L’amministrazione Trump è uscita di scena, ma la strategia della massima pressione è ancora lì, in piedi, che attende di essere superata da piani d’azione più consoni alla realtà fattuale: l’Iran si piega, soffre e patisce, ma non si spezza. Quest’anno, infatti, nonostante l’aumento della pressione sanzionatoria, l’eliminazione di Qassem Soleimani e l’omicidio hollywoodiano di Mohsen Fakhrizadeh, la rivoluzione khomeinista spegnerà la candelina numero quarantadue. Quest’anno, rispetto agli anni scorsi, vi saranno dei motivi ulteriori per festeggiare: il peggio – ossia Trump – è passato, il dialogo con la Russia potrebbe condurre l’Iran ad entrare nel mercato dell’Unione Economica Eurasiatica e il rapporto con la Cina, l’unica potenza realmente in grado di sfidare (e vincere) l’egemonia statunitense, è stato elevato in maniera straordinaria nella giornata del 27 marzo 2021.
Quel giorno è accaduto che Mohammad Javad Zarif e Wang Yi, i capi della diplomazia di Iran e Cina, hanno traslato in realtà il cosiddetto Programma di cooperazione venticinquennale, anche noto come il Partenariato strategico globale Cina–Iran, un ricco e sfaccettato accordo di collaborazione omnidirezionale abbozzato nel giugno dell’anno scorso. Il documento prevede, tra le varie cose, che l’Iran venda alla Cina petrolio a prezzi modici per venticinque anni, investimenti del Dragone nell’economia iraniana per quattrocento miliardi di dollari nello stesso periodo – specialmente in infrastrutture –, e un ampliamento critico della cooperazione nella sfera militare – inclusa la produzione di armamenti – e nell’intelligence – cioè condivisione di informazioni tra i servizi segreti. L’accordo splende di luce propria, in quanto palesemente realizzato per dare vita ad una sinergia operativa a metà tra il partenariato strategico e l’alleanza, ma richiede comunque una spiegazione per i non addetti ai lavori. L’evento ha dello storico perché, oro nero e denaro a parte, potrebbe gettare le fondamenta per la materializzazione degli incubi geopolitici di Zbigniew Brzezinski e Samuel Huntington di un “asse islamico-confuciano”, che, a sua volta, sarebbe propedeutico e funzionale alla distruzione dei sogni egemonici mediorientali del triangolo Stati Uniti–Israele–petromonarchie e al riverberamento di effetti nell’intera Eurasia, in primis in Russia, in secundis nel mondo turcico e in tertiis nell’Indosfera.
L’accordo, inizialmente voluto più da Teheran che da Pechino, è stato siglato con uno scopo preciso: inviare un messaggio alla Casa Bianca. Quel messaggio è il seguente: “l’Iran non è più da solo”. E, in effetti, l’Iran, se l’accordo venisse effettivamente concretato, cesserebbe di essere una potenza in solitaria per trasformarsi in un protettorato informale della Cina, una potenziale “linea rossa” la cui integrità andrebbe preservata ai fini della riscrittura delle relazioni internazionali in Asia e della salvaguardia della Nuova Via della Seta. Non un accordo qualunque, dunque, ma uno strumento con il quale Pechino ipoteca il controllo su Teheran evitando che quest’ultima cada a causa dello strangolamento economico occidentale e della potente guerra senza limiti mossale da Tel Aviv – omicidi eccellenti, distruzione di avamposti lungo il cosiddetto asse della resistenza e sabotaggi alle infrastrutture strategiche. Perché cooperazione nell’intelligence significa questo: aiuto diretto a contrastare le operazioni ostili ordite dall’estero con la complicità di quinte colonne, dagli attentati agli assassinii, ergo entrata indiretta dell’Impero di mezzo nella guerra fredda tra Iran e Israele (e Stati Uniti) e scelta di campo chiara e netta laddove sino a ieri era stata preferita una posizione defilata.
Evidentemente a Pechino deve essere maturata la consapevolezza che il confronto con la Casa Bianca non era estemporaneo, cioè un capriccio di Donald Trump, ma che trattasi di un fenomeno destinato a perdurare nel tempo e ad assumere la forma di una vera e propria guerra fredda. L’Iran riveste un ruolo fondamentale all’interno di questo contesto di bellicosità: può essere utilizzato in Medio Oriente nello stesso modo in cui gli Stati Uniti usano Israele e/o le petromonarchie, cioè come un ariete le cui mosse possono stabilizzare o destabilizzare. La Cina ha compreso anche l’ultima verità, nonché la più importante: la guerra fredda 2.0 può essere vinta soltanto a condizione di dar vita ad una coalizione antiegemonica, da qui l’intesa cordiale con la Russia e il patto venticinquennale con l’Iran. Quello che manca, adesso, è l’unificazione dei partenariati paralleli in un tutt’uno iperpotente: un essere mitologico per un terzo orso, per un terzo drago e per un terzo leone.