra a far parte del P5+1, programma nucleare in collaborazione con Regno Unito, Cina, Russia, Stati Uniti, Germania e Francia. Con Trump alla ribalta nel 2018 però i rapporti riacquisiranno un sapore amaro con il ritorno delle sanzioni e la recessione degli USA dall’accordo sul nucleare, il tutto a favore di Israele ed Arabia Saudita; in risposta a ciò la Repubblica Islamica persiana muove i ribelli Houthi in Yemen ad attaccare gli oleodotti arabi. Come se non bastasse l’eliminazione di Soleimani del 2020 in Iraq sprona l’Iran a ritirarsi a sua volta dal programma del P5+1 e a sviluppare in autonomia i propri piani militari. A poco sono serviti gli sforzi di Biden, con tanto di negoziati da parte di Egitto, Giordania, Bahrein, Qatar e, ovviamente, Arabia Saudita e Israele, e lo sblocco di 6 miliardi in asset precedentemente bloccati per via delle sanzioni, dati gli avvenimenti del 7 ottobre in Palestina e nei territori israeliani, venendo l’Iran accusato di aver addestrato e armato i militanti di Hamas: all’accusa segue un nuovo congelamento dei fondi iraniani e un attacco verso le milizie sciite in Iraq e Siria da parte degli USA e l’attacco delle basi militari statunitensi da parte delle milizie di Hezbollah in Libano, Israele e Giordania. Trump, nel corso della sua campagna elettorale del 2024, affermerà di essere stato minacciato a livello informatico dall’Iran, e a sostegno di ciò vi è un rapporto Microsoft da cui risultano effettivi i tentativi stranieri di spionaggio di documenti sensibili americani. 

Quale sia alla fine il risultato della politica aggressiva di Trump lo si vedrà a stretto giro.

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